Oltre la metafora

Direttore G. Paolo Quattrini

Istituto Gestalt Firenze

G. Paolo Quattrini – Psicoterapeuta Direttore Responsabile IGF

Pubblicato sul numero 46 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

 

La pittura è stata per millenni figurativa, e un’immagine pittorica non era per questo una copia della natura, ma una metafora che dà forma a qualcosa d’invisibile: a un certo momento però è nata la pittura astratta, e la metafora non è più stato lo strumento per eccellenza.

Filamenti di sole,

sopra lo squallore grigionero.

Un pensiero ad altezza 

d’albero s’appropria il tono

che è della luce: ancora

ci sono melodie da cantare 

al di là degli uomini.

dice Celan. Se filamenti di sole è metafora ben digeribile, un pensiero ad altezza d’albero una metafora assurda, s’appropria il tono che è della luce è una metafora spettacolosa: melodie al di là degli uomini un vento di sogno. E dice ancora:

te, epilettica, io metto a giacere

in pelli

di lucertola, sui davanzali,

i fori

del frontone

ci ricoprono, con letame di luce.

Di poesia si tratta, e d’alto livello, ma dove sono le metafore evocanti, a parte il letame di luce? C’è qui qualcosa che sta oltre la metafora, e forse oltre l’analogico stesso. Cosa possono fare le parole oltre a descrivere e a evocare? Costruire forme senza significato e senza senso? A che scopo? La prima metà della poesia sono metafore che dire assurde è dire poco: se la metafora trasporta, cioè evoca con la somiglianza qualcosa che ancora non ha forma, qui l’evocazione è di qualcosa che non ha niente di umano. Questo non può essere un caso, e allora bisogna chiedersi: che funzione ha qui la metafora? Sempre naturalmente che abbia una funzione, e non sia autoriferita, come una melodia al di là degli uomini, ancora da cantare. Se immagino un mondo futuro lontanissimo, migliaia di anni, dove un amato dice all’amata

te, epilettica, io metto a giacere

in pelli

di lucertola, sui davanzali,

mi rendo conto che fra loro passa qualcosa di molto diverso dagli amori di oggi, percepisco il campo di forze ma non riesco a mettermi nei panni delle due persone.

L’impossibilità, come il vino

inebria l’uomo

che la gusta; la possibilità

non ha sapore- aggiungi

la pur minima goccia di rischio

e nel bicchiere di prima

l’incanto si fa ingrediente

sicuro come il destino-

potrebbe commentare Emily Dickinson, e la metafora assurda acquista allora una funzione ben comprensibile. Ancora Celan:

ciò che

insieme ci avvinse

si divide d’un balzo,

una pietra nel cosmo remota

rotola

Inutile chiamare qua questa immagine, non assomiglia a niente di sensorialmente significativo: ma se ci si spingesse fin là, dove rotola la pietra, invece di volere paesaggi colorati, a cosa assomiglierebbe una separazione? E se non assomigliasse comunque a niente, perché guardarla?

Come se il mare si dovesse aprire

mostrando un altro mare

e quello un altro e i tre

non fossero che annuncio

di epoche di mari

non raggiunti da rive

mari che sono rive di sé stessi

l’eternità è così.

Dice la Dickinson, con una potenza evocativa grandissima, dove le metafore sono pienamente riconoscibili nella loro funzione di richiamo di qualcosa di conosciuto e trasceso. È certamente anche solo una diversità stilistica, ma il mistero della metafora assurda resta. Se contemplo la pietra che rotola nel cosmo, oltrepassata la disperazione che sentirei se fossi quella pietra, rendendomi conto che lei non prova proprio niente, e anche volendo non avrebbe opzioni preferenziali, rotolando con lei sperimento qualcosa di sconosciuto, ma anche difficilmente apprezzabile. Posso riuscire a immaginare la curiosità di un bambino sulle montagne russe, e forse un senso di soddisfazione per una esperienza pericolosa a cui sono sopravvissuto, ma niente d’altro.

Eppure lo stesso ha fatto Gauguin, dipingendo in maniera poco evocativa, non astratta ma di una figuratività misteriosa come le pelli di lucertola di Celan: dove porta questo salto? Mi provoca dolore e cupezza, ma penso sia paura e conservazione: il futuro è pieno di incertezze, e poco appetibile. Se salto in avanti perdo l’indietro? Non si può dire che con Kandinskij si sia perso Leonardo, quindi non quadra: oggi ognuno è libero di dipingere figurativo o astratto, o mezzo e mezzo. La paura è narcisistica, sembra di non assomigliare più a sé stessi: è così, ma è un regalo, non una disgrazia. Ancora Celan:

Nessun nome, che nomini:

il suo suono uguale

ci annoda sotto

la chiara tenda da rizzare

mediante il canto.

C’è sotto una chiara tenda da rizzare: non vuole evocare niente la metafora, ma immaginare di rizzare col canto una chiara tenda, che il suono uguale dell’assenza di nomi annoda sotto, sembra un’avventura nuova nella vita, e magari al di là di un’immagine conosciuta di sé stessi. La Dickinson dice:

Una parola muore

appena è detta

dice qualcuno

io dico che comincia

appena a vivere

quel giorno

le metafore vivono con le parole, e magari le metafore assurde richiedono la pazienza di un tempo lungo per splendere della loro luce. 

Matto dalla faccia di legno,

dal muso cascante, che pedali

e pedali sulla ruota:

al lobo dell’orecchio ti ciondola

l’occhio

e ballonzola

inverdito.

Se si guarda questa sua misteriosissima poesia smettendo di cercare una spiegazione, si vede un’immagine che potrebbe venire dal giardino delle delizie di Bosch. Se a Bosch non si chiede chiarimenti, forse si potrebbe fare lo stesso con Celan: forse non evoca, forse annuncia qualcosa che sta fuori dal tempo. Se guardo Bosch un pensiero ad altezza d’albero mi fa ridere con la sua semplicità, e non posso non trovare le immagini di Bosch straordinarie: ma dove portano? Richiamano qualcosa che non c’è ancora? Forse le pene dopo la morte? Ma di quelle chi se ne frega, e perché a guardarle si rimane folgorati da qualcosa che si potrebbe chiamare bellezza? Una bellezza che non esiste? E che non può esistere in pelle umana… e allora? Dice la Dickinson:

la verità sta ferma

altre forze può darsi che si muovano

di questa dunque vale più fidarsi.

Quando i cedri più vecchi si incurvano

e le querce dischiudono i pugni

e i monti si inclinano fiacchi

come è esemplare un corpo, che

si regge senza un osso,

che vigorosa una forza

se si sostiene senza un appoggio.

La verità sta su da sola e ogni persona

che crede in lei sta su spavalda.

Se la metafora assurda fosse una verità incomprensibile, che sta comunque su senza appoggio? Se il suo splendore fosse lo splendore di una verità non compresa, ma comunque vera, a prescindere dalla sua irriconoscibilità?

pastedGraphic.png

 

Questo particolare del trittico delle delizie bellissimo, non so perché: è pieno di assurdità, che non sembrano evocare nulla di riconoscibile, e che sono belle proprio perché assurde! È un miracolo, a cui è difficile dare una localizzazione, né logica né analogica.

Chi prese le tue parti?

La pietra a forma d’allodola

tratta dal maggese.

Nessun suono, soltanto

la luce del morire aiuta 

a reggerla.

La vetta

si dissolve in turbinii.

con più furia ancora

che voi.

In modo altrettanto misterioso parla qui Celan, e l’immagine che emerge mi sembra altrettanto pura quanto il dipinto di Bosch. Ma a che si riferisce? Qualcosa che esiste nella sua percezione del mondo, o qualcosa che potrebbe esistere e a cui fa lo sforzo di dare una forma?

pastedGraphic_1.png

Ugualmente incomprensibile e altrettanto fascinoso è questo altro particolare del giardino delle delizie: è troppo assurdo per evocare qualcosa di realistico e forse per questo non ha richiami terribili. Si vede un mondo bellissimo e a dir poco stravagante, una operazione di trasfigurazione degli orrori in bellezza, e sembrerebbe pensabile che è come Bosch vedeva il mondo intorno, quello “normale”. E se la poesia di Celan avesse lo stesso implicito? Come fare per vedere il mondo così? Celan dice:

chi come te e come ogni colomba dal buio attinge la notte e il giorno

dai miei occhi becca la stella prima che lampeggi,

dalle sopracciglia l’erba mi svelle prima che sia bianca,

sbatte la porta delle nuvole prima che io cada a precipizio.

Se qui il digitale è andato in pensione, non sembra che nemmeno l’analogico abbia più molto fiato: e allora dove siamo?

dal buio attinge la notte e il giorno

sbatte la porta delle nuvole prima che io cada a precipizio.

due metafore chiaramente assurde, anche se recuperabili al limite con fantasie banali, come attingere dall’inconscio sia l’incomprensibile che il comprensibile, e fermare la fantasia prima di farsi male: comprensibili, ma poeticamente plausibili?