Impressioni da Aleppo – La via della Seta e della Bellezza

Valentina Barlacchi

di Valentina F. Barlacchi

Psicoterapeuta e Direttrice Didattica IGF

Pubblicato sul Numero 38-39 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

Cantando il muezzin scuote la notte e aiuta a scioglierne l’oscura trama, lasciando che il nuovo giorno affiori… La prima notte che l’abbiamo sentito era proprio all’alba dell’arrivo ad Aleppo, piccola carovana di 9 persone in due grandi macchine piene di bagagli di lavoro che avremmo lasciato nei centri per i bambini.

Avevamo appena passato la periferia di una città fantasma, alcuni di noi dormivano mentre attraversavamo in macchina relitti di edifici un tempo abitati alle porte della città; avrei voluto svegliare tutti per portare vita in quel silenzio troppo desolato e deserto. Più di metà della popolazione della città è sparita: fuggita o morta.

Solo qualche ora più tardi in un sole freddo, la città vecchia, ai piedi dell’antichissima Cittadella Al Qal’a, baluardo salvato nella strenua battaglia in difesa della libertà, ci ha assorbiti in un intreccio di rovine, in spiragli di luce tra le macerie, in suoni di trapani e spatole; scalpellini lavorano con arte senza sosta, appesi su trabattelli a restituire vita e bellezza al cuore antico e pulsante dell’antica Halap. Quindici chilometri di Suk coperto, di cui rimangono macerie, saracinesche crivellate e visibili incendi dove hanno combattuto corpo a corpo. La voce tonante della nostra guida e il suo battito di mani nervosamente preoccupato di perderci di vista, ci raccoglie come pecorelle smarrite, quali siamo in tanta desolazione specie per chi quel posto se lo ricorda vivo e animato. La nostra guida continua a ricordarci con enfasi dolorosa che hanno distrutto intenzionalmente la grande moschea Ommayade, il minareto del mille, il Suk e quanto di antico testimoniasse la ricchezza culturale di questa città, in una strategia di annullamento di identità di un popolo.

Arriviamo in una bellissima parte del Suk rimasta miracolosamente in piedi, coperta da archi e un’altissima cupola a volta che ci accoglie con una luce radente e sacrale nella sua raffinata architettura, dove un gruppo di uomini raccolti intorno a un fuoco cuociono shawarma saporiti. Ci troviamo davanti al primo negozietto riaperto! Ha poche sciarpe ricamate e colorate che compriamo, felici di partecipare alla rinascita del Suk.

Come in un grande tempio veniamo accolti con offerta di cibo e di canti, accompagnati dal ritmo tintinnante di bicchierini da caffè suonati con una sola mano dal venditore ambulante mentre canta; altri suonatori compaiono dal niente e in un momento diventa un rito, una celebrazione dell’incontro con il nostro gruppo. L’identità di questo popolo è così profondamente radicata nel loro amore per la loro terra e per l’ospitalità che pare non sia stato possibile cancellarla nemmeno con le esplosioni di bombe fatte passare dai tunnel scavati sotto gli edifici o le bombole di gas riempite di chiodi e vetri.

Perchè la popolazione di Aleppo è diventata carbone e legna? Perchè tacete?..”- grida il poeta di Aleppo senza occhi e senza braccia, Samir Tahhan, che ha raccolto tutte le tradizioni orali della gente di Aleppo e che solo alla fine del conflitto, ormai troppo malato, ha lasciato la sua amata città, con alle spalle la sua casa e il suo amore in macerie. La passione con cui il regista teatrale del centro di Arte e Psicologia e nostro accompagnatore ci parla di questo poeta, espressione alta della lotta attraverso la cultura per la libertà della città, è la stessa con cui fa lavorare i suoi ragazzi del centro francescano; ha il seme dello stesso urlo, trattenuto e inespresso per questi lunghi anni che ora può trovare corpo e voce in questi ragazzi che frequentano le attività e coltivano talenti e risorse per superare ciò che la guerra ha stampato dentro.

Incontrando la gente si capisce che la cultura dello stare insieme è un valore profondo che parla di compassione tra esseri umani indipendentemente dalla razza e religione. La tradizione dell’accoglienza si tramanda con rituali di offerta e condivisione di cibo e tradizioni, canti di celebrazione della vita che continua nonostante tutti gli eventi luttuosi, opera insensata dell’uomo, sia che abbiano tanto, sia che non abbiano proprio niente.

In uno dei centri francescani di Aleppo est “Un nome e un futuro”- dove rovina, macerie e cumuli di spazzatura rovistati da animali, sono l’orizzonte quotidiano che l’occhio raggiunge, nel tentativo di sporgersi oltre il fondo della strada, cercando spiragli di ricostruzione ancora prematura – una donna, nella povertà più assoluta, ci regala i manufatti in lana che produce per guadagnare qualcosa e far sopravvivere la famiglia. A nulla serve insistere nel voler comprare qualcosa e contribuire alla sua attività, non c’è niente da fare le sue creazioni di lana colorate per bambini tra golfini rosa, fascette con il fiocco, sciarpine e scarpette da notte , sono troppo preziose come regali per essere quantificate in due lire. La signora è dignitosamente e semplicemente accogliente e desiderosa di regalarci qualcosa. E’ l’unica che lavora, come molte di loro, i mariti sono spesso secondi mariti, vedove di guerra, e sono uomini anziani, malati, oppressi da una disfatta che ha colpito il corpo e la mente. Le signore si fanno forza e si riuniscono a studiare arabo, matematica, vogliono imparare a leggere a scrivere, contare. E’ toccante come in una tale situazione di disastro appena varcata la soglia del centro francescano, oasi nella polvere, dove per strada si trova la rovina di un mondo che già prima della guerra era povero, loro, le donne, abbiano il coraggio di sfidare figli e mariti che non capiscono il perché di questo voler imparare a leggere e scrivere quando si muore di fame e di freddo: – “I miei figli non vogliono che venga a imparare, mi lanciano via i quaderni, io piango tanto ma vengo lo stesso al centro”. Sedute attente ai banchi di scuola davanti alla lavagna e alla loro maestra, poco più che ventenne, sono un battaglione di capi velati e vesti nere e occhi profondi, chiari e scuri ma trasparenti come acqua, che basta guardarle e i miei si riempiono di lacrime di commozione per la loro tristezza e al tempo stesso per l’infinita dolcezza senza tempo che queste creature esprimono raccontandosi con gli sguardi. Hanno anche una voglia incredibile di parlare, cantare, comunicare la loro storia, non c’è ombra di pena nella loro voce, solo una umilissima umanità che nel nostro mondo abbiamo spesso dimenticato.

Con un gesto rapido viene spruzzato dello spray nella loro stanza, per accogliere il gruppo degli italiani, tutto si copre di una nuvola chimicamente deodorante, ma loro sono così dignitose e i panni in case senza acqua, nè luce non si possono lavare facilmente, forse non c’era bisogno di quel gesto, (per noi italiani che siamo purtroppo abituati alla maleodorante e cieca ottusità umana dei nostri governanti davanti a chi scappa dalla disperazione.)

Alcune di loro si raccontano – hanno avuto la lucidità e determinazione di mandare le loro figlie femmine all’università nonostante la guerra e tutte le privazioni, queste madri credono nel valore dello studio, superiore a tutto. Vogliono dare alle figlie un futuro migliore e sanno che il regalo più prezioso è la conoscenza. Sono coraggiose e inarrestabili. Mi colpisce la loro fede nella vita a prescindere dalle disgrazie. Per lo più vivono di elemosine, hanno famiglie di minimo 8 figli e molte delle loro case sono senza porte, né finestre; la privacy non esiste e i rapporti tra marito e moglie diventano spesso dominati dall’aggressività della disperazione di aver tutti perso molti cari amati e di essersi persi nel tentativo di sopravvivere.

Bambini orfani, senza nome e senza futuro se non vengono registrati all’anagrafe, disabili e bambini tutti traumatizzati da anni di guerra: nei centri francescani che abbiamo visitato trovano rifugio, impegnati in attività in gruppo o seguiti in sessioni individuali, nel perseverante tentativo di far parlare chi non ha mai avuto questa facilità o chi con la guerra ha perso la parola. I bimbi sono disposti al sorriso per un’attitudine alla grazia, ma quando scoppiano a piangere se si sentono circondati da troppi adulti e per di più stranieri, è chiaro che la cura per le loro ferite invisibili, non sarà mai troppa con loro. Quando in poche occasioni hanno pianto, mi è sembrato che tutto si fermasse e il disastro profondo di questo popolo dirompesse senza argini, come il grido di un’umanità che ha sofferto troppo. Nati e cresciuti in guerra per molti di loro l’infanzia è stata negata completamente. La psicologa di riferimento ci dice che ci sarebbero molti bambini con talenti ma che non ci sono spazi, né mezzi economici per creare attività artistiche e sportive in cui possano sviluppare le loro qualità. Sono tanti, piccoli, tutti insieme, mescolati per età e difficoltà, purtroppo gli spazi pur gestiti con cura sono piccoli, non moltiplicabili, anche se i francescani fanno veri e propri miracoli con i mezzi a loro disposizione. Mancano soldi e molto altro per gli ultimi degli ultimi i “bambini fantasma”.

La solitudine e la disperazione si annida tra le tante case a volte perchè i membri della famiglia sono morti o scappati e nella fuga si è rimasti indietro, come una giovane di 20 anni senza nessuno. “Rimanere senza nessuno”- espressione che risuona nelle mie orecchie prima senza senso poi lasciando posto al silenzio. La comunità conta tantissimo in una società che, come mosaico di culture, ha fatto della convivenza tra membri di religioni e culture diverse un valore e la propria specificità.

Dal nostro albergo vediamo il parco sotto le ampie finestre della sala della colazione. E’ sempre visitato da bambini, ragazzi, famiglie, la ripresa della vita; in strada macchine un po’ roboanti passano, eleganti, segno che siamo in un quartiere borghese, vicino alla stazione. Qui non ci sono i carretti con il cavallo come mezzo di trasporto, magari guidato da un bambino che lavora con gli adulti per strada e in antri oscuri di botteghe alla fusione di metalli. Noi siamo a dormire in un edificio di otto piani che sembra un missile, o un’antica torre, svettante verso il cielo terso. Dalla vetrata del piano dove mangiamo siamo a pochissima distanza dal palazzo davanti a noi, con le consuete terrazze ad angolo che sembrano prue di navi in cammino. Pare proprio deserto, forse ancora abbandonato da famiglie fuggite, ce lo chiediamo ogni mattina. Ma un bel giorno appare la signora che con acqua e scopa pulisce il terrazzo. Tiriamo tutti un sospiro di sollievo, sono tornati a casa, pare un segno di rinascita, chissà! Di case abbandonate ce ne sono molte, sventrate, accasciate su stesse, cumuli di macerie dove corpi e beni sono sepolti per chissà ancora quanto tempo finché arriveranno i soldi e mezzi per portare via i detriti di famiglie travolte dalle bombe, dai missili, da scoppi di granate. Accanto a facciate di palazzi apparentemente intatti si vedono parti di edifici completamente portate via che mostrano una nudità di interni senza rimedio, ma comunque abitata, unico rifugio dopo il disastro che permetta di dire “la mia casa”. I panni stesi svolazzanti al vento freddo di questo periodo di gennaio sono nell’interno della stanza, all’aperto anche essa, senza differenza tra il dentro e il fuori, se non per quella parete alle spalle che non fa precipitare nel vuoto dai piani alti. Guardiamo in sù dalla piazza della torre dell’orologio Bab Al Faraj, dove visitiamo il giardino del Museo Nazionale scrigno della storia di Aleppo, città più antica della Siria. L’ingresso ricostruisce la facciata del Tempio Tell Halaf, con una sfinge femmina dell’Età del Ferro e molti animali a guardia del museo si innalzano davanti alle porte chiuse, chiuse per proteggere le preziosità della cultura dalla brutale volontà di distruzione. Per Elia, che ci conduce nelle visite come guida è terribile fare un passo dietro l’altro nelle zone vecchie della sua amata città, nelle piazze, ormai ombra del passato. Ogni passo per strade e piazze ora irriconoscibili, per lui e per la gente di Aleppo parla di ricordi, memorie, luoghi spazzati via e non più ricostruibili come prima. Elia ci porta a vedere dove era la sua scuola elementare e della casa dove è cresciuto, rimane il numero civico pendente, il numero 16. Non getta neanche un’occhiata dentro il cortile aperto che si intravede dietro il cancello dove cresce ora l’erba silenziosa.

Il regista Elias ora cura il giardino dei suoi ragazzi al centro Arte e Psicologia insegnando la cultura del corpo come casa delle proprie emozioni e del proprio potere espressivo nel teatro. Allievo di Eugenio Barba, diplomato all’accademia di arte drammatica di Roma, Elias crede profondamente in un teatro che nel corpo e nella voce trova il tempio e il fuoco da mantenere vivo, come potere trasformativo di tanta disperazione e paura che questi bambini e adolescenti hanno vissuto per la maggior parte della loro esistenza su questa terra. “La bellezza salverà il mondo” frase del principe Myškin ne L’idiota di Dostoevskij, ispirazione di Padre Firas al lavoro al centro Arte e Psicologia.

La cultura della bellezza e dell’accoglienza aperta credo davvero che salverà questo popolo martoriato e coraggioso.

Una delle ultime sere il nostro gruppo viene invitato dalla direttrice di Mano nella Mano, signora imponente e affascinante nel suo sguardo potente e delicato a una mensa riccamente imbandita con i piatti saporiti della cucina tipica aleppina. La lunga tavolata non riesce a contenere tutte le numerose e continue portate di piatti colorati e profumati, mentre camerieri solerti e attenti si muovono discreti perchè nessun commensale abbia qualche desiderio insoddisfatto. La sala è piena, gruppi e famiglie paiono godere vivacemente dell’atmosfera calda e festosa del ristorante che porta l’antico nome di Aleppo ed è in un antico palazzo, distrutto e ricostruito ai piedi della roccaforte illuminata. La musica dal vivo con tre musicisti e un giovane cantante, ci accoglie nella grande sala a vetrate, architettura modernamente e indiscutibilmente araba. Possiamo anche parlare sulle note morbide del Qanun arpeggiate da Ahmad, musicista dallo sguardo gentile, che suona dalla maggior parte dei suoi settant’anni di vita, ha girato il mondo con il suo strumento arabo. A prova di questo mi mostra il documento di identità dove sta scritto: suonatore professionista. Il Qanun è in legno, si suona su un piano orizzontale arpeggiando le numerose corde e cambiando tonalità da maggiore a minore nello stesso brano grazie a chiavi che serrano i capitasti delle corde.

C’è abbondanza di cibo, di luci, musica, di bellezza nella sala, di cura nelle vesti e nei trucchi delle signore, ma nessun volto impedisce di toccare una umanità avvicinabile, che si permette di raccontarsi con le proprie ferite, le proprie storie di guerra e vita che risorge senza dimenticare.

Please cite this article as: Valentina Barlacchi (2019) Impressioni da Aleppo – La via della Seta e della Bellezza. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/impressioni-da-aleppo-la-via-della-seta-e-della-bellezza/

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