L’errore di Jon Kabat-Zinn – I Protocolli basati sulla Mindfulness come porte d’accesso alle pratiche di consapevolezza.

Abstract

Abstract: In questo articolo, dal titolo evidentemente provocatorio, viene analizzato il rapporto tra la psicologia buddhista, la Mindfulness come traduzione occidentale di alcuni aspetti della pratica meditativa, e la Gestalt fenomenologico esistenziale. Vengono inoltre rivisti alcuni passaggi epistemologici che hanno portato alla formalizzazione dei protocolli basati sulla Mindfulness nel campo della relazione d'aiuto, mettendone in evidenza le utilità e le criticità semantiche. Parole chiave: Jon Kabat-Zinn, mindfulness, Gestalt, consapevolezza, protocolli MBSR, psicologia buddhista

Pierluca Santoro

Di Pierluca Santoro – Didatta IGF – Psicoterapeuta e Istruttore Mindfulness

Pubblicato sul numero 46 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

Il titolo di questo articolo è, allo stesso tempo, provocazione diretta e citazione indiretta. Provocazione evidentemente perché fa riferimento al lavoro straordinario di Jon Kabat-Zinn, il creatore dei protocolli Mindfulness (con la maiuscola, e più avanti capiremo perché) più utilizzati in occidente, volendone però rilevare uno degli aspetti più contraddittori che è l’uso spesso strumentale e tecnologico della mindfulness stessa (con la minuscola, appunto). E citazione indiretta invece dello splendido testo di Antonio Damasio L’errore di Cartesio1, in cui in modo quasi definitivo viene superata anche da un punto di vista scientifico la storica separazione tra mente e corpo come oggetti di indagine sperimentale e ricerca filosofica.

Questo lavoro è anche quindi un tentativo introduttivo di integrare sul piano teorico, non solo due pratiche connesse alla relazione d’aiuto come la Mindfulness e la Gestalt, ma anche due visioni dell’esperienza relazionale, cioè quella protocollare e evidence based e quella individuale ed esistenziale. La visione evidence based fa i conti necessariamente con quella che Benjamin avrebbe chiamato la riproducibilità tecnica2, ovvero la possibilità, se non la obbligatorietà, della standardizzazione delle forme, delle sue descrizioni puntuali (digitali ovvero informazionali) e quindi inevitabilmente dei risultati attesi una volta determinate appunto le condizioni e le processualità. Non a caso si parla quindi di protocolli.

La visione gestaltica, o fenomenologica ed esistenziale, si pone quindi spesso o sempre come polarità opposta, cioè come modello di evocazione individuale di profondità, di irripetibilità e creatività dell’esperienza vissuta, come tradizione sapienziale più che come esperimento scientifico laddove si intenda ripetibile. È in questa contrapposizione che nasce l’incomunicabilità tra due forme e due visioni del mondo e delle relazioni umane, una distanza che spesso diventa incolmabile ma che necessita tuttavia di essere rivista e “rimisurata” a beneficio dei tempi e della cultura attuale in cui il digitale ha preso completamente il sopravvento sull’analogico. Sia in termini di linguaggio che di vera e propria dominanza cerebrale3. Il deficit o le conseguenze di questo dominio sono sotto gli occhi di tutti, e il proliferare di disagi esistenziali pressoché identici nelle popolazioni occidentali, come ansia, stress, panico e derealizzazioni più o meno gravi, è un dato che ci mette di fronte alla considerazione di dover necessariamente trovare un modo di riequilibrare il rapporto tra capire e sentire la vita. Perché se possiamo essere certi di trovare le “istruzioni” o le informazioni su cosa possa essere la vita di una persona media nel mondo globalizzato della nostra società, molto si è perso invece della possibilità di avere una educazione dei sentimenti, una cultura delle emozioni e una ricerca dei vissuti che non passi obbligatoriamente da quella del benessere e della performance. Persino la felicità, nel mondo occidentale, ha cambiato la propria natura poietica, trasformandosi in un dovere performativo (e acquistabile) anziché essere approfondita come condizione individuale da ricercare e solo poi, eventualmente, comunicare. Su questo torneremo alla fine dell’articolo. Facciamo adesso invece un salto dall’altra parte del mondo e del tempo per osservare più da vicino cosa si intenda per mindfulness e meditazione.

Meditazione e mindfulness: che fine ha fatto la spiritualità?

Nei ritiri spirituali di meditazione vipassana, in Thailandia ad esempio, in ogni sessione (di base sono quattro al giorno: la prima comincia alle 4 del mattino e ciascuna può essere di tre ore e mezza all’incirca per arrivare fino sera) i monaci (e in ogni caso tutti i partecipanti) cominciano con un’oretta di chanting meditation, ovvero una preghiera o recita all’unisono di versi del Canone Pali che, di fatto, avvia anche il lavoro specifico sulle restanti tecniche vipassana. Il richiamo alle nobili qualità di Buddha, Dhamma e Sangha che viene fatto cantando e dando l’idea, ad uno straniero, che possa essere quasi un mantra mentre non lo è4, ha lo scopo di portare la mente a un piano elevato, poiché le parole portano con sé un significato che si imprime sul modello dei pensieri in quanto fenomeni che sorgono e svaniscono continuamente. Il valore di questo in termini di psicologia dell’Abhidhamma risiede nella natura salutare del cittakkhana, o “momento di coscienza” nelle sue fasi uppada (sorgere), thiti (statico) e bhanga (scomparsa). Ciascuno di questi salutari cittakkhana contribuisce al miglioramento del sankhara (o aggregato di tendenze); in altre parole, dirige i successivi momenti di pensiero in un regno superiore e tende a stabilire il carattere su quel livello. Questa fase costituisce di fatto l’ingresso nel Dharma creando il contenitore dell’esplorazione individuale, la vipassana vera e propria ovvero la visione profonda dell’esperienza. Nei ritiri di “mindfulness” occidentale – inevitabilmente associando e semplificando un insieme di pratiche ed esperienze che in realtà andrebbero certamente distinte le une dalle altre per i vari livelli culturali sottesi e promossi – la parte spirituale del processo meditativo diventa quasi sempre una sorta di “problema”… schiacciati tra l’incudine e il martello di poter risultare troppo mistici in alcuni casi, troppo freddi in altri. Troppo vincolati a pratiche religiose distanti dalla cultura cristiana o troppo inclini a tecnologizzare e sterilizzare un sapere antico e profondo.

Il contatto e lo studio delle tradizioni sapienziali e filosofiche tra Occidente e Oriente soffre di una tara pesantissima data dalle culture di provenienza, la più evidente delle quali è probabilmente quella che in Occidente vede la necessità di separare sempre il teologico dal filosofico puro, ovvero il sapienziale dallo scientifico. È un po’ il riflesso di quell’abisso creatosi tra un linguaggio analogico e uno digitale di cui si parlava prima.

Julian Jaynes, in un bellissimo testo dal titolo Il crollo della mente bicamerale (1984), evidenzia proprio questa distinzione, dimostrata anche a livello neuroscientifico dalla separazione dei due emisferi cerebrali in destro e sinistro, rispettivamente specializzati nelle due funzioni espressive. Il cervello sinistro sarebbe preposto all’uso di un linguaggio descrittivo, informazionale e concettuale, mentre quello destro all’uso dell’evocazione, del pensiero divergente e, fondamentalmente, in ottica se vogliamo freudiana, dell’associazione libera e metaforica. Riducendo i termini e semplificandoli, linguaggio scientifico da una parte, artistico dall’altra. La società contemporanea, per una similitudine culturalmente nota ed evidente, soprattutto in Occidente, sembra aver messo sullo sfondo il cervello destro in favore di un dominio espressivo di quello sinistro. La cultura digitale, informazionale e descrittiva sembra aver del tutto sopravanzato quella analogica, evocativa e metaforica. E dove si collocherebbe, in questa forzata e riduttiva immagine dell’uomo contemporaneo, la spiritualità? È rintracciabile nel senso comune la mancanza e la scomparsa di questo campo dell’esperienza umana che, alle volte persino con sofferenza, sembra demandare alla ricerca di nuove pratiche qualcosa che, grazie alle religioni, c’è sempre appartenuto anche in Occidente5.

Byung-Chul Han, un filosofo di origini koreane molto diffuso in questi anni, ha scritto un libro intitolato “La scomparsa dei riti” in cui analizza i fenomeni legati appunto alla laicizzazione della vita sociale, tra cui proprio l’inevitabile scomparsa delle occasioni che rendevano la comunità coesa nella partecipazione ad una serie di eventi e ritualità condivise. Non è un lamento nostalgico, quello di Byung-Chul Han, che rileva anche come i riti fossero in parte anche la strada maestra ai moralismi e al controllo sociale, ma sottolinea come la loro scomparsa abbia anche prodotto un vuoto linguistico, culturale e relazionale che spesso invece è stato riempito dalle dinamiche del consumismo e di altre omologazioni basate sull’individualismo e sull’acquisto di beni e prodotti materiali. Come se la spiritualità fosse stata soppiantata da una materialità grezza, poco incline a rendere l’essere umano sensibile all’invisibile della vita. I riti invece tradizionalmente producono quantomeno risonanza, e “Senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati. Il crescente narcisismo si oppone all’esperienza risonante. La risonanza non è un’eco del sé, le è anzi insita la dimensione dell’Altro, essa significa armonia. La depressione nasce al punto zero della risonanza. L’odierna crisi della comunità è una crisi della risonanza: la comunicazione digitale è costituita da camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla. I like, i friend e i follower non preparano alcun terreno risonante, rafforzano solo l’eco del sé.[…] La digitalizzazione, da questo punto di vista, indebolisce il legame comunitario poiché da essa emana un effetto decorporeizzante: la comunicazione digitale è una comunicazione decorporeizzata.”6

Quindi, se da un lato è comprensibile che la storica associazione tra fede e spiritualità venga messa in qualche modo tra parentesi in favore di un maggiore laicismo nell’approccio all’esistenza, dall’atro appare evidente la necessità di recuperare un’attenzione alla realtà che vada oltre la mera apparenza dei fenomeni così come li possiamo descrivere o toccare con mano uno ad uno e che si fondi anche su un senso della trascendenza di tale apparenza che ne colga la loro intrinseca interdipendenza e interconnessione. Un po’ come eccezionalmente è riuscito a descrivere, in un’opera fondamentale, Fritjof Capra nel suo Il Tao della fisica (2014).

La questione critica che ha dunque mosso la mia attenzione a voler indagare le relazioni esistenti e possibili tra meditazione sapienziale e psicoterapia, di cui questo articolo costituisce solo una piccola introduzione al tema, nasce proprio dall’osservazione di quanto il dominio della tecnica (Galimberti, 2002) abbia di fatto tradotto anche la meditazione, spesso, in pratica separata dalla spiritualità, e come soprattutto i protocolli basati sulla mindfulness come il famosissimo e diffusissimo MBSR sistematizzato da Jon Kabat-Zinn (Mindfulness Based Stress Reducion – Kabat-Zin, 1979) soffrano di questa riduzione culturale e semantica. Volendo riprendere il discorso precedente, potremmo dire che il concetto stesso di “protocollo” viene incontro a questa esigenza di linguaggio digitale a discapito del potere evocativo della meditazione tout court.

Alcune considerazioni sul protocollo MBSR.

Cercherò di spendere due parole adesso proprio sul protocollo MBSR, che da alcuni anni organizzo in percorsi di gruppo, e che al principio della mia formazione in questa disciplina, provenendo culturalmente dalla meditazione vipassana tout court e come professionista dalla psicoterapia della Gestalt, mi ha creato non pochi imbarazzi intellettuali e vere e proprie dissonanze cognitive. La prima fra queste era senza alcun dubbio data dalla promozione del concetto del ritorno al “qui e ora” e al momento presente. Da un certo punto di vista, infatti, un protocollo che standardizzi pratiche e metodologie del saper stare e rimanere nel qui e ora, si configura inevitabilmente come un ossimoro. Come si può prevedere l’imprevedibile? Come si può fermare l’inarrestabile? Come si può strutturare il processuale? E soprattutto, come si può definire l’indefinito? La risposta, per nulla esaustiva ma in qualche modo rassicurante, mi si è fatta incontro pensando alla differenza tra rigidità e rigore.

Il protocollo MBSR è un percorso di gruppo basato sulla mindfulness nato in ambito ospedaliero alla fine degli anni 70 e finalizzato alla riduzione del dolore cronico. È basato fondamentalmente sull’obiettivo, attraverso alcune tecniche derivate anche dallo yoga, di riorganizzare il modo in cui la persona percepisce se stessa e le proprie problematiche, condividendo con gli altri partecipanti le dinamiche che le sottendono e i risultati conseguiti, in modo da poter portare anche nella quotidianità le scoperte fatte e aumentare così sensibilmente la qualità della vita. Si sono scoperte infatti a molti livelli scientifici i benefici che la mindfulness porta nell’individuo, nella percezione che ha di se stesso e della propria vita e delle relazioni significative che ne contraddistinguono l’esistenza.

A partire infatti dagli studi fatti a livello psicofisiologico, cognitivo e neuronale, la mindfulness è entrata a pieno titolo tra le pratiche cliniche più efficaci ed evidence based per la riduzione dello stress e dell’ansia7.

Una letteratura ormai sconfinata, partendo dal lavoro di Jon Kabat-Zinn, è stata prodotta proprio per dimostrare come le posture meditative promosse in questi programmi permettano senza dubbio la crescita della consapevolezza della persona, sia che si tratti di problematiche patologiche impegnative che di quadri esistenziali meno gravi e comunque connotati dallo stress e dall’ansia. Consapevolezza che, a ben guardare, diventa il volano del cambiamento nel momento in cui si frappone come incudine a rompere il circolo vizioso della reattività emozionale, e come strumento chiave per imparare invece a rispondere con responsabilità agli stimoli stressogeni che il comune vivere comporta. Per chiunque indistintamente. Ecco perché quindi la diffusione di una serie di modelli di intervento d’aiuto basati sulla mindfulness.

Il rischio di un protocollo come quello MBSR è tuttavia proprio quello di cadere nello stesso problema che in qualche modo cerca di risolvere: ovvero la prospettiva performativa. Poiché infatti è stata statisticamente dimostrata l’efficacia di un approccio mindful all’emotività, ossia come le pratiche meditative centrate sul respiro possano aiutare psicofisiologicamente le persone a non attivare o limitare l’intensità dei circuiti collegati all’ansia e allo stress, le aspettative anche un po’ magiche, che questi risultati possano essere raggiunti come avviene per gli psicofarmaci in un meccanismo di delega allo strumento utilizzato, possono avere effetti controproducenti. Quindi, se da un lato l’idea di avere un protocollo rassicura rispetto all’indefinitezza che le pratiche meditative di stampo sapienziale possono trasmettere ad un comune occidentale perso nella pragmaticità della sua esperienza quotidiana, dall’altro la sua presunta efficacia tecnologica genera un’attesa performativa alla quale è ovviamente difficile adeguarsi ed evitare che la persona cada nella trappola del “riuscire”. Se si aggiunge a questo l’altra trappola esistenziale che è il benessere in quanto condizione standardizzata della contemporaneità, ci si può rendere conto quanto un percorso che ne delinei il raggiungimento automatico e prevedibile, in termini etici si possa porre come l’ennesimo strumento di omologazione e consumo di massa.

Parafrasando, infatti, alcune delle critiche politiche riassunte nel termine pink mindfulness o corporate mindfulness (Purser, 2018), creato per identificare proprio tutte quelle traduzioni del buddhismo di stampo new age finalizzate al “rilassamento” e a un non meglio specificato “benessere”, l’attenzione all’aspetto tecnico della meditazione a discapito di quello etico e spirituale rischia tante volte di incorrere nel pericolo che la mindfulness venga assorbita dalla società della performance, dove il risultato conta più della crescita personale e l’integrazione in tale società più dell’individuazione.

A tal proposito occorre citare il filosofo sloveno Slavoj Žižek che avverte:

Quindi, quando siamo bombardati da affermazioni secondo cui nella nostra era cinica post-ideologica nessuno crede negli ideali proclamati, quando incontriamo una persona che afferma di essere guarita da qualsiasi convinzione e accetta la realtà sociale così com’è, si dovrebbe sempre contrastare affermazioni del genere con la domanda “OK, ma dov’è il feticcio che ti consente di (fingere di) accettare la realtà” così com’è “?” Il “Buddhismo occidentale” è un tale feticcio. Ti permette di partecipare pienamente al ritmo frenetico del gioco capitalista, sostenendo la percezione di non esserci realmente dentro; che sei ben consapevole di quanto sia inutile questo spettacolo; e che ciò che conta davvero per te è la pace del Sé interiore a cui sai di poter sempre ritornare. In un’ulteriore specificazione, si dovrebbe notare che il feticcio può funzionare in due modi opposti: o il suo ruolo rimane inconscio […] o si pensa che il feticcio sia ciò che conta davvero, come nel caso di un buddista occidentale ignaro che la “verità” della sua esistenza è in realtà il coinvolgimento sociale che tende a liquidare come un mero gioco (Žižek, 2001 trad. mia)

Il tema rimane quindi come tradurre laicamente gli aspetti fondamentali della ricerca della consapevolezza di stampo spirituale, e in particolar modo buddhista, senza abbandonare del tutto, tecnologizzandolo e strumentalizzandolo, il suo portato etico e relazionale.

Nell’Ottuplice Sentiero buddhista infatti, la via per l’illuminazione e l’abbandono della sofferenza, la consapevolezza, ovvero la mindfulness, costituisce solo una parte di esso. Le altre devono necessariamente essere gli sviluppi di etica e saggezza in una prospettiva non individualista, bensì comunitaria (il sangha) e di interconnessione con tutti gli esseri viventi. Senza queste componenti fondamentali non è nemmeno possibile raggiungere alcun tipo di Mindfulness, o presenza mentale o consapevolezza. Sarebbe semplicemente una falsa consapevolezza quella raggiunta e centrata su un’idea fuorviante di un sé separato dal mondo esterno innanzitutto, orientato per giunta al suo benessere personale e quindi inevitabilmente narcisistico. Non è questa la sede per approfondire il concetto stesso di sé nella psicologia buddhista, ma lo faremo senz’altro in un prossimo contributo. Importante invece sarebbe chiedersi come poter rintracciare la parte etica e spirituale dell’insegnamento buddhista senza dover essere o diventare buddhisti da un lato o “scientisti” dall’altro. Stephen Batchelor ci da qualche risposta in uno dei suoi ultimi testi dal titolo “Dopo il Buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica.”:

Quale tipo di buddhismo sostiene un buddhista che si dichiara, come me, laico? Non ho in mente un buddhismo che cerchi di mettere da parte ogni traccia di religiosità, che cerchi di arrivare a un dharma che è poco più di un insieme di tecniche di auto-aiuto che ci permettano di operare in modo più calmo ed efficiente come agenti e/o clienti del consumismo capitalistico. Potremmo sostenere che la pratica della consapevolezza, estrapolata dal suo contesto originario, di fatto rinforza l’isolamento solipsistico di sé immunizzando i praticanti dalle emozioni, gli impulsi, le ansie e i dubbi destabilizzanti che assalgono i nostri fragili io. Invece di immaginare un dharma che erige barriere ancora più solide attorno a un sé alienato, immaginiamo un dharma che opera verso un reincantamento del mondo. A tale scopo occorre coltivare una sensibilità verso ciò che si potrebbe chiamare il “sublime quotidiano” […]. (Batchelor, 2018. Pag. 23)

La Psicoterapia della Gestalt come punto di intersezione possibile tra bisogno di trascendenza e laicismo delle forme.

L’integrazione tra pratiche meditative e pratiche psicoterapeutiche fenomenologico esistenziali è un tentativo di proporre quindi un approccio che sia rispettoso delle tradizioni sapienziali da un lato, che sia permeabile ai linguaggi tipici della cultura occidentale basati sulla ricerca di soddisfazione dei desideri e dei bisogni dall’atro e che, abbandonando l’obbligo di standardizzazione tecnologica e rimanendo ancorata sempre al concetto di qui e ora dell’individuo, sia efficace per la restituzione di quel senso della spiritualità perduto. In termini etici, estetici e logici quindi.

Presenza, consapevolezza e responsabilità, d’altro canto, sono i cardini attorno ai quali ruota la psicoterapia della Gestalt, e la loro declinazione nel tentativo di aiutare la persona a trasformare la propria esperienza partendo da una condizione di sofferenza per arrivare ad una non specificata forma di benessere esistenziale, richiede anche un atteggiamento meno vincolato alla tecnica e alle sue rigidità, ma ad una rigorosa accettazione proprio del non sapere come fare per ottenerlo. In altre parole è necessario che qualsiasi protocollo basato sulla mindfulness possa essere anche affiancato da una competenza relazionale specifica che è quella di sapere stare nel vuoto che comporta il non sapere, e quella di renderlo a sua volta “fertile” o fecondo di cambiamenti desiderabili ma non prevedibili: il vero e proprio contatto con l’esperienza del qui e ora, qualsiasi cosa esso possa comportare momento per momento come dice lo stesso Kabat-Zinn.

In un libro molto importante e a tratti anche divertente, Le parole sono importanti (2019), Marco Balzano ricostruisce l’etimologia della parola “felicità” da un punto di vista filosofico e sociologico, individuando un mutamento semantico decisivo anche per la fine di questa discussione in merito al senso della mindfulness come traduzione delle pratiche sapienziali. Balzano individua come “esistano due stagioni, la prima civile e la seconda individualista. È dall’ultima che possiamo far cominciare un’idea di felicità assolutamente moderna, perché sarà proprio il filone individualista a teorizzare una scissione tra l’uomo e la comunità in cui è inserito: il singolo può occuparsi del suo appagamento senza curarsi del bene pubblico”.

La svolta successiva sarà parlare di questa felicità-benessere in termini estranei non solo alla sfera economica, ma anche morale, senza connotazioni che abbiano a che vedere con l’etica e col giusto, agganciandola in modo definitivo all’individualità e alla soddisfazione personale del desiderio, che non va più platonicamente educato ma liberato (Balzano, 2019. Pag. 20).

L’origine della parola tuttavia ha tutt’altra semantica:

L’aggettivo felix ha la stessa radice di fecundus ed è un termine riferito alla capacità di generare. […] La radice di felicitas e del suo aggettivo va rintracciata in fela, la «mammella», da cui il verbo felo, «succhiare», «ciucciare il seno». Insomma felicitas è una parola seminale, che evoca la creazione e il nutrimento. È la pienezza fertile che, appagata della sua condizione, gode di rendere felice la creatura. Felix, infatti, è «colui che è felice», ma anche «colui che rende felice», con un uso transitivo che conferma questa tensione a un altro verso cui si avverte una forte responsabilità (ibidem, Pgg. 21-22).

Eccoci dunque giunti al paradosso della modernità globalizzata in cui tutti insieme si cerca una felicità personale non condivisa e non condivisibile in quanto non collegata al bene comune, all’altro da sé, ma alla soddisfazione del proprio desiderio personale.

E sul desiderio e la responsabilità che implica l’andarne alla ricerca abbiamo centrato l’attenzione del discorso anche in riferimento alla mindfulness e alle pratiche meditative di stampo occidentale che, se da un lato hanno il merito di trasferire una sintassi nuova nel lessico comportamentale quotidiano, dall’altro rischiano grosso di perderne la semantica originaria e anche, inevitabilmente, il portato esistenziale e sociale.

Bibliografia.

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Batchelor S. Dopo il buddhismo. Ripensare il dharma per un’epoca laica. (2018) Ubaldini Editore

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Damasio A. R., (2004). L’errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano. Adelphi.

Galimberti, U. (2002). Psiche e techne: l’uomo nell’età della tecnica (Vol. 12). Feltrinelli Editore.

Goldstein, Joseph. Mindfulness: una guida pratica al risveglio. Ubaldini, 2016.

Han, Byung-Chul, and Simone Aglan-Buttazzi. La scomparsa dei riti: una topologia del presente”. Nottetempo, 2021,

Kabat-Zinn J. Vivere momento per momento, Corbaccio, Milano 2004.

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Quattrini G. P., L’effetto che fa, Armando, Roma, 2021

Purser R. E., Critical perspectives on corporate mindfulness, Journal of ManageMent, Spirituality & religion, 2018 Vol. 15, no. 2, 105–108 https://doi.org/10.1080/14766086.2018.1438038

Segal Z.V., Williams J.M.G., Tea- sdale J.D. Mindfulness, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

Žižek S., From western Marxism to western Buddhism, Cabinet, 2001, https://www.cabinetmagazine.org/issues/2/zizek.php

2 Benjamin, W. (1966).

3Cfr. Jaynes J., (1984).

4Per approfondire le tematiche inerenti le pratiche e le teorie buddhiste e le loro traduzioni nel mondo occidentale, cfr. Batchelor S. (2018).

6 Han, Byung-Chul (2021), pgg. 22-23.

7Per approfondimenti sulla mindfulness come scienza evidence based cfr. Baer, R. A., & Maffei, C. (Eds.). (2012) e Segal Z.V., Williams J.M.G., Teasdale J.D. (2006).

Please cite this article as: Pierluca Santoro (2023) L’errore di Jon Kabat-Zinn – I Protocolli basati sulla Mindfulness come porte d’accesso alle pratiche di consapevolezza.. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/numero-46/errore-di-jon-kabat-zinn/

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