Al di là dei riti

Direttore G. Paolo Quattrini

Istituto Gestalt Firenze

G. Paolo Quattrini – Psicoterapeuta Direttore Responsabile IGF

Pubblicato sul numero 45 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

Rituali, fra forma e trascendenza

Si può ricordare solo quello che ha una forma costante, ma l’esperienza non la ha, così gli esseri umani si sono dovuti inventare qualcosa che conservasse la forma in congruenza a quello che si sente: come dice la Bibbia, l’uomo trovò la parola, e così cominciò tutto. La parola non corrisponde precisamente a quello a cui si riferisce, ma solo più o meno: si dice una mela e sembra di capire cos’è, ma la quantità di mele differenti è grande, però con questa parola ci si capisce, e con parole successive si può precisare l’oggetto in questione.

Bisogna considerare poi che il rapporto con altro da sé passa dalla vita emozionale, la quale è alquanto balzana e si adatta poco a esigenze prestabilite: non ci si può assolutamente aspettare per esempio che gruppi di persone provino spontaneamente gli stessi sentimenti nello stesso momento. D’altra parte, ci sono i momenti di collettività, esigenze della vita sociale che hanno molte difficoltà ad essere soddisfatte, e che richiedono un processo di polarizzazione almeno parziale degli stati d’animo del gruppo perché i singoli individui possano identificarsi momentaneamente nell’insieme sociale: sul piano istintivo le capacità umane non sono state selezionate per accogliere affettivamente nella propria comunità più del numero dei componenti di una tribù, e strutture socio-politiche più vaste, per riuscire nell’impresa di coedersi e rimanere coese, necessitano di specifici strumenti che riescano a polarizzare emotivamente i componenti del gruppo in una qualche dimensione trascendente.

La messa in scena di situazioni difficili è uno strumento fondamentale: non è spiegando alle persone come si fa qualcosa che non sanno fare e che cercano di imparare a farlo, mentre risulta in genere efficace accompagnarli in una rappresentazione scenica della situazione, dove ne fanno esperienza diretta. Normalmente la paura ferma l’esperienza a prima dell’evento, mentre nella rappresentazione la persona raggiunge il momento successivo, dove l’emozione risulta ben differente: la messa in scena è un rito, come si sa bene in teatro, e permette uno sviluppo dell’esperienza altrimenti difficile.

Insomma, il rito, che senza spiegare può connettere la persona a qualcosa di altrimenti inafferrabile, è strumento per eccellenza di iniziazione al senso. I riti si rivolgono necessariamente all’intelligenza analogica, non a quella digitale: metafore e simboli sono il linguaggio di quelle verità che trascendono la logica, interpretarli equivale a ridurli a nient’altro che, perdendo così il loro reale potenziale di rivelazione, mentre il modo naturale di avvicinarcisi è appunto l’uso di rituali piccoli e grandi.

Ma il rito è figlio delle tendenze dell’uomo a trascendere il concreto o è il contrario? Non è una domanda vera, dato che non può avere risposta, ma è una pulce nell’orecchio: e se l’appartenenza per esempio non fosse altro che la ripetizione infinita di certi rituali, se fosse la ripetizione dei gesti che scatena l’emozione relativa? Considerando i massacri che l’appartenenza e la non appartenenza hanno prodotto nella storia, queste apparirebbero figlie di illusioni insensate oltre che orribili, e gli esseri umani essere orribili capaci di prenderci gusto: per questo proporre l’appartenenza come un’illusione avrebbe probabilmente nella gente le stesse reazioni fobiche che ebbe l’idea di discendere dalle scimmie.

Si può considerare che i primi rituali siano ovviamente in relazione alla madre, e un’immagine arcaica che viene in figura sono le ochette che seguono disciplinatamente la madre a intervalli regolari di spazio: un rito che potrebbe concretizzare l’amore per la madre. Allontanate dalla madre pigolano: ma è l’espressione di una emozione oppure il bisogno di continuare il rito?

Uno dei riti più radicali per gli esseri umani è mangiare insieme: si può dire che il senso della famiglia ha riposato per lungo tempo sullo stare seduti alla stessa tavola, da cui ai figlioli era proibito alzarsi prima della fine del pasto. Si sta seduti a tavola insieme perché si è una famiglia, o si è una famiglia perché si sta seduti li insieme? La domanda potrebbe allora essere: senza rituali, si può essere una famiglia?

Le famiglie di leoni hanno rituali? Oltre al fatto che le femmine si danno molto da fare e i maschi stanno seduti col naso all’aria, si può vedere varie ritualità fra le madri e i cuccioli: per esempio le madri sopportano molto, poi danno un qualche schiaffetto e i cuccioli smettono di disturbarle. Non parliamo poi del corteggiamento, dove per esempio i grossi maschi delle tigri strisciano dietro alle femmine con le zampe davanti ripiegate all’indietro per sembrare innocui, esponendo il naso alle loro zampate furiose. Gli esempi sono infiniti, l’unica cosa certa è la presenza costante di rituali in ogni situazione sociale di animali e uomini.

Il punto di vista romantico è che l’amore produca i rituali adeguati, ma si potrebbe prendere in considerazione che i rituali siano un modo di dare forma a quell’invisibile che è l’amore, e che sono quelli che hanno reso l’uomo capace di vedere il trascendente: la faccenda sarebbe allora che il rito è a lama di coltello fra il trascendente che evoca e la sua reificazione, l’oggetto concreto che è, cioè i movimenti e i suoni con cui si espleta. La stupidità umana è da sempre preda del processo di reificazione, perché come S. Tommaso, crede solo a quello che vede, e visibile è appunto il rito.

Il rito è la base per la pratica della trascendenza, che essendo inafferrabile come un uccello in volo, ha bisogno di una stabilizzazione che la renda osservabile a volontà: il rito richiama l’oltre, come un ponte chiama l’altra sponda di un fiume. È plausibile che i movimenti e i suoni dei riti siano all’origine funzionali all’esperienza: pensiamo per esempio al rito del riorientamento dell’aggressività nelle oche, che si mettono spalla a spalla contro gli avversari. Sembra plausibile che sentirsi le spalle coperte dia un senso di maggiore sicurezza, e che l’oca che sta dietro diventa un oggetto di fiducia e assume su di sé l’emozione di alleanza. Anche nel mondo umano mettersi spalla a spalla è un rito che facilita sentirla, e non è un oggetto ma un fenomeno.

Ci si abbraccia e bacia per amore, o l’amore è evocato degli abbracci e dai baci? Difficile da dire, e normalmente non si perde tempo a chiederselo. Ma il corteggiamento? È ovvio che sentire attrazione non basta per stabilire una relazione, e molte relazioni possibili sono naufragate per una mancanza di linguaggio adeguato, quello che si può chiamare il rituale: la forma di questo rituale può essere molto varia, ma in genere articola movimenti di avvicinamento con movimenti di allontanamento, perché l’avvicinamento è interessante ma pericoloso e l’allontanamento rassicurante e rattristante.

È ovvio che è importante l’amore e non il rituale, ma è altrettanto ovvio che ci si avvicina all’amore attraverso ritualità che possono essere imparate e perfezionate, cosa che non si può fare direttamente dell’amore. Il luogo specificatamente deputato all’apprendimento e al perfezionamento dei rituali è la drammatizzazione: in teatro bisogna fare molte prove prima di trovare una forma soddisfacente di esprimere uno stato d’animo, una situazione, e per sviluppare un rito di corteggiamento che evoca nell’interlocutore il sapore dell’amore, bisogna metterlo in scena e cambiarlo finche si trova una modalità ottimale. Se poi ci si mette nei panni dell’altra persona, attraverso l’empatia si può incontrare un altro tipo di verifica, che è ascoltare che effetto fa il proprio comportamento.

Sarebbe superfluo indicare l’importanza del rito nel mondo militare, dove si può affermare senza esagerazione che tutto è rito, parole movimenti e atteggiamento, che sono preordinati e obbligati nell’ottica di evocare e sottoscrivere la subordinazione al comando. Se però si afferra la relazione fra il rito e la trascendenza, si capisce l’importanza ben più complessa dei riti nelle religioni: anche nelle pratiche religiose parole movimenti e atteggiamenti sono preordinati, ma allo scopo di percepire, nel silenzio dell’io, una “voce” senza suono che viene oggettivata nel rituale, cosa che permette di ricordarla e riconoscerla ripetendo il rito.

La voce della trascendenza non è direttamente maneggiabile, il termine voce serve a evocare qualcosa che non ha forma, che è ineffabile: il rito invece può essere cambiato all’infinito, e dell’infinita varietà di riti qualcuno può funzionare meglio e qualcuno peggio, e questo chiarisce la grande varietà di stili religiosi. Da qui l’importanza di quello che viene evocato, non della modalità di evocarlo, ma la passione umana per la reificazione che inverte i termini della questione, è poi una base delle guerre di religione.

Per secoli le messe cattoliche sono state in latino, malgrado che pochi ascoltatori lo capissero, e dal punto di vista della coltivazione dello Spirito funzionava benissimo: l’importante del rito della messa non è ciò che spiega, ma ciò che evoca, e il canto in questa lingua arcaica trasportava in alto chi l’ascoltava. La trascendenza non è oggettivabile, se non in concetti che cercando di possederla ne invalidano il senso: la trascendenza è ineffabile e ermetica. Ermes era il messaggero degli Dei, e portava la loro voce in maniera ermetica, cioè incomprensibile ma evocante, analogica e mai descrittiva: chi ha orecchie per intendere intenda, diceva Gesù Cristo.

Il rito non spiega, chiama qualcosa che è senza nome e a cui si allude con i gesti e le immagini più dense di esperienza che esistono. Così Dio è il padre e la Madonna la madre, parole così evocative di esperienze e di comportamenti di ogni tipo che tutti capiscono, anche se ognuno a modo suo: lo scopo è di avvicinarsi a qualcosa che trascende il visibile, trascende l’io della persona, e apre gli occhi a un panorama ben più vasto di quello del normale egocentrismo infantile in cui gli esseri umani tendenzialmente affogano.

Ritualità e reificazione

Cultura implica fermare il tempo, solo così si stabilizzano elementi che possono essere articolati fra loro nell’invenzione di nuovi aspetti della realtà. La stabilizzazione può essere assoluta o relativa, quando è assoluta trasforma l’elemento in cosa, per esempio in un nome, ed è questo che si chiama reificazione, cioè cosificazione.

Reificare implica una banalizzazione, e questo è il costo della stabilità, così importante per mantenere l’identità, personale e sociale, strumenti essenziali per la sopravvivenza: le regole sociali banalizzano l’esperienza e stabilizzano il futuro del mondo. Si tratta però del mondo dele cose, delle produzioni industriali, degli acquisti, del lusso, dell’esibizione e dell’importanza sociale, del lato insomma più discutibile della realtà umana.

Ma c’è qualcosa oltre gli oggetti? Ovvio, gli oggetti sono invenzioni umane che dipendono dalla parola, cioè dal loro nome: la domanda allora è, cosa c’è prima degli oggetti? E la risposta è l’esperienza, che non è uguale a sé stessa e scivola nel tempo se non è trattenuta dalle parole. Ma se è chiaro a che servono gli oggetti, a cosa serve l’esperienza? O comunque, in che senso è importante?

Se gli oggetti rappresentano la quantità, la qualità è data dall’esperienza, che conferisce valore alla vita. Il valore, il kalos kai agathos dei greci, non ha forma oggettiva, e si riconosce appunto dall’esperienza di valore, che è per definizione il senso stesso della vita.

Paradossalmente dunque, la sopravvivenza e il senso della vita non sono la stessa cosa: coesistono ma obbediscono a regole differenti, e a volte bisogna sacrificare l’una per fare esistere l’altra. Quantità e qualità sono ugualmente indispensabili, e vengono conosciute dai due diversi linguaggi che abbiamo a disposizione, il digitale e l’analogico, la mano destra e la mano sinistra della mente umana, la scienza e l’arte: inutilmente si indagherebbe scientificamente con un linguaggio analogico, e altrettanto inutilmente si perseguirebbe valore con un linguaggio digitale.

Qui si arriva a un punto essenziale del discorso: come si fa a perseguire valore senza le parole? E prima delle parole l’umanità non conosceva il valore? Certamente sì, e allora come faceva a scoprirlo senza le parole per stabilizzare l’esperienza? La risposta evidente è il rito.

I riti sono azioni che si ripetono sempre uguali, allo scopo di far sperimentare qualcosa di specifico a chi li fa: che siano religiosi, o magici, o bellici, si tratta sempre di accorgersi cosa si prova a farli, e di rifarli per provare di nuovo l’esperienza in questione. Sono insomma gli antesignani delle parole, servono per dare forma all’esperienza e costruirci una cultura.

Come le parole, i riti evocano realtà dinamiche, e come le parole posso essere reificati in ricette di comportamento oggettivo, perdendo in questo modo l’evocazione del valore. Riti e parole sono insomma realtà ambivalenti, che possono descrivere o evocare a seconda di chi se ne serve: importante nella vita riconoscere la differenza e usarla a seconda delle proprie necessità.

La descrizione identifica gli oggetti e le loro particolarità e ne permette l’utilizzo nel mondo concreto: dire che quello è un frullino permette alla persona di sapere che le permette di frullare, o una pentola, che le permette di cuocere, e via dicendo. L’evocazione invece chiama, cose mai viste, mai pensate, e le identifica con le metafore: è come se…….

Aldilà dei riti.

Rito è tutto ciò che ha una forma che si ripete, dai comportamenti alle parole stesse (in principio era il verbo dice la Bibbia): i riti segnano l’inizio della storia umana, prima non c’è niente che possa essere ricordato. Cultura è coltivazione, e la coltivazione delle attività umane richiede appunto rituali che conservino la stabilità della forma. Le culture primitive sono dedite a rituali la cui funzione è riferita a un effetto sul mondo esterno, mentre è quello interno il destinatario reale. I rituali relativi al sorgere del sole non hanno ovviamente la funzione di far sorgere il sole, ma di celebrare la sua comparsa con una serie di comportamenti ripetitivi che portano l’attenzione della persona sull’evento, e ne mettono in risalto la straordinarietà: il rito non fa sorgere il sole nel cielo, ma lo fa sorgere nel cielo interiore, cioè nel vissuto della persona. Nelle culture primitive non viene evidenziata la differenza fra significato e senso, fra ciò che si pensa e ciò che si sente, e ugualmente non si differenzia fra quello che avviene fuori e quello che avviene a livello intrapsichico: il sorgere del sole e l’esperienza di veder sorgere il sole entro certi limiti sono la stessa cosa. Il rito è ripetizione, strumento basilare di ogni coltivazione, e questa è il terreno su cui si impianta la vita sociale.

Cultura, cioè coltivazione, è coltivazione di senso, cioè dell’importanza sul piano del senso della vita di certe esperienze, e di come possono essere elaborate e sviluppate ulteriormente: il rito riguardo al sole coltiva l’importanza di ascoltare l’esperienza relativa, apprezzarla e imparare le molte cose che da questa possono essere imparate, e con le quali si possono metaforizzare molti aspetti elusivi della propria vita. Il rito stabilizza elementi sfuggenti: le ricette di cucina fermano nel tempo e rendono ripetibili accidenti felici che in questa maniera non sono divorati dall’oblio, e dall’altra parte rendono più piacevole un evento indispensabile come il mangiare quotidiano, coltivando così la qualità della vita degli esseri umani.

Dato che un rituale serve a portare in un “luogo” preciso e allo stesso tempo non definito, deve cioè connettere l’esperienza con i concetti e con il mondo concreto, non può avere una forma qualsiasi: nelle culture avanzate c’è una vera e propria tecnica che permette di raggiungere questo scopo, e in un modo che incidentalmente assomiglia non poco all’induzione terapeutica fatta attraverso storie intrecciate come la teorizza Lankton nel suo manuale di ipnosi eriksoniana1.

Dice Fernando Pessoa:

Supponiamo dei sacerdoti che (…) vivano in un mondo pagano che crede in molteplici dei (…), e vogliano comunicare (…) una nuova dottrina (…): nello stabilire il rituale (…), dapprima cercheranno fra gli dei pagani quello la cui storia possa adattarsi, come l’ombra al corpo che la proietta (…). Troveranno ad esempio Bacco (…): essi redigeranno una formula mediante la quale, (…) riescano a rappresentare la nuova storia per simboli e analogie nella storia di Bacco (…). Cercano poi una figura, reale o mitica, in cui trasporre gli eventi (…). Trovata tale figura, si mettono in parallelo la sua vita e la sua morte con la vita e la morte di Bacco, ed è intorno a questa figura, doppiamente simbolica che viene elaborato il rituale: così ogni rituale è il simbolo di un simbolo, l’ombra di un’ombra.”

L’operazione che descrive Pessoa è una fusione fra un’intuizione innovativa, che come tale non ha ancora forma, e una forma stabilizzata dal pensiero e collaudata nel tempo, che ha evocato a lungo un tema trascendente: un ricordo storico che è allo stesso tempo concreto e evanescente. Qualcosa insomma che si conosce col pensiero e che si può sperimentare. Si tratta qui di un rituale costruito consapevolmente e a livelli culturali ben sviluppati, ma il tema del rito come strumento per la trascendenza è ben più antico e meno consapevole.

Victor Turner 2mostra come il teatro elabora più antichi rituali in nuove forme, provando mille modi di condurre le stesse azioni e trovando quelle che hanno l’impatto maggiore nelle persone coinvolte: è qui che comincia lo sviluppo della cultura umana. È un inizio arbitrario ma chiarificante: si inizia da lì, quando una serie di parole sono associate a specifici oggetti, materiali o astratti. Non è che prima non c’era niente, ma quello che c’era non era messo in un ordine riconoscibile, ricordato e ripetibile a volontà. La Bibbia è stato un imbroglio a fin di bene, bisogna riconoscerne l’importanza ma non prenderlo alla lettera: non c’è un principio assoluto, forse non lo è neanche il big bang.

I riti compaiono nel mondo animale ben prima che nell’uomo, che li sviluppa poi enormemente, creando così quelle che chiama le civiltà: le differenze fra le varie civiltà sono quelle dei loro riti, anche se ideologicamente affermano differenze essenziali, che uno sguardo sul piano spirituale sconferma, come ha fatto notare Papa Francesco. Nel loro lato più banale i riti sono un modo di tramutare ciò che si percepisce in qualcosa di concreto, raggiungibile con i cinque sensi, di trasformare cioè tutto il mondo in cose (come vorrebbero i cognitivisti), evitando in questo modo le problematiche della trascendenza: qui si apre il tema del back ground epistemologico di ogni genere di pensiero, delle teorie della realtà, del punto di vista cioè su cos’è la realtà, che stringe o allarga il pensiero. I riti in realtà hanno una doppia funzione, quella di stabilizzare delle forme le quali a sua volta evocano l’ineffabile: il fatto è che gli ignoranti poi guardano le forme e non quello che indicano.

La base biologica dei rituali presumibilmente sono quei processi di ritualizzazione di gesti funzionalmente ottimizzati che si riscontrano negli animali, una tendenza sostenuta da meccanismi autogeni che ne impediscono l’evitamento e ne assicurano la stabilità. Il gesto inoltre induce lo stato d’animo corrispondente, come sapeva Pascal, che consigliava a chi non aveva fede di inginocchiarsi e pregare perché così la fede sarebbe arrivata, o come teorizzano quei metodi di addestramento alla recitazione che fanno raggiungere all’attore un certo stato d’animo a partire dai gesti che lo caratterizzano (nel teatro per es. il metodo Costa). Questa profonda interconnessione fra gesto e stato d’animo è quella che permette a gruppi di persone di raggiungere tramite un rituale, anche solo quello del saluto, una polarizzazione di stati d’animo tale da superare la naturale diffidenza e aggressività verso l’estraneo, fino a considerarlo amico, fratello, compagno. Qualunque cultura tiene insieme la sua compagine attraverso i rituali, che sono per lo più religiosi, ma possono essere anche del tutto laici.

Bisogna considerare inoltre che se i rituali da una parte hanno una funzione meccanica di stabilità culturale, d’altra parte ce l’hanno in quanto assicurano all’individuo una piacevolezza della vita sociale che gli permette di desiderarla e per questo di curarsene: questa si può considerare una esperienza trascendente, senza la quale essere concittadini invece che un valore è una astrazione senza fondamento emotivo, regolata solo da un freddo senso del dovere e per questo facilmente ignorabile.

A proposito dei rituali, bisogna considerare che il rapporto con il mondo esterno consiste nella vita emozionale, la quale è alquanto balzana e si adatta poco a esigenze prestabilite: non ci si può assolutamente aspettare che gruppi di persone provino spontaneamente gli stessi sentimenti nello stesso momento. D’altra parte ci sono i momenti di collettività, esigenze della vita sociale che hanno molte difficoltà ad essere soddisfatte e che richiedono un processo di polarizzazione almeno parziale degli stati d’animo del gruppo perché i singoli individui possano identificarsi momentaneamente nell’insieme sociale: sul piano istintivo le capacità umane non sono state selezionate per accogliere affettivamente nella propria comunità più del numero dei componenti di una tribù, e strutture socio-politiche più vaste per riuscire nell’impresa di coedersi e rimanere coese necessitano di specifici e complessi strumenti che riescano a polarizzare emotivamente i componenti del gruppo in una qualche dimensione che lo trascende.

Nel mondo animale i riti stabilizzano comportamenti che risultano funzionali per la sopravvivenza: si tratta di forme che evocano esperienze, senza mediazioni astratte dato che gli animali non pensano astratto ma sviluppano conoscenze per via analogica. Il problema di base è che l’esperienza non ha forma determinata e gli animali la fissano approssimativamente per via evocativa: certe forme comportamentali cioè ricordano loro certe esperienze che amerebbero rivivere.

Nel mondo umano una forma astratta di rituali sono i simboli, forme che evocano appunto l’ineffabile: il simbolo è uno strumento, proprio come un martello o una chiave inglese. D’altra parte ogni strumento è un oggetto di per sé, ha una vita autonoma che ne trascende la forma concreta. Come si sa, fin dalla notte dei tempi le armi sono state abbellite fino a diventare oggetti d’arte, e le automobili, strumenti di trasporto, sono spesso anche oggetti di lusso. Nel caso di un cartello indicatore vediamo che la funzione è primaria rispetto all’aspetto, nessuno si preoccupa della bellezza di un segnale stradale: anche un comune contenitore ha magari solo un senso concreto, ma nel caso di una porcellana cinese invece la funzione contenitiva va in secondo piano rispetto alla bellezza, che ne trascende l’oggettualità. Un simbolo insomma partecipa di due nature, quella trascendente, di evocazione, e quella oggettuale, di realtà concreta, lati che non possono in nessun modo essere separati ma che sono presenti in gradazioni diverse per esempio nel cartello stradale o nel vaso cinese, nella parola tecnica o nella parola poetica.

Il lato oggettuale dei simboli è in generale culturalmente mediato, cioè è offerto dalla generazione precedente a quella successiva, e il suo valore è mediato dal rapporto del bambino con gli adulti. I bambini, nel loro apprezzamento per i grandi, apprezzano anche le cose che a loro piacciono, e assumono come investibili d’interesse oggetti che vanno oltre la loro comprensione. Nella storia dello sviluppo psichico l‘assunzione dell’oggetto-significante probabilmente precede l’esperienza dell’evocazione: l’oggetto transizionale di Winnicot per esempio viene esperito sensorialmente prima di servire da contenitore di proiezioni e quindi da simbolo.

Il simbolo ha necessariamente un lato oggettuale, che rimanendo uguale a sé stesso riporta l’attenzione in un certo luogo, ma che proprio essendo oggetto autonomo non è al servizio di niente, e vive della sua specificità. Mettiamo una Madonna rinascimentale: da un lato evoca la maternità sublime, capace di essere felice mentre tutte le nubi del mondo si addensano sul suo futuro, ma da un altro è il quadro stesso, che avrà una relazione diversa con ognuno dei suoi osservatori. Nella funzione evocativa il simbolo può essere interpretato (rappresenta la maternità eccetera), ma dalla parte della sua autonomia esistenziale il simbolo è senso, senza mediazione possibile, a parte l’esegesi, che si raccorda con la molteplicità dell’esperienza della persona attraverso l’oggetto evocante, il dito che indica la luna (l’ignorante è quello che quando gli indichi a luna ti guarda il dito). In questo modo riescono a convivere ciò che ha forma e ciò che forma non ha, il segno con la sua funzionalità, e l’ineffabile con il senso. I riti sono importantissimi strumenti di iniziazione all’esperienza trascendente: il rito infatti, che senza spiegare può connettere la persona a qualcosa di altrimenti inafferrabile, è strumento per eccellenza di iniziazione al senso.

Mentre la psicologia dell’epoca è occupatissima a tradurre i riti in concetti per permettere alla mente razionale di conoscerli, Pessoa afferma invece che il rito va prima vissuto, e solo dopo, eventualmente, concettualizzato. I riti, si rivolgono naturalmente all’intelligenza analogica, non a quella razionale: è il linguaggio di quelle verità che trascendono la nostra intelligenza, e interpretarlo equivale a ridurlo a nient’altro che, perdendo così il suo reale potenziale di rivelazione, mentre il modo naturale di avvicinarcisi è il comportamento rituale. In questo senso simboli e riti sono veicoli del misterioso, di tutto quello che non può essere detto perché dicendolo si riduce, e non si può dire allora che i simboli simboleggiano qualcosa di specifico: non essendo appunto il loro contenuto una cosa, non può per questo essere spiegato. Il rito è il senso stesso, qualcosa cioè che si sente ma non si può tradurre concettualmente senza snaturarlo.

Con questo risulta chiara l’importanza di base dei riti: ogni parola è rito, anche se nelle culture correnti la parola sta a cavallo fra la sua evocatività e un’area concettuale più o meno vasta e può essere lontanissima dal piano esperienziale. Il problema sorge con la tendenza reificatoria dell’atteggiamento comune: invece di guardare la luna si guarda in genere il dito che la indica. Par aldilà dei riti si intende non confondere l’ineffabile con ciò che lo indica, fare il grande forzo di immaginare quello che non può essere semplicemente detto, sperimentare qualcosa che non può essere com-preso dalla propria capacità di astrazione.

Riti della quotidianità

Fra l’infinità dei riti correnti, ce ne sono alcuni particolarmente esposti alla confusione fra luna e dito: uno è il matrimonio, che viene in genere considerato di per sé come un punto di arrivo. Siamo uniti in matrimonio dicono gli sposi: ma questo è solo il contratto di reciproca appartenenza, come l’acquisto di una casa! Questo è il dito che indica, ma il problema è cos’è la luna in questo caso? Una buona approssimazione la espresse recentemente un sacerdote a un matrimonio: “ricordatevi, disse, che i coniugi non si appartengono, sono ospiti uno dell’altro”. È una frase che porta lontano evocando le leggi dell’ospitalità, ma descrive poco e non indica logicamente le alternative: il problema si presenta come dare forma sul piano digitale al rispetto della differenza, come riuscire a sviluppare una teoria di come amare la differenza, e qui si apre un universo sconfinato.

Una coppia consiste in due persone diverse che si trovano a gestire insieme una enorme quantità di situazioni differenti: un escamotage vecchio come il mondo per gestire la differenza è quello delle relazioni gerarchiche, per esempio il fatto che in famiglia comanda il padre e la madre ubbidisce, o il contrario. La relazione gerarchica accompagna da sempre la compagine umana, essendo una soluzione molto funzionale: ormai però è diventata piuttosto un problema, dato che pochi hanno voglia di stare sotto. Il problema è che la logica della non contraddizione, che è in uso corrente da più di venti secoli, porta a considerare che nella differenza uno ha torto e l’altro ragione, e a chi ha torto è assegnato di default il posto gerarchicamente inferiore!

Quando si dice ragionare, comunemente si intende fare un processo di deduzione a partire da quello che risulta già assodato, e questa è la modalità specifica di funzionamento della logica della non contraddizione: l’incontro positivo con la differenza richiede invece una logica dialettica, dove tesi antitesi procedono creativamente verso la sintesi. Questo processo non si appoggia sulle deduzioni, ma sull’immaginazione: bisogna immaginare la sintesi come qualcosa dove c‘è posto per le due realtà antagoniste. Nel caso di una coppia bisogna accorgersi delle differenze dell’altra persona, e immaginare un ballo fra le proprie caratteristiche e le altre, in modo da poter muoversi insieme rimanendo differenti.

A questo proposito c’è però un problema storico: dai tempi più antichi l’immaginazione è tabù. Essendo la base insostituibile di ogni trasformazione, è considerata la nemica naturale della stabilità culturale e quindi sociale. Al popolo non è permesso trasformare, è un’attività socialmente malvista: in molte tribù primitive il mestiere di fabbro, di trasformatore cioè della materia metallica, era o in cima o in fondo alla scala sociale, e comunque tabù, e considerare la coppia come il luogo della trasformazione è un ribaltamento dell’ottica comune. Il superamento della tradizione della repressione dell’infanzia sta però obbligando l’umanità a questa evoluzione, dato che ognuno persegue ormai delle strade personali e diverse da quelle degli altri, e la diversità è ormai un diritto: la regola base della democrazia è che tutti, nella loro diversità, hanno uguali diritti!

Questa è la logica per cui in parlamento ci sono due schieramenti opposti che si suppone avere ugualmente ragione. La logica dialettica è un cammino per arrivare a una sintesi, non per decidere chi ha ragione, per questo che c’è tanta difficoltà a amministrare la democrazia, visto che quello che si vuole istintivamente è avere ragione. La sintesi è una creazione, non il frutto di una deduzione, e richiede apprezzamento della diversità e immaginazione: i rituali sono appunto creazioni, non operazioni deduttive.

Un punto centrale per la comprensione della cosa è la teoria matematica degli insiemi, la quale dimostra che sempre e comunque l’insieme è più della somma delle parti: una delle parti di ogni insieme è infatti l’effetto composizione, e a seconda di come questo organizza le altre, si ottiene un risultato differente. In questa logica la realtà umana non è uguale a sé stessa, e neanche uguale nel tempo: cambia infatti quando cambino le relazioni fra le parti interne della persona, o come si dice nella Gestalt, quando cambia il dialogo fra i personaggi che abitano nel proprio mondo interno.

Quali sono però le parti interne di una persona, e in cosa si assomigliano? Se fossero sempre diverse sarebbe ben difficile elaborare una visione psicologica del mondo interno. L’etologia offre un punto di vista che a prescindere dalle infinite differenze, riunisce degli elementi comuni per lo meno dei mammiferi, se non degli animali in genere: l’insieme dell’individuo contiene come parti comuni a tutti gli istinti, che a prescindere dalle specificità specie-specifiche, sono riconoscibili in funzioni relative alla sopravvivenza. Gli istinti base della razza umana sono fame, fuga, territorio e sesso, e guardando i film più banali si riconoscono facilmente come le basi di ogni storia che sembra avere chances di essere ascoltata da un pubblico qualsiasi.

L’insieme contiene gli istinti, ma è più della somma degli istinti: questo più, che i greci chiamavano kalos kai aghathos, si può chiamare oggi, bello buono e vero, ed è quell’insieme che trascende la somma delle parti, cioè il senso del valore. In altre parole, un insieme ha una parte percepibile con i cinque sensi, e questa è la somma delle parti, e un’altra che la trascende, percepibile con un sesto senso, il quale ne dice il sapore ma non la forma: un esempio è l’amore, che malgrado non abbia una forma, è chiaramente percettibile nella sua presenza. Freud chiamava la trascendenza sublimazione, un termine di origine chimica che descrive il passaggio dallo stato solido della materia a quello gassoso saltando quello liquido, che metaforicamente parlando sarebbe il livello astratto.

La trascendenza è un piano di realtà radicalmente differente, che non può essere comparato con quello della realtà concreta in quanto non è percettibile concretamente con i cinque sensi, ma solo attraverso una percezione sensoriale non oggettiva, individuabile per via metaforica. La differenza chiave fra concreto e metaforico è che il primo usa il verbo essere, “questo è quello”, mentre il metaforico si esprime con la forma “è come se fosse”: il concreto cioè si gestisce con il digitale, che si muove per identità, e il metaforico per analogia, cioè per somiglianza, e si vede dietro i due diversi emisferi del cervello che amministrano le due grandi aree conoscitive, quella scientifica e quella artistica.

Tornando alla differenza fra insieme e somma delle parti, identità e somiglianza si applicano ad ambedue le aree, anche se il piano trascendente, non avendo forme oggettive, è più gestibile per via metaforica, cioè per somiglianze, per meglio dire per evocazioni. L’assenza di identità suona generalmente come nemica di un pensiero fidevole, ma questo è legato fondamentalmente a una logica della non contraddizione e decade in un pensiero dialettico, dove il processo non si basa sulla deduzione ma sull’immaginazione di cosa tesi e antitesi possono creare quando smettono di contrapporsi.

Problema senza fine nella logica basata sul principio di non contraddizione è sempre stato se sia più importante sentire, pensare o fare: in un’ottica dialettica si può immaginare la soluzione in una specifica relazione fra le parti, dove viene prima il sentire, dopo il pensarci sopra e infine decidere cosa fare. I rituali stabilizzano questi passaggi, bypassando il fatto che di fronte a ogni scelta ci sono infinite possibilità, una quantità che rende difficile la scelta a chi non ha un buon contatto con il mondo interno che gli permetta di scegliere cosa vuole, non cosa deve.

La contrapposizione fra volere e dovere è basilare nell’esperienza umana, che attraverso le ere ha imparato come quello che si vuole può essere alquanto pericoloso e che da tempo immemorabile prima di fare qualcosa vuole sapere come andrà a finire.

La vita e l’entropia

La storia della vita nell’universo è la storia del suo rapporto con l’entropia, la legge del decadimento dell’energia: l’entropia distrugge e la vita ricostruisce nuove differenziazioni, che verranno comunque poi spazzate via di nuovo dal decadimento dell’energia. È una lotta senza alternative, alla fine l’entropia vince sempre: come potrebbe dire la Bibbia, la vita disubbidisce alla legge basilare dell’universo, è quindi peccato, è il peccato originale.

La prima vittoria apparente dell’uomo sull’entropia è stata la parola: in principio era il verbo. La parola, strumento base per l’astrazione, sta fuori del tempo e dello spazio, è indistruttibile e immortale: purtroppo è anche morta, è un cadavere eterno. Nella sua dimensione evocativa però la parola esce da sé stessa, e diventa quello che chi la usa vuole: il verbo, con la sua immobile certezza, diventa il giocattolo per il bambino e per il poeta, e si riapre all’infinito.

Se le parole col tempo svaniscono, i concetti sono effettivamente eterni: una volta formulati possono essere scordati, non distrutti, e comunque non sono di nessuno. L’importanza però dell’identità è considerato il sine qua non per la vittoria sull’entropia, e questo neanche l’astrazione lo può fare.

Ma se l’entropia vince comunque, a che scopo allora darsi tanto da fare? Eppure vivere sembra la cosa più bella e importante del mondo, e le persone malgrado la certezza della morte si danno un daffare incredibile a questo scopo. In realtà, dai tempi più remoti gli esseri umani cercano una scappatoia, immaginando di conquistare una vita dopo la morte che l’entropia non riesca a intaccare: infiniti stratagemmi hanno escogitato attraverso i millenni, ma sempre attaccandosi a forme di reificazione che salvaguardano l’io. Nel tempo il contorno cambia, ma l’io resta uguale a sé stesso.

L’io e l’identità sono elementi sempre presenti nel pensiero umano. Sembra inevitabile, ma è solo una posizione monarchica: come diceva Luigi 14, lo stato sono io! La realtà è invece che l’io, il re, il presidente, sono funzioni organizzative della molteplicità interiore, indispensabili come il sindaco di una città, ma in nessun modo confondibili con la persona, la quale è una unità dinamica democratica in continua trasformazione.

Un’unità democratica non ha un’identità stabile, ma non si potrebbe dire che si vive meglio in un regime nazionalista che invece ce l’ha: è evidente quindi che non è l’identità che determina la qualità della vita, ma piuttosto il prodotto tipico della democrazia, che è la libertà di amministrare la propria vita secondo scelta e responsabilità.

Visto che, come nei frattali gli stessi disegni si ripresentano continuamente in composizioni nuove, così anche nella vita tutto si ripresenta uguale e diverso e quindi non è un punto d’arrivo l’importante, ma qualcosa che si presenta durante il percorso: l’io serve a organizzare la sopravvivenza, ed è mentre si sopravvive che eventualmente avviene l’uscita dall’entropia.

Questo è il vero punto di svolta: fuori della sopravvivenza l’io non ha importanza e con la morte svanisce, mentre quello che rimane è amore e coscienza, che sono aperte a tutti e non sono di proprietà di nessuno, che non consumano energia e a cui quindi l’entropia non accede.

1 LANKTON S., La risposta dall’interno (Astrolabio, Roma 1984)

2 TURNER V. Dal rito al teatro (Il Mulino, Bologna 1986)

Please cite this article as: G. Paolo Quattrini (2022) Al di là dei riti. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/numero-45/al-di-la-dei-riti/

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