La realtà e la realtà

Alessandro Defilippi – Medico, analista junghiano e didatta dell’ARPA

Pubblicato sul numero 45 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

Abstract

L’autore riflette sul ruolo che simbolo, mito e rituale hanno ancora nel mondo postmoderno, e sull’esistenza di una realtà simbolica, tanto “reale” quanto quella concreta, in quanto capace di agire sulla vita umana ed è necessaria in quanto porta significato oltre il velo del letteralismo e del concretismo.

The author reflects on the role that symbol, myth and ritual still have in the postmodern world, and on the existence of a symbolic reality, as “real” as the concrete one, in that it is able to act on human life and is necessary in that it brings meaning beyond the veil of literalism and concretism.

Parole chiave

Simbolo, mito, rituale, realtà, letteralizzazione, concretismo, realtà simbolica.

Key Words

Symbol, myth, ritual, reality, literalization, concretism, symbolic reality.

1. Introduzione

Parlare di rito oggi può suonare inattuale, paradossale. I riti ci sembrano cosa d’altri tempi, legati a parole che paiono vuote formule, a gesti che negli anni si sono tramandati sempre uguali, alla singolare idea che queste parole e questi gesti abbiano un significato che va oltre la nostra individualità. Che ha a che fare tutto ciò con un mondo figlio della dea velocità, istantaneamente connesso, costellato di immagini che si affastellano sino alla confusione, di oggetti da mostrare agli altri come segni di una nostra malcerta identità? Un mondo al tempo stesso globale e infinitamente parcellizzato, in cui si va perdendo il senso della comunità, frantumata in sottogruppi sociali sempre più piccoli e rissosi, ciascuno legato a una idea di verità non condivisa dagli altri gruppi.

D’altronde, fu Jean-François Lyotard a scrivere che nel mondo postmoderno sono andati in crisi i grand récit, le grandi narrazioni che hanno definito per secoli la cultura occidentale, dal cristianesimo al socialismo. Viviamo immersi in una società “liquida”, ci insegna Zygmunt Baumann, che scrive: «Tutti i punti di riferimento che davano solidità al mondo e favorivano la logica nella selezione delle strategie di vita […] sembrano in piena trasformazione. Si ha la sensazione che vengano giocati molti giochi contemporaneamente, e che durante il gioco cambino le regole di ciascuno. Questa nostra epoca eccelle nello smantellare le strutture e nel liquefare i modelli, ogni tipo di struttura e ogni tipo di modello, con casualità e senza preavviso».

In una società liquida, i riti, punti di riferimento per eccellenza, sembrano non avere diritto di esistenza, come pare non averne diritto quella che potremmo chiamare la funzione simbolica, ossia la capacità di generare e comprendere i simboli. Il mondo contemporaneo è afflitto da una malattia di nome letteralizzazione: le cose sono quello che appaiono, senza un’ulteriore profondità, senza un rimando a ciò che sta dietro di esse. Un concretismo che impedisce la possibilità di comprensione metaforica e simbolica.

Ho volutamente usato il termine comprensione: Karl Jaspers differenzia tra Erklärung e Verstehen, tra il capire razionalmente, lo spiegare, e il comprendere attraverso una forma di identificazione con l’oggetto che viene compreso. Questo comprendere è ciò che ci permette da un lato l’empatia e dall’altro l’accesso al simbolo.

Ecco, appunto, il simbolo. Parliamo di simbolo perché il rito è simbolico, è un tentativo di accedere a quel che sta dietro il concretismo -non la concretezza- delle cose. A quest’ultimo proposito possiamo pensare che la concretezza sia l’accettazione del fatto che certe cose esistano concretamente: le possiamo toccare, annusare, gustare; concretismo invece è l’incapacità da un lato di cogliere le risonanze che le cose hanno e dall’altro di accettare la realtà di quel che concreto non è.

Carl Gustav Jung afferma che «reale è ciò che agisce». Ma ad agire non sono solo gli oggetti tangibilmente reali, gli accidenti concreti che incontriamo nel nostro cammino. Emozioni, sentimenti, immagini interne come quelle dei sogni notturni incidono su di noi quanto uno schiaffo o una carezza. La nostra vita non è solo quella che vediamo ma anche quella che percepiamo internamente. E potremmo ipotizzare che esista anche una realtà nascosta, un ulteriore nel quale viviamo immersi e che possiamo percepire soltanto con strumenti che poco hanno a che fare con il pensiero indirizzato, quel pensiero verbale che noi spesso consideriamo l’unica o la più alta forma del pensare, senza valutare invece il pensiero per immagini, che spesso intendiamo solo come fantasticheria.

2. Simbolo

Nel 1912 Carl Gustav Jung pubblicò la prima edizione di Simboli della trasformazione, il testo che sancì il definitivo distacco da Freud. Nell’introduzione, Jung pone una distinzione tra due forme del pensare. La prima, filogeneticamente più recente, è il pensiero indirizzato o «pensiero con parole», un pensiero legato al linguaggio, logico, che «si adatta alla realtà e attraverso il quale […] imitiamo la successione delle cose obbiettive e reali […] nell’ordine rigorosamente causale degli avvenimenti» che si svolgono al di fuori della nostra mente. La seconda, più antica, è il pensare per immagini, che opera spontaneamente, attraverso un flusso d’immagini ed è guidato dall’inconscio. Possiamo vedere il primo tipo come un pensiero adattivo nei confronti della realtà concreta, e il secondo come un pensiero che «mette in libertà tendenze soggettive» e ci pone a contatto con la nostra realtà interna e con la nostra capacità di metaforizzare e di simbolizzare e quindi di uscire dal letteralismo del pensiero indirizzato. Si tratta in altre parole di un pensare intuitivo, di una intuizione intellettuale che ha un preciso significato cognitivo, non sovrapponibile a quello del pensare indirizzato.

Torniamo a questo punto al concetto di simbolo. In Tipi psicologici, testo del 1920, Jung ne dà una definizione complessa e per certi versi ispida e sorprendente: «Il simbolo […] presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria». In altre parole Jung ci dice che il simbolo è quel che esprime qualcosa che non può essere espresso altrimenti. Non esiste un modo migliore di dire ciò che il simbolo ci indica. E il simbolo non ha un significato univoco: non può e non deve essere spiegato, esaurito nei suoi significati, ma solo compreso, accettando che quei significati non sono mai esauriti. Prendiamo la figura della Croce: se essa rappresenta, come dalla lettura cristiana, l’amore divino, ci troviamo di fronte a un segno, con una corrispondenza rigida e univoca con ciò che indica, come i cartelli stradali che ci dicono, senza esprimere altro, che non possiamo parcheggiare in quella via. Se invece la Croce è un rimando, come abbiamo detto, a un dato di fatto sconosciuto, «inesplicabile, mistico o trascendente», ma di cui riconosciamo la necessità, quindi a un dato di fatto di natura soprattutto psicologica, ecco che ci troviamo di fronte a un simbolo. Non conoscenza del dato di fatto indicato e sua necessità sono caratteristiche dunque del simbolo. Se esso viene spiegato diviene un segno, un simbolo morto. In altre parole potremmo dire che il simbolo ha un’eccedenza di significato. Se quell’eccedenza, intesa come l’inesauribilità delle suggestioni che ci porta, dovesse finire, ecco che il simbolo muore, fissandosi in un significato specifico. Il segno denota, ha una direzione interpretativa precisa ed elimina le altre possibili risonanze; il simbolo invece è connotante, legato alla sua essenza che rimane in altre maniere inesprimibile. Per certi versi potremmo avvicinare l’oscura percezione di quell’essenza al concetto di Erlebnis, ossia all’esperienza vissuta e alla sua consapevolezza.

Ernst Cassirer, in contrapposizione ad Aristotele, considera l’uomo un animal symbolicum, in quanto capace di sintetizzare la molteplicità dei fenomeni tramite il simbolo: «[…] l’umanità -scrive- non può essere conosciuta direttamente, ma deve essere conosciuta attraverso l’universo simbolico che l’uomo ha creato storicamente. Così l’uomo dovrebbe essere definito animal symbolicum (un animale in grado di produrre simboli o simbolizzante)». E anche: «Pertanto, invece di definire l’uomo come un animal rationale, noi dovremmo definirlo come un animal symbolicum». Anche per Cassirer, come per Jung, esiste nel simbolo un’eccedenza di significato, che lo rende «più significante del segno». Il segno, abbiamo detto, è denotante, il simbolo invece connotante: esso accenna, come l’oracolo di Delfi, e nell’accennare ci apre a una molteplicità di significati possibili. Esso è «[…] la somma delle note costitutive dell’essenza di un oggetto come è in sé e non come è per noi». Secondo Cassirer il simbolo ha una funzione fondante della realtà psichica: «Il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve soltanto allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già bello e pronto ma è lo strumento in virtù del quale questo stesso contenuto si costituisce ed acquista la sua compiuta determinatezza. L’atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l’atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico». Siamo evidentemente in un terreno attiguo a quello junghiano. In effetti, il simbolo vivo, come lo definisce Jung, al contrario dell’archetipo, è legato all’interpretazione individuale ed è storico (e non impermanente), cessando di vivere una volta interpretato. Ad esso viene attribuita, sia da Cassirer, sia da Jung, una funzione organizzatrice del pensiero: mutuando un concetto della fisica potremmo apparentare il simbolo a un attrattore, una forma geometrica che caratterizza il comportamento a lungo termine di un sistema: si tratta in altre parole di ciò verso cui si stabilizza o viene attratto il comportamento di un sistema. Il simbolo infatti può essere considerato come quell’attrattore, che organizza lo spaziotempo psichico intorno a sé, stabilizzandolo e donandogli senso.

Abbiamo detto che il simbolo ha una funzione fondante della realtà psichica e questo ci riporta a quanto la realtà sia -almeno- di due tipi: quella concreta e quella interna, ed è al rito che ci riporta l’idea della realtà interna.

3. Rito

Ma dunque, che cosa è un rito? In un senso molto ampio lo potremmo definire un atto o meglio una serie di atti, di comportamenti, di parole, formalizzati e con un significato simbolico. Nelle celebrazioni misteriche che si svolgevano a Eleusi, legate al mito di Demetra e Kore, al ciclo delle stagioni e all’istituzione dell’agricoltura grazie ai doni che Demetra fece a Trittolemo, si compivano gesti (dromena), imitando Demetra nella sua ricerca di Kore, si mostravano oggetti sacri (deiknumena), tra cui probabilmente una spiga di grano, e si pronunciavano parole (legomena), legate alla ostensione degli oggetti sacri. Tutto questo nel silenzio che s’accompagna ai riti d’iniziazione. In questo modo i misteri connettevano i celebranti e gli iniziandi a una realtà sovraumana, collegata anche, pare, con la speranza di una vita eterna per gli iniziati.

In effetti, il rito connette gli umani che lo praticano o vi assistono con qualcosa di oltreumano: la divinità, il sovrano divinizzato, il tempo delle origini… Un esempio significativo e chiaro per le popolazioni di formazione cristiana è il rito della messa, durante la quale si ha un contatto direi “fisico” con oggetti -l’ostia e il vino consacrati- che rappresentano la divinità, il corpo e il sangue del Dio. Nella messa i gesti, i comportamenti e le parole dell’officiante sono rigidamente formalizzati e tali dovrebbero essere anche quelli di coloro che assistono alla funzione: la preghiera, il segno della croce, l’assunzione dell’eucarestia. Dunque, parole, gesti e oggetti che connettono l’uomo praticante il rito con il dio.

4. rapporto mito-rito

Il rito dunque collega l’umano con un senso più alto, oltreumano, con una realtà “altra” rispetto a quella concreta, una realtà che potremmo definire mitica. Il rito mette in connessione con il mito. Mircea Eliade scrive: «La funzione fondamentale del mito è quella di stabilire i modelli esemplari di tutti i riti e di tutte le azioni umane significative», comprese, aggiunge Eliade, anche azioni non strettamente religiose, come la navigazione, la caccia, la pesca. In questo senso quindi il rito è la ripetizione di eventi che si sono svolti in origine. All’origine del tempo, come nei riti legati ai miti cosmogonici o all’inizio di un tempo nuovo, come nel caso della messa cristiana. Un rito dunque, come dice Gerardus van der Loeew, è un mito in azione, un proseguire un’azione primordiale, originaria, che ci ricollega per l’appunto con le origini.

5. La realtà simbolica

Ma il rito può anche essere letto in una chiave diversa, come la strada per poter avere una vita simbolica, una vita cioè consapevole dei rimandi a una realtà ulteriore. Non intendo riferirmi a una realtà sovranaturale o spirituale in senso stretto, ma alla possibilità di cercare un senso che non sia solo quello immediato. Un segno, come abbiamo visto, ci indica un significato univoco; il simbolo invece ci fa percepire risonanze non altrimenti avvertibili. Il punto dunque è il senso, ossia il poter pensare che la nostra vita non sia soltanto un susseguirsi meccanico di eventi collegati tra loro dalla causalità, ma che sia invece collocabile in uno scenario più ampio che la trascende. Ribadisco ancora che non mi riferisco necessariamente all’idea che esista un livello di esistenza altro rispetto a quello che quotidianamente viviamo. Torniamo al concetto dei grand récit di cui ci parla Lyotard. Collocandoci in essi, sia nei racconti di stampo religioso come il cristianesimo, sia in quelli invece di stampo sociale come il marxismo, noi possiamo percepirci attori in un quadro più ampio, e pensare che la nostra vita abbia un valore maggiore di un mero ripetersi di avvenimenti. James Hillman ha mutuato da John Keats, poeta inglese a cavallo tra fine ‘700 e inizio ‘800, il concetto di fare anima, intendendo con questo il trasformare gli eventi in esperienze, permettendo così che gli eventi lascino in noi un segno, aiutandoci in un processo di trasformazione, aiutandoci in altre parole a esprimere il nostro potenziale esistenziale, a divenire noi stessi. Ci aiutano in quello che è il nostro bisogno di senso. Ogni nostro processo culturale, intendendo il termine culturale in senso ampio, rappresenta il tentativo di attribuire un senso alle emozioni che proviamo, alle percezioni che ci colpiscono, agli affetti che sentiamo. Scrive Jung: «La vita è folle “e” significante. E se non ridiamo della sua follia e non speculiamo sul suo significato, essa diventa banale e tutto si riduce al lavello più basso. Allora c’è poco senso e poco nonsenso. In fondo, nulla ha significato, perché, quando ancora non c’erano uomini pensanti non c’era nessuno che interpretasse i fenomeni; soltanto a chi non comprende occorre spiegare. Ha significato solo l’incomprensibile. L’uomo si è svegliato in un mondo che non comprendeva: ecco perché cerca d’interpretarlo». L’uomo quindi ha bisogno di senso e, come aggiunge Jung, «ha disperatamente bisogno di una vita simbolica» che sola «può esprimere i bisogni dell’anima». Se il rituale è una via verso il simbolo e quindi verso il senso, allora attraverso di esso vengono manifestate profonde istanze psichiche, anzi necessarie realtà psichiche.

La ritualizzazione implica la sensazione di compiere un atto che ha risonanze maggiori rispetto al quotidiano. Ci inserisce all’interno di una ripetizione che attinge ad aspetti transgenerazionali: nelle nostre parole, nei nostri gesti sono presenti, nel momento del rito, anche le parole e i gesti di coloro che ci hanno preceduti. Ci offre la consapevolezza di appartenere a una comunità, sia la comunità umana in senso lato, sia la comunità che con quel rito si identifica. Soprattutto percepiamo, nel rituale, la presenza di un aspetto simbolico, di una realtà che va oltre la concretezza e accede invece a quella che potremmo chiamare realtà simbolica.

Ma che cosa significa realtà simbolica? Significa in prima luogo domandarsi che cosa significa quel che accade e quel che proviamo, ciò che sta dietro l’apparenza. Ma significa fondamentalmente il considerare quella realtà che incontriamo, apparente e concreta, come un accesso al senso.

Il rito è, per sua natura, ridondante, una ridondanza che, come afferma Gilbert Durand, amplifica il significato simbolico del rito stesso, arricchendolo ogni volta, permettendogli, per l’appunto, di diventare significativo. Il rito diviene quindi una delle possibili via di contatto con il simbolo, e il simbolo, sempre citando Durand. è «una rappresentazione che fa apparire un senso segreto», ci permette di attribuire un senso a quello che ci accade, e così alla realtà concreta si affianca una realtà simbolica portatrice di senso.

È di questa realtà, e del senso, che gli umani hanno, disperatamente, bisogno.

 

Please cite this article as: Alessandro Defilippi (2022) La realtà e la realtà. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/numero-45/la-realta-e-la-realta/

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