Le emozioni negative e la retorica della felicità: che cosa avrebbe detto Jung?

Abstract

Abstract: Da alcuni anni si assiste, in ambito accademico e nella cultura popolare, all’esplosione di un marcato interesse per la tematica delle emozioni, con un’enfasi sulla ricerca della felicità. Ciò ha portato alla diffusione di una narrativa sociale che potremmo definire una “retorica della felicità”, sostenuta dal pensiero positivo di ma- trice americana e dalla psicologia positiva. Tra le conseguenze di questo fenomeno, vi sono sia un’errata concettualizzazione delle emozioni positive e negative come fat- tispecie vicendevolmente escludentesi, sia una tendenza all’evitamento delle emozi- oni negative attraverso una ricerca del piacere edonico. C.G. Jung , attraverso la di- namica degli archetipi e il processo di individuazione, ha sia messo in guardia dal pericolo di un’identificazione con i miti del collettivo, sia ribadito l’importanza dell’emersione e dell’integrazione delle diverse parti dell’Io, anche quelle più oscure, nel processo di maturazione della personalità. Il presente lavoro interroga dunque l’opera di Jung per ricavarne delle ipotesi di risposta su alcuni interrogativi relativi alla relazione tra le emozioni positive e negative, il benessere e i processi di crescita dell’individuo. For some years now, in the academic field and in popular culture, there has been an explosion of the interest in the theme of emotions, with an emphasis on the pursuit of happiness. This led to a social narrative spreading, which we could define a “rhetoric of happiness”, supported by American positive thinking and by positive psychology. Among the consequences of this phenomenon, there is both a mistaken conceptualization of positive and negative emotions as a case of mutual exclusivity, and a tendency to avoid negative emotions through a search for hedonic pleasure. C. G. Jung, through the dy- namics of the archetypes and the process of individuation, has both warned of the dan- ger of identification with the myths of the collective, and reiterated the importance of the emergence and integration of the different parts of the Ego, the darkest ones included, in the process of personality maturation. The present work interrogates Jung’s work in or- der to derive possible answers to some questions about the relationship between positive and negative emotions, well-being and the individual growth processes. Parole chiave: Individuazione, Ombra, Felicità, Emozioni negative, Emozioni posi- tive, Integrazione. Keywords: Individuation, Shadow, Happiness, Negative Emotions, Positive Emotions, Integration.

Emanuele Gatti

di Emanuele Gatti

Counsellor della Gestalt e istruttore di Mindfulness

Pubblicato sul Numero 38-39 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

Dalla felicità alle emozioni negative

Negli ultimi due decenni la ricerca in campi tanto diversi quanto la filosofia, la storia, la psicologia, le neuroscienze, la sociologia, l’economia, le scienze politiche ha posto una particolare enfasi sul tema della felicità. Oltre a una sorprendente quantità di articoli scientifici sull’argomento, ne è risultata anche una pletora di opere divulgative, manuali di auto-aiuto, articoli di letteratura grigia che semplificano eccessivamente la materia e propongono ricette di corto respiro e dubbia efficacia per il raggiungimento del tanto agognato benessere. Parallelamente, alcuni manager, imprenditori e politici hanno iniziato a intraprendere azioni concrete per impostare politiche aziendali e nazionali basate non solo sulla crescita economica, ma anche sulla crescita, o quantomeno il mantenimento, della felicità di collaboratori, clienti e cittadini (Ehrenreich, 2009; Ahmed, 2010; Burkeman, 2012; Burnett, 2012; Oettingen, 2014; Davies, 2015; Frawley, 2015).

Per quanto riguarda strettamente la psicologia, lo sviluppo della corrente umanistica sin dagli anni Quaranta del Novecento, e successivamente della positive psychology (la quale, pur nata ufficialmente nel 1998 (Seligman, 2002), da essa deriva), da un punto di vista costruttivista può essere visto come il risultato di un ampio spostamento culturale che attribuisce via via maggiore importanza alla ricerca e al raggiungimento della felicità nel mondo occidentale (Hecht, 2007; Ehrenreich, 2009; Ahmed, 2010; Burkeman, 2012; Burnett, 2012; Whybrow, 2013; Davies, 2015; Frawley, 2015; McKenzie, 2016; Power, 2016).

Questa retorica della felicità e del benessere porta con sé almeno quattro conseguenze infelici. La prima è che si è diffuso un imperativo alla felicità (Ehrenreich, 2009; Burkeman, 2012; Oettingen, 2014; Power, 2016), per cui il non sentirsi felici è ragione di insoddisfazione, sensi di colpa, frustrazione aggiuntivi, e gli stati emotivi cosiddetti negativi vengono patologizzati e, pertanto, fuggiti. Felicità e infelicità, emozioni positive e negative sono sempre più concettualizzate (fuori dal mondo accademico, ma talvolta anche al suo interno, sic!) come gli estremi opposti di un continuum. Le emozioni positive, per via della loro componente edonistica, sono viste come desiderabili, mentre quelle negative, a ragione della loro spiacevolezza, sono considerate da evitare.

La seconda è che, come nel mito di Adamo ed Eva nella Genesi, la felicità è rappresentata come la condizione esistenziale naturale dell’essere umano – aggiungendo però che abbiamo oggi il diritto di fare ritorno all’Eden perduto. Ne deriva che se la vita non ci sorride, in ultima analisi è solo colpa della nostra incapacità di sorridere alla vita: anche di fronte alle peggiori avversità, dipende da noi scegliere come sentirci, perché la felicità si presenta come una scelta. Naturalmente, questo è solo parzialmente vero, e l’esperienza clinica ci spinge a confrontarci quotidianamente con persone che non sanno come essere felici, e che talvolta non lo desiderano nemmeno.

La terza conseguenza infelice consiste nell’assurda convinzione che, mantenendo un atteggiamento ottimista ed evitando di indulgere nelle emozioni negative, prima o poi le opportunità sperate, e con esse i successi fantasticati, arriveranno. In realtà, se l’ottimismo è utile in tante circostanze, il pessimismo è altrettanto utile in altre, e un sano realismo andrebbe probabilmente preferito nella maggior parte dei casi (Boniwell, 2012).

La quarta conseguenza infelice è rappresentata dal fatto che, paradossalmente, in quest’epoca felice si assiste a un’epidemia di depressione, disturbi d’ansia e altre condizioni patologiche, psicologiche e mediche legate alla vita emotiva delle persone. Viene da chiedersi, come fanno alcuni autori (Ehrenreich, 2009; Burkeman, 2012; Davies, 2015), se l’insistenza sul tema della felicità non sia tra le cause, anziché tra le conseguenze, di siffatta epidemia.

Dalla reazione di una parte del mondo accademico alla positive psychology e più in generale alla retorica della felicità è nato un nuovo filone di ricerca che enfatizza gli aspetti positivi e funzionali delle emozioni negative. Il presente lavoro si inserisce in questa prospettiva, per rimarcare che l’essere umano andrebbe considerato non come scisso tra emozioni di polarità opposta, bensì nella sua integrità psico-emotiva. A tale scopo, trovo immensamente prezioso il confronto con le idee di Jung, un pensatore che tanta parte del suo lavoro ha dedicato all’integrazione degli opposti.

La concezione delle emozioni di Jung risulta particolarmente moderna e attuale: egli non solo rifiuta la superiorità del pensiero sul sentimento tanto diffusa e di moda ancora sino a pochi anni fa, ma assegna a quest’ultima funzione dell’io una razionalità operativa paragonabile a quella dei processi logici del pensiero (Beebe, 2006). In altre parole, Jung (1921) sostiene che l’intuizione e il “sentire” sono modalità del conoscere che hanno pari validità rispetto al pensiero. Questa visione è in linea con il cambio di paradigma che si è affermato nelle scienze cognitive, che vede le emozioni non più come fonte di disturbo per il pensiero, bensì come una modalità di orientamento, percezione, conoscenza inscindibile dalla cognizione.

Nelle prossime pagine, dunque, rileggerò l’opera di Jung per ipotizzare, con la maggiore fedeltà possibile alle sue parole, cosa avrebbe pensato delle emozioni positive e negative così come le intendiamo oggi. Ovviamente Jung non ha sviluppato una teoria delle emozioni, bensì dei complessi emotivi (Samuels, 2005), e bisogna pertanto prestare la massima attenzione nell’estendere delle riflessioni sorte all’interno di un certo sistema teorico a concetti che a tale sistema non appartengono. Nonostante ciò, mi sembra di poter immaginare, a partire dai testi di Jung, delle possibili risposte agli interrogativi seguenti:

  1. È possibile che l’enfasi posta sul positivo generi un atteggiamento negativo?

  2. Quando le emozioni positive diventano disfunzionali o si volgono in un ostacolo al processo maturativo?

  3. Qual è la funzione delle emozioni negative e come queste ultime possono aiutarci?

L’enantiodromia

Per Jung la bipolarità è essenziale, in quanto gli opposti sono necessari per definire qualunque entità o processo (Samuels, 2005). Si rifletta, per esempio, sul fatto che la struttura degli opposti è alla base del modello junghiano dei tipi psicologici, con estroversione e introversione come diverse visioni del mondo, e con le funzioni come autentiche coppie di opposti. Dall’altro lato, Jung suggerisce che ciascun membro di una coppia di opposti è legato indissolubilmente all’altro, in tal modo che la coppia non può realmente essere separata (ib.; cfr. Jung, 1946). Come fa notare la Jacobi (1977), infatti, i contrari mutano costantemente; quando, per esempio, l’incosciente è lasciato fluire in modo naturale, i contenuti positivi si susseguono a quelli negativi e viceversa, e anzi, un’immagine di chiarezza attirerà inevitabilmente un’immagine di oscurità.

Questo principio è bene illustrato dal concetto di enantiodromia, introdotto da Eraclito per indicare che dalla dialettica degli opposti si genera l’armonia, e usato da Jung per spiegare come l’eccesso di una qualsiasi forza produca inevitabilmente il suo opposto: «Non esiste usanza venerabile che, dandosi il caso, non si converta nel suo contrario, e quanto più estrema è una posizione, tanto più facilmente vi è da attendersi un’enantiodromia, о conversione nell’opposto» (Jung, 1911, p.366).

Il concetto di enantiodromia ci aiuta a rispondere al primo interrogativo: è possibile che l’enfasi posta sul positivo generi un atteggiamento negativo? Secondo Jung, non solo sarebbe possibile, ma avverrebbe sicuramente, perché un’esagerata enfasi sul positivo non potrebbe che generare il suo contrario, proprio per il principio dell’enantiodromia.

«Io chiamo enantiodromia il manifestarsi, specialmente in successione temporale, del principio opposto inconscio. Questo fenomeno caratteristico si verifica quasi universalmente là dove una direttiva completamente unilaterale domina la vita cosciente, così che col tempo si forma una contrapposizione inconscia altrettanto forte, che dapprima si manifesta con un’inibizione delle prestazioni della coscienza e in seguito con un’interruzione dell’indirizzo cosciente» (Jung, 1921, pp. 473-474).

Il concetto di enantiodromia è legato a una forma di autoregolazione psichica, attraverso il processo di “compensazione” (Casement, 2001; Samuels, 2005). In altre parole, è la tensione stessa tra gli opposti che alloca continuamente e dinamicamente l’energia psichica, e la compensazione consiste nel fatto che un eccesso estremo di una polarità porta inevitabilmente all’insorgenza della polarità opposta. Nella vita di tutti i giorni ne abbiamo continuamente degli esempi: troppo divertimento stanca o annoia; troppa sofferenza rende cinici e distaccati; troppa felicità ci porta prima o poi a precipitare, etc.

La compensazione può presentarsi inizialmente sotto forma di sintomi negativi, e la nevrosi può essere vista come uno sbilanciamento verso una polarità (Samuels, 2005). Ciò non ci deve tuttavia indurre a pensare che una polarità sia migliore dell’altra, o che una polarità apparentemente negativa sia tale anche a livello funzionale, perché l’enantiodromia funziona in entrambi i sensi e quel che può apparire come un’indesiderata caratteristica di personalità nel nevrotico può fungere da base per la sua maturazione (Jung, 1932, pp. 323-324). Jung insiste sul fatto che la condizione negativa può in realtà rappresentare persino un passaggio ad maiora, ciò che egli definisce «enantiodromia per tenebras ad lucem» (Jung, 1954b, p. 522), in quanto ogni rinascita, ogni passaggio a una maggiore illuminazione, insomma, per usare una terminologia più attuale e prosaica, ogni forma di crescita richiede il precedente passaggio attraverso una zona di massima oscurità.

Il pensiero positivo di matrice americana promuove invece il dogma secondo il quale sarebbe buono per la persona controllare cognitivamente i propri pensieri in direzione di un ottimismo forzato. La risposta di Jung è: «Quanto più i sentimenti sono rimossi, tanto maggiore è l’influenza dannosa che essi esercitano segretamente sul pensiero (…). (T)utte le tendenze psichiche che vengono rimosse per suo (di una formula intellettuale) mezzo, si raggruppano nell’inconscio come antitesi e determinano l’insorgere di dubbi» (1921, pp. 382-3).

Attraverso il concetto di enantiodromia, dunque, Jung anticipò le conclusioni dei più recenti studi sulla soppressione delle emozioni, che dimostrano come il tentativo consapevole e volontario di orientare l’emotività in direzione positiva è destinato a generare emozioni negative (Wegner, 1994; Hayes et al., 1996; Gross e Levenson, 1997; Gross e John, 2003; Harburg et al., 2003; Chawla e Ostafin, 2007; Kashdan, Breen e Julian, 2010; Hayes, Strosahl e Wilson, 2012; Ochsner, 2013).

Gli archetipi della Persona e dell’Ombra

È possibile affermare che Jung ha sempre lavorato affinché le persone raggiungessero un maggior grado di quella che oggi definiremmo autenticità, ovvero di coerenza con la consapevolezza di chi si è veramente. Ciò attraverso un modello dell’io assai complesso, in cui dialogano un Io conscio e un Io inconscio, quest’ultimo composto da una parte individuale e una transpersonale, ovvero collettiva. In questo discorso si inseriscono due importanti contrapposizioni (tra le tante proposte da Jung): quella tra Io e Persona e quella tra Io e Ombra.

La contrapposizione tra Io e Persona rappresenta la confusione tra la propria identità e il proprio ruolo sociale; un’identificazione con la Persona implica non solo un’adesione al ruolo sociale, ma una perdita della conoscenza della propria natura più genuina (Samuels, 2005): «la Persona si dispone come veste che il singolo si dà per conformarsi alla struttura del reale, come cifra d’un compromesso fra attitudine interna e leggi esterne» (Carotenuto, 1977, p.102). Parlando della contrapposizione tra Io e Persona, Jung si scaglia contro il pericolo di identificarsi con l’inconscio collettivo: «Maggiore è la carica della coscienza collettiva, più l’Iо perde la sua importanza pratica. Esso viene in certo qual modo assorbito dalle opinioni e dalle tendenze della coscienza collettiva: il risultato è l’uomo massa, sempre vittima di un qualche “ismo”» (Jung, 1954a, p. 236)1.

Alla luce della contrapposizione tra Io e Persona, è possibile ipotizzare che Jung aborrirebbe l’idea di assumere un atteggiamento eteroindotto verso una specifica polarità e di vestirlo come una maschera come il peggior pensiero positivo e l’enfasi contemporanea sulla ricerca della felicità invitano a fare. Abbozzando una prima risposta al mio secondo quesito, probabilmente Jung avrebbe visto come disfunzionali le emozioni positive quando esse corrispondono all’unilateralità della psiche e all’identificazione con la Persona.

La seconda contrapposizione è quella tra Io e Ombra, che consiste in un rifiuto dell’istintualità, oppure nella proiezione sugli altri di propri lati inaccettabili; l’identificazione con l’Ombra porta al disprezzo in se stessi, a una mancanza di autostima, alla paura del successo (Samuels, 2005), perché essa rappresenta una dimensione che riteniamo incompatibile sia con la nostra struttura personale, sia con il ruolo che incarniamo nella vita pubblica (Carotenuto, 1977).

Per Jung, prendere coscienza dell’Ombra costituisce una sfida per l’individuo, perché «significa riconoscere come realmente presenti gli aspetti oscuri della personalità» (Jung, 1951a, p.8). L’Ombra, tuttavia, non va rifiutata, bensì integrata nel Sé. La personalità è infatti una costruzione diacronica che implica l’integrazione delle sue diverse componenti (Jung, 1955), e proprio dall’accettazione dell’Ombra si genera quella disposizione interna che consente alla personalità di evolversi (Jung, 1934/1950, 1940). Nel processo di integrazione del negativo, dell’Ombra, le emozioni negative possono essere una guida per l’individuo. Non un loro disconoscimento, dunque, bensì una loro emersione, una loro comprensione, una loro elaborazione permette la crescita dell’individuo.

Bene e male per Jung

A ulteriore testimonianza della posizione di Jung sulla dicotomia positivo vs. negativo, vale la pena ricordare il suo pensiero rispetto alle idee del bene e del male. Jung nota come l’ambiguità morale degli dèi antichi e dello Yahwèh ebraico sia stata risolta dal pensiero cristiano attraverso una dicotomizzazione del bene e del male, tale per cui Dio divenne esclusivamente buono, mentre tutto il male fu concentrato nel diavolo (Jung, 1921, 1954c). Questa scissione, tuttavia, minacciava la natura monoteistica del cristianesimo, che successivamente superò questo dualismo manicheistico rendendo l’uomo stesso responsabile del male.

Jung rileva come invece nel pensiero orientale bene e male rimangano compresenti, come testimoniato dalla dea Kali, o dalla compenetrazione degli opposti rappresentata nel taoismo dai concetti di yin e yang. È interessante notare che, secondo alcuni studi, nel pensiero orientale è più sentita che in Occidente la necessità di esperire emozioni di valenza sia positiva sia negativa per raggiungere la felicità, che in Europa (e in forma estrema negli Stati Uniti) è concettualizzata maggiormente come assenza di negatività e ricerca di un piacere edonistico (Uchida e Kitayama, 2009; Grossman et al., 2014; Mesquita, De Leersnyder, Boiger, 2016). Jung (1951a) insiste sulla necessità di integrare bene e male, di sanare la contraddizione della loro separazione.

Suppongo quindi che Jung avrebbe sottolineato che le emozioni positive divengono disfunzionali quando arrivano a celare alla coscienza la realtà del male intrinseca nell’essere umano, anziché spingerlo a un’integrazione, per quanto difficile e dolorosa, del positivo e del negativo. Ne consegue che egli avrebbe probabilmente disapprovato la psicologia positiva, sottolineando che una psicologia che si concentri solo sul positivo rischia di perdere di vista il male, la necessità del riconoscimento del quale Jung continua invece a ribadire. Jung, inoltre, sembra presagire il pericolo che il pensiero positivo implicitamente reca con sé nel momento in cui l’uomo comincia a vedere se stesso soltanto nei suoi lati di luce: il rischio, cioè, di non vedere se stesso come capace di produrre il male – un rischio che egli vide farsi amara realtà con le due guerre mondiali. Jung invita a non cullarci nell’illusione di una natura umana essenzialmente benigna, o, d’altra parte, a flagellarci nella convinzione di una natura essenzialmente maligna. Male e bene si richiamano ed è in questo ricoscimento, in questa consapevolezza della nostra natura angelica e diabolica insieme che noi, come collettività e come individui, possiamo andare nella direzione della crescita.

Sembra dunque assai probabile che Jung avrebbe sostenuto le moderne teorie dell’accettazione delle emozioni negative, in quanto sono il riconoscimento e l’accettazione del male a consentirne una sua integrazione nella coscienza.

Il processo di individuazione

Nel lavoro di Jung spicca il concetto di individuazione, che ricorre costantemente nel suo lavoro dal 1911 sino alla sua morte, e che in fondo descrive l’essenza stessa del suo percorso di evoluzione personale; Jung, infatti, considerava tutta la propria opera come parte fondamentale del proprio processo di individuazione (Carotenuto, 1977; Samuels, 2005, Stein, 2006).

Per Jung l’individuazione, che «assume le più diverse forme pensabili a seconda degli individui» (1943, p.111), «significa diventare un essere singolo e, intendendo noi per individualità la nostra più intima, ultima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare sé stessi, attuare il proprio Sé. “Individuazione” potrebbe dunque essere tradotto anche con “attuazione del proprio Sé” o “realizzazione del Sé”» (Jung, 1928, p. 173).

L’individuazione è un processo sia di differenziazione dell’individuo dal collettivo, ovvero dell’Io dalla Persona, sia di integrazione dell’Ombra nel conscio, ovvero di ciò che è negativo all’interno degli aspetti di consapevolezza elaborati nel processo costante di maturazione verso la realizzazione della propria natura individuale.

Individuazione come differenziazione

Jung definisce l’individuazione come «il processo di formazione e di caratterizzazione dei singoli individui, e in particolare lo sviluppo dell’individuo psicologico come essere distinto dalla generalità, dalla psicologia collettiva. L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale» (1921, p. 501).

Jung è molto attento a non rifiutare in toto le norme collettive, in quanto, giustamente, esse servono al processo di socializzazione. Per questo, secondo Jung (1921, p. 502), è prima necessario far proprie le norme di base del vivere sociale. Lo sviluppo individuale, inoltre, non necessariamente si oppone alle norme collettive. L’individuazione, tuttavia, implica di solito un superamento della norma collettiva interiorizzata, ovvero della propria identificazione con il proprio ruolo sociale: «La dissoluzione della Persona è dunque condizione indispensabile dell’individuazione» (Jung, 1916a, p. 299). Allo stesso tempo, l’individuazione richiede la formazione di valori che sostituiscano quelli collettivi che vengono abbandonati: «Solamente a colui che crea valori oggettivi è lecito e possibile individuarsi. Per questo l’individuazione è possibile solo se si producono valori sostitutivi» (Jung, 1916b, p. 311).

Questo dicorso ci porta a riflettere, ancora una volta, sulla retorica della felicità. Alla luce delle parole di Jung, è del tutto controproducente imporre alle persone una modalità d’essere, per quanto essa sia auspicabile, perché è nell’individuazione che la persona trova la propria realizzazione. A nulla serve che la felicità si faccia norma sociale, o che la psicologia stessa ci offra delle ricette prescrittive su come essere felici e persino, come è stato fatto, su quante emozioni positive e negative dovremmo provare per stare bene: le persone hanno bisogno di differenziarsi da questa retorica prodotta socialmente, per seguire i propri processi di crescita.

Paradossalmente, poi, l’insistenza post-moderna sulla felicità ha una natura individualistica che rischia di mettere l’individuo contro la società; l’individuazione, invece, non mette l’individuo contro la collettività o quest’ultima contro l’individuo, bensì permette agli individui di essere sani, moralmente realizzati, nonché maggiormente consapevoli (Jung, 1928; ciò coincide con quanto le nuove forme di terapia basate sulla mindfulness, ovvero, ab origine, sul pensiero orientale, promettono di fare). Jung, inoltre, sottolinea come sia proprio l’individuazione, non l’individualismo, a rendere più coesa la collettività: «il naturale processo d’individuazione conduce alla consapevolezza della comunità umana, proprio perché ci rende coscienti di quell’inconscio che collega tra loro tutti gli uomini ed è a tutti comune. L’individuazione è un’unificazione con sé stessi e, nel contempo, con l’umanità, di cui l’uomo è parte» (Jung, 1945, p.118).

Individuazione come integrazione

Il processo di individuazione è legato all’Ombra in quanto quest’ultima è lo spazio del negativo; non si può avviare il processo di individuazione se prima non si diviene consapevoli di questo negativo, di questa parte di sé rifiutata dalla coscienza:

«Il decorso del processo d’individuazione comincia di regola con la presa di coscienza dell’“ombra”, cioè di una componente della personalità, che generalmente ha segno negativo. In questa personalità “inferiore” è contenuto tutto ciò che non vuole assolutamente aderire e adattarsi alle leggi e alle regole della vita cosciente. Essa è composta di “disobbedienza” e perciò è riprovata non solo per ragioni morali, ma anche per ragioni di opportunità» (Jung, 1948, p. 191).

L’Ombra, tuttavia, non è negativa tout court: sebbene essa contenga del materiale rifiutato dalla coscienza, essa mantiene, dalla sua posizione non cosciente, una funzione orientativa la cosiddetta funzione inferiore (Jung, 1948). Se la funzione superiore è quella che ci permette di muoverci nel mondo sociale, è la funzione inferiore che determina la nostra peculiare individualità. Nelle parole di Carotenuto (1977, p. 112): «Proprio nella funzione inferiore, nell’Ombra, si trova il più alto valore individuale. Nella funzione superiore e favorita bisogna soltanto trovare il più alto valore collettivo (…). Nella funzione inferiore si celano valori individuali superiori che, pur non avendo importanza per il collettivo, hanno grande importanza per l’individuo. L’intensità di vita che deriva da essa non può essere attinta dalla funzione collettiva». Ne consegue che anche la negatività dell’Ombra, essendo legata alla moralità così come è intesa socialmente, è del tutto relativa: «Neumann (…) afferma che l’Ombra è il risultato di ciò che l’Io condanna come valori negativi. Questa condanna dipende soltanto da un fatto: il valore del corrente canone culturale dell’individuo» (ib.).

Credo che il processo di integrazione della funzione inferiore nella coscienza sia equiparabile a ciò che avviene in un processo psicoterapico: ciò che era nascosto alla consapevolezza del paziente si palesa, e a quel punto il paziente ha il compito di processarlo, anziché difendersene. Se ci riesce, se riesce, cioè, a integrarlo come parte di sé, ecco che, pur nel dolore che tale processo può provocare, egli aumenta la propria possibilità di scelta, la propria libertà di essere e agire. La difficoltà sta nel fatto che il paziente attraversa un momento di buio, di oscurità, ovvero, fuor di metafora, di incertezza, di vera e propria anomia nel senso durkheimiano: dove prima egli sapeva come comportarsi (magari in modo disfunzionale), ora non lo sa più. Parallelamente, il paziente può giungere a scoprire parti di sé che egli non riconosce, che egli aborre, e provare un senso di ripulsa, una tentazione alla dissociazione anziché all’integrazione. Cade, soprattutto, l’illusione di essere buoni, giusti, di agire correttamente, di fronte a un ambiente (ciò che Jung, 1954b, p. 534, definisce il “mondo”) che può apparire ostile, ingiusto.

Per Jung il confronto con la propria Ombra per il processo di individuazione rappresenta «la visione dell’oscurità per la conquista della luce» (Carotenuto, 1977, p. 115). Come abbiamo visto, questo incontro con l’Ombra implica tuttavia la necessità di un suo effettivo riconoscimento, non di una fuga dalla sua ammissione attraverso i più disparati meccanismi di difesa. In altre parole, l’Ombra va accettata.

È evidente che l’Ombra non può essere equiparata alle emozioni negative. In una società, tuttavia, nella quale le emozioni negative sono tali non solo per la loro spiacevolezza, ma anche per la loro accettabilità sociale, e nella quale esse tendono a essere rifiutate, allontanate, curate, esorcizzate in quanto anormali, invece di essere considerate parte integrante e necessaria dell’esperienza umana, in una tale società le emozioni negative possono essere considerate come una parte dell’Ombra collettiva. Se accettiamo questa presa di posizione teorica, allora il confronto con l’Ombra nel processo di individuazione implica anche un confronto con le nostre emozioni negative, nonché con le emozioni negative che tale confronto stesso suscita, più o meno inaspettatamente, in noi. Ecco allora che proprio il portare consapevolezza prima, l’accettare poi le nostre emozioni negative diviene parte del processo di maturazione dell’individuo – così come, nell’esperienza clinica, è importante che il paziente dapprima riconosca, quindi accetti l’aspetto di sé che gli causa sofferenza, al fine di superarlo.

Per rispondere al mio terzo interrogativo, appare ormai chiaro che le emozioni negative hanno una fondamentale funzione di orientamento. Così come il dolore corporeo ci impone di prestare attenzione alla parte lesa e alla fonte della lesione, le emozioni negative ci segnalano, prima ancora che vi giungano la coscienza, il pensiero, la riflessione, delle aree di problematicità. Sta a noi, come Jung osserva a proposito del processo di individuazione, non fuggire, non difendercene, non fingere che non esistano o che abbiano un significato diverso da quel che effettivamente hanno. E sta ancora a noi integrarle nella nostra esperienza, stabilire una relazione con esse non di conflittualità e neppure di dialogo che ancora implicherebbero una loro oggettivizzazione, una loro esternalizzazione , bensì di identità: io sono (anche) le mie emozioni negative.

Il guaritore ferito

A conclusione del discorso, e a risposta ulteriore al quarto interrogativo, vale la pena proporre ancora un concetto junghiano la cui esplorazione è particolarmente utile a chi opera nel mondo delle professioni di aiuto: quello del “guaritore ferito” (Jung, 1950). Se le emozioni negative possono essere utili per l’individuo in generale, infatti, lo sono ancor di più per chiunque si occupi di aiutare l’altro. Jung spiega questo principio quando argomenta la necessità, da lui per primo sostenuta, di un’analisi didattica per chiunque voglia lavorare come psicoterapeuta:

«Il terapeuta non finisce mai di imparare e non dovrebbe mai dimenticare che ogni nuovo caso presenta nuovi problemi, dando adito a presupposti inconsci che fino a quel momento non si erano mai costellati. Si potrebbe dire senza esagerazione che ogni trattamento destinato a penetrare nel profondo consiste almeno per metà nell’autoesame del terapeuta: egli può infatti sistemare, riordinare nel paziente soltanto quello che riordina in sé. Non è un male se si sente colpito, colto in fallo dal paziente: può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso. Questo e non altro significa il mitologema greco del medico ferito» (Jung, 1951b, p. 128).

Come nota Samuels (2006), il guaritore deve essere ferito, deve riconoscere tale ferita e, a partire da tale ferita, deve fare qualcosa di costruttivo in relazione al cliente. Tralasciando tutte le pur interessantissime considerazioni sul transfert e il controtransfert legate a questo discorso, ci preme qui evidenziare come il guaritore debba essere disponibile a provare un disagio, una qualche emozione negativa. Questa è la ragione per cui, soprattutto per i meno esperti, è raccomandata la supervisione: il guaritore deve sistemare le proprie ferite prima di poter pretendere di aiutare il paziente. Come ben evidenzia la psicoterapia della Gestalt (la quale si è probabilmente ispirata al discorso junghiano), il clinico deve essere costantemente in ascolto delle proprie emozioni, comprese quelle negative, che lo orientano fortemente nella relazione con il cliente, e attraverso cui egli stesso può imparare. .

Conclusioni

Nel presente articolo è stata riletta l’opera junghiana per ipotizzare come Jung avrebbe reagito alla retorica della felicità e allo stigma di cui le emozioni negative sono oggetto nell’epoca contemporanea. Posti tre interrogativi teorici, sono state proposte le risposte seguenti:

  1. È possibile che l’enfasi posta sul positivo generi un atteggiamento negativo?

Per il principio dell’enantiodromia, un’enfasi eccessiva sul positivo genera inevitabilmente conseguenze negative. Legando il concetto di nevrosi a quello di unipolarità e sottolineando la necessità di riconoscere che bene e male convivono nella natura umana, Jung esplicitò la necessità di un equilibrio psichico inteso come presa di consapevolezza dei propri aspetti positivi e negativi.

  1. Quando le emozioni positive diventano disfunzionali o si volgono in un ostacolo al processo maturativo?

Le emozioni positive divengono disfunzionali quando implicano un’aderenza dell’Io alla Persona, ovvero al sentire collettivo anziché a quello individuale, oppure quando mascherano alla coscienza i lati d’Ombra, il cui riconoscimento è invece necessario per il processo di integrazione della personalità, che ne rappresenta la forma di maturazione.

  1. Qual è la funzione delle emozioni negative e come queste ultime possono aiutarci?

Le emozioni negative hanno una preziosa funzione di orientamento per l’individuo, indirizzandolo verso l’Ombra, la quale a sua volta orienta i nostri processi di integrazione e maturazione della personalità.

Bibliografia

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1 Viene qui in mente una scena del film “Le invasioni barbariche” (Les Invasions barbares, scritto e diretto da Denys Arcand, 2003), in cui alcuni colti amici sulla sessantina riunitisi dopo lungo tempo ricostruiscono tutte le etichette ideologiche, tutti gli “ismi”, appunto, cui si sono sentiti di appartenere in gioventù; nella traduzione italiana: “Siamo stati tutto e il contrario di tutto, separatisti, indipendentisti, sovranisti, sovranisti-associazionisti (…), esistenzialisti (…), anticolonialisti, dopo di che abbiamo letto Marcuse e siamo diventati marxisti, marxisti-leninisti, trotzkisti, maoisti; poi abbiamo letto Solzenicyn, così abbiamo cambiato idea, siamo diventati strutturalisti, situazionisti, femministi, decostruzionisti. C’è qualche “ismo” di cui non siamo caduti in adorazione? Sì, c’è, il cretinismo”.

Please cite this article as: Emanuele Gatti (2019) Le emozioni negative e la retorica della felicità: che cosa avrebbe detto Jung?. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/le-emozioni-negative-e-la-retorica-della-felicita-che-cosa-avrebbe-detto-jung/

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