La terapia in gruppo online ai tempi del Covid-19: Zoom di figure e sfondi

Tiberia De Matteis

Di Tiberia De Matteis

Psicologa e giornalista

Pubblicato sul numero 41 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

Uno dei presupposti fondamentali della Terapia della Gestalt, che ha ispirato anche la visione del gruppo di Kurt Lewin, è il concetto di “campo”, che sussiste nel considerare ogni insieme un’unità nettamente superiore alla somma delle sue parti e di conseguenza la Terapia in Gruppo di tale orientamento non può non riflettere la condizione di una molteplicità che supera di gran lunga il valore della singolarità di ciascun individuo. Le persone che formano un gruppo con finalità di cura sono chiamate a “scendere nel campo” ospitato nello studio terapeutico, in modo da costituire una totalità che sia molto più significativa e foriera di esperienze della semplice presenza di ogni membro assunto con le sue caratteristiche personali.

L’emergenza generata dalla diffusione del Covid-19 e il conseguente decreto governativo che ha imposto la clausura domestica ha richiesto una ricollocazione dello spazio terapeutico quanto mai necessaria per la fruizione collettiva del gruppo. Nella dimensione sospesa e spaesata dell’isolamento, assolutamente opposta e in contrasto con la funzione di condivisione sociale della riunione gruppale, la possibilità di proseguire gli incontri mediante la piattaforma telematica Zoom ha risuonato come una zattera di salvataggio a cui affidarsi nella gravità di un pericolo quanto mai arduo da riconoscere e da fronteggiare. Lo strumento tecnologico prima di allora associato agli interventi professionali, all’espletamento di pratiche burocratiche o al massimo all’appuntamento virtuale con qualche parente o amico lontano ha offerto le sue più preziose strategie comunicative.

Il primo passaggio adattivo sollecitato ha riguardato l’abilità di saper ricorrere a un’applicazione sconosciuta per non perdere l’opportunità di partecipare a una consuetudine terapeutica, a cadenza settimanale, ormai consolidata dal vivo e diventata ancora più indispensabile in un momento di destabilizzazione psichica e sociale dell’intero Paese e di tutti i suoi abitanti.

Se la configurazione del setting della relazione di cura inizia tradizionalmente dal momento in cui si esce di casa per raggiungere lo studio del terapeuta, accogliendo le motivazioni interne quanto l’andamento contingente del percorso necessario ad arrivare alla meta, in questo anomalo caso, soprattutto per i primi collegamenti, la possibilità di esserci era subordinata alla messa in gioco delle proprie capacità tecnologiche con tutto il portato ansiogeno di poter fallire nell’impresa e di ritrovarsi magari a constatare di essere l’unico membro del gruppo così deficitario da mancare all’appello. Eppure il gruppo si è subito mobilitato in aiuto delle persone più in difficoltà con la ricerca di suggerimenti e soluzioni adatte a garantire la partecipazione di tutti, condividendo le congrue nozioni tecniche e mettendo a disposizione le singole e differenziate competenze. Le regole per l’accesso non erano più quindi riservate al terapeuta, deputato solitamente a indurre e sorvegliare il rispetto di un patto reciproco stipulato fin dall’inizio, bensì determinate dalla situazione del momento e dai disagi creati dall’informatica e dal suo uso più o meno sapiente. Il focus ispiratore poteva allora spostarsi dal terapeuta, che comunque aveva generato l’invito al meeting della piattaforma Zoom e deteneva il codice e la password d’ingresso, a qualche membro più scaltro nell’intuire e gestire il disagio altrui nell’attivare il collegamento.

La gioia di verificare nell’immediato l’apparizione in rapida sequenza successiva di ogni singolo partecipante fino a ritrovarsi tutti contemporaneamente presenti, con audio e video funzionanti, ha superato l’emozione degli incontri reali precedenti, soprattutto nelle prime occasioni di connessione telematica, determinando il piacere di “essere nel tempo” ancora una volta tutti insieme per il medesimo scopo, anche se con una modalità tutta da sperimentare.

La struttura della schermata di Zoom prevede una gallery di icone di identica grandezza che democraticamente annulla la capacità personale di catalizzare l’attenzione e posiziona anche il terapeuta in ordine sparso insieme agli altri membri del gruppo, a meno che non si scelga volontariamente di rendere la sua immagine dominante sulle altre con un’opzione specifica che non tutti gli utenti alle prime armi sanno dominare. Ecco allora che lo spazio riservato a ciascuno è il medesimo rettangolino, non a caso chiamato “icona”, come fosse un’istantanea che accoglie e registra di certo il movimento, ma fissa pure in un’inquadratura di primissimo o primo piano l’immagine individuale di ogni partecipante.

Nell’ottica della Gestalt, il primo aspetto che salta inevitabilmente all’occhio è il rapporto figura/sfondo che connota in maniera addirittura proverbiale la storia e la pratica di questo orientamento psicoterapeutico. Se nello studio professionale ognuno offriva agli altri tutto se stesso nella completezza della propria corporeità al naturale e dal vivo, lasciando che lo sfondo venisse immaginato o fantasticato in base al racconto o al ricordo delle sue esperienze, con Zoom la figura resta incastonata nella ripresa garantita dalla telecamera, mentre lo sfondo è dato dalla percezione concreta e dalla visione lampante della zona della stanza in cui ci si trova che risulta osservabile nell’inquadratura. I più esperti sanno giocare con l’illuminazione o con la videocamera in modo da selezionare quello che intendono sottoporre allo sguardo degli altri e celando quanto non desiderano che sia riconosciuto o scandagliato. Lo sfondo allora passa da una dimensione narrativa e vagheggiata attraverso la figura a una realtà oggettiva tangibile e decodificabile che colloca e connota la persona in maniera quasi inequivocabile, non assicurando né spazio né tempo per le proiezioni o per le intuizioni. Ciò vale altresì per il terapeuta di cui si scopre almeno una porzione di un ambiente casalingo. Qualora non si provveda a chiudere la funzione dell’audio, si possono materialmente ascoltare i suoni prodotti negli appartamenti da familiari o da vicini, stimolando una frequente distrazione dal discorso centrale.

Le persone collegate sono tutte incorniciate nelle loro caselle come in un album di “figurine” che però non presenta lo stesso ordine per tutti: può capitare che per passare la parola lo sguardo giri in alto, in basso, a sinistra e a destra, per cercare il membro del gruppo designato, ma gli altri non lo possono individuare nella medesima collocazione, come invece accade quando il gruppo è distribuito dal vivo nello studio professionale.

Va anche segnalata l’opportunità di eliminare la propria icona per evitare di concentrarsi in un’osservazione di se stessi, praticamente allo specchio, che catalizza tutti i complessi sull’immagine e sull’apparenza esterna che ciascuno possiede a prescindere dall’età e dal sesso. L’urgenza di offrire agli altri l’aspetto migliore possibile non consente di focalizzarsi sui membri del gruppo come invece succede naturalmente in presenza, dato che nella vita quotidiana non si può avere un’inquadratura riflessa di sé e ci si deve limitare soltanto a ricevere informazioni dall’esterno su come si sta apparendo al prossimo. Se gli altri hanno il vincolo dell’impossibilità del giudizio, regola basilare della terapia in gruppo, è praticamente inevitabile esprimere una valutazione su se stessi, quasi sempre severa, critica e mortificante.

La funzione fàtica della conversazione assume una rilevanza accentuata rispetto alla comunicazione dal vivo, in quanto l’annullamento radicale dell’approccio analogico e non verbale costringe a tenere in considerazione alla lettera il linguaggio verbale, spesso deprivato di rinforzi chiarificatori come la gestualità o la tonalità della voce. La perdita del comportamento motorio e dei gesti delle mani, emblematici, illustratori, regolatori e di adattamento priva gli astanti di informazioni sullo stato emotivo del parlante che rimangono solo concentrati ed espressi dai cenni del capo e dalla mimica facciale. La qualità vocale con i suoi caratterizzatori, qualificatori e segregati è notevolmente compromessa dall’audio non sempre perfetto del collegamento nonché dalla frequente instabilità della connessione.

Tutta l’attenzione è raccolta su quanto viene detto e si discosta dal come venga espresso dato che la meccanicità telematica spesso non permette di operare le dovute distinzioni e di soppesare in maniera appropriata le sfumature emotive del parlato. Si può notare, però, che la punteggiatura delle sequenze comunicative è invece assai più nitida che all’interno dello studio terapeutico perché l’applicazione Zoom illumina il riquadro di chi sta intervenendo e risulta quanto mai inopportuno interromperlo o parlargli sopra anche per l’impossibilità di essere sentiti e compresi in contemporaneamente: lo strumento tecnologico non consente quello che nella realtà non è auspicabile, ma accade spesso per l’urgenza da parte degli spettatori di lasciarsi scappare qualche spontanea e immediata reazione ai contenuti veicolati dal mittente. Dal vivo, infatti, pur valendo e rispettando la norma di lasciare a ciascuno il diritto di concludere la propria prolusione, senza commentare nel frattempo, tuttavia è quanto mai frequente che qualche battuta sbotti fuori istintivamente, soprattutto sui passaggi di maggiore tensione emotiva o inclini a una chiave di lettura ironica immediata. Zoom sembra rafforzare la regola dell’ascolto silenzioso di ogni monologo, organizzando la conversazione in modo più schematico e rigoroso, così da limitare ogni contributo altrui nei riguardi del parlante. Il dialogo acquista una turnazione molto precisa e ordinata che però rischia di congelare troppo la partecipazione empatica, anche perché non è possibile osservare nemmeno le reazioni corporee che quel discorso sta suscitando negli altri. Tale condizione favorisce senza dubbio le persone che hanno più difficoltà a prendere la parola e che temono di non essere ascoltate fino in fondo: la luce che circonda la loro inquadratura funziona da autorizzazione e incoraggiamento a usufruire pienamente e con calma del loro momento deputato a catalizzare l’attenzione altrui su di sé e sulle proprie parole. È stato espressamente rivelato e confermato da alcuni membri del gruppo che tale modalità da remoto facilitasse l’intervento verbale e dilatasse il tempo del racconto senza avvertire la sgradevole sensazione di aver preso troppo spazio o troppo tempo col rischio di suscitare noia, indifferenza o rifiuto negli astanti. La ripartizione dei contributi personali si verificava su Zoom in modo più paritetico e democratico, come se tutti i presenti raffigurati nelle icone dovessero avere la medesima opportunità di parlare in un giro di opinioni e di risonanze più equilibrato ed equipollente di quanto accadeva in studio, dove le tendenze espressive personali influenzavano maggiormente i turni della conversazione, favorendo i tratti caratteriali più estroversi, per non dire istrionici, a svantaggio di quelli fobici o evitanti. Il controllo simultaneo di tutti i partecipanti perpetuato senza sosta davanti alla pagina dello schermo fornisce pari dignità e tempestività a tutti, in quanto prescinde dalla prossemica, dalle distanze e dalle posture che i singoli assumono all’interno di una stanza, comunicando la propria attitudine a collocarsi nello spazio condiviso e ipoteticamente la loro tendenza abituale a posizionarsi nel contesto sociale. Si ha l’impressione di poter guardare tutti contemporaneamente e di riuscire a gestire la situazione collettiva con un’unica occhiata anche se di fatto ognuno ha lo sguardo puntato sullo schermo davanti a sé e non davvero nel viso dei suoi interlocutori. Tale condizione alleggerisce coloro che avvertono il peso dell’osservazione altrui in presenza, ma al tempo stesso impedisce il conforto rassicurante di uno sguardo realmente penetrante e complice dal vivo.

Per quanto concerne la Terapia in Gruppo della Gestalt, il lavoro psicologico da remoto non solo esclude l’apporto fondamentale e irrinunciabile della fisicità e dell’energia dei pazienti come avviene in ogni altro orientamento, persino per quanto concerne la psicoanalisi realizzata con il ricorso al lettino, ma esclude anche una serie di tecniche di visione, di contatto, di avvicinamento, di mutuo scambio di gesti e azioni, di sperimentazione emotiva, di meditazione, di mindfulness o addirittura di drammatizzazione che sono parte integrante delle dinamiche interpersonali consigliate, stimolate e favorite dal terapeuta.

L’isolamento prescritto dall’emergenza del Covid-19 ha completamente impedito questa tipologia di esperienze, privilegiando decisamente il linguaggio verbale e la sua comunicazione in forma digitale. Il dialogo, il monologo, la narrazione, il racconto, la battuta, il commento sono stati gli stili prevalenti nei collegamenti via Zoom che spesso hanno avuto come argomento centrale il disagio personale, lavorativo e sociale generato dalla diffusione del virus nonché dalle misure restrittive della libertà personale assunte per prevenzione. Pur nel rispetto del distanziamento sociale, lo strumento telematico permetteva di sentirsi comunque vicini, coesi, partecipi, presenti e soprattutto vivi, a dispetto dei tragici bollettini medici trasmessi quotidianamente. Il conforto degli altri era tangibile anche nell’impossibilità di incontrarsi davvero e il mezzo tecnico annullava le distanze e al tempo stesso le garantiva sul piano della tutela della salute. Improvvisamente tutti i membri del gruppo potevano accedere alla terapia da casa propria, senza spostamenti di lunghezza differente per approdare allo studio dalle varie zone di residenza della città. La puntualità, per esempio, diventava finalmente una scelta personale e consapevole in quanto non più condizionata dagli impegni lavorativi e familiari, dal traffico, dal parcheggio o dai disservizi dei mezzi pubblici.

D’altro canto, però, il collegamento dalla propria abitazione differenziava le situazioni individuali in cui si affrontava la clausura domestica: chi era da solo poteva esprimersi in tutta libertà e chiarezza, senza rischio di essere disturbato o distratto da nessuno rintracciando nella terapia un unico momento di socialità, ma chi si trovava in coppia o in famiglia manteneva un’allerta continua nel timore di essere ascoltato, interrotto, controllato o giudicato dai suoi conviventi. Per alcuni si è trattato di un limite molto castrante che ha impedito addirittura la possibilità di affrontare certi argomenti o di toccare delicate questioni personali o relazionali che potevano correre il rischio di uscire involontariamente allo scoperto. La condizione fisica e mentale di completa privacy garantita dallo studio professionale resta quindi ineguagliabile e insostituibile, confinando i collegamenti da remoto a un sostitutivo di emergenza che non può essere ipotizzato o proposto in situazioni di normalità.

Essere collocati come figure nello sfondo di una stanza della propria casa restringe inevitabilmente gli orizzonti e li schiaccia in una realtà nota e abitabile che però non restituisce altro che una parte infinitesima dell’esistenza di una persona. Lo sfondo che la figura reca con sé nello studio del terapeuta è un panorama senza confini spazio-temporali che concentra il passato nel presente, lo rappresenta e lo supera, nell’universo sincronico del sentire e dell’immaginare. Il “qui e ora”, tanto caro e produttivo per la Terapia della Gestalt, rimanda in tal modo anche al “là e allora”, lo contiene, lo sublima, lo proietta all’infinito e lo rinnova di continuo nei suoi significati perennemente interpretabili e ancora risuonanti di emozione. Con la piattaforma Zoom il “qui e ora” è perfettamente circostanziato, registrato dai secondi della durata del collegamento, fissato nelle inquadrature delle icone, potenzialmente fotografabile nella pregnanza raffigurativa di un solo attimo. La connessione è tenuta insieme da tutti i partecipanti con uno sforzo di attenzione e concentrazione decisamente superiore a quello richiesto dagli incontri in presenza. L’ascolto del linguaggio verbale e del suo messaggio in senso stretto, non alimentato e non nutrito dalla ricchezza pregnante dei codici comunicativi corporei, nonché non verbali e analogici, pretende un impegno cospicuo che lascia spossati e sopraffatti da un’indigestione di parole e di stimoli mentali di cui sembra più lento e arduo metabolizzare gli aspetti emotivi. Non si può vagare col pensiero, fissare lo sguardo a un punto qualsiasi dello studio, focalizzarsi su un dettaglio fisico di uno dei membri del gruppo o distrarsi dall’ambientazione condivisa: lo schermo chiama e richiama l’attenzione di continuo, catalizza, ammalia, ipnotizza perché è l’unico tramite per essere presenti, ovvero per essere vivi e veri in quel preciso fertile, prospero e unicamente condivisibile “qui e ora”. Si è guardati ininterrottamente e non risulta educato, gentile, gradevole e accettabile farsi cogliere in un attimo di distrazione o di perdita di presenza a se stessi e soprattutto agli altri.

Per garantire l’aspetto creativo che normalmente caratterizza la Terapia della Gestalt è stata però salvaguardata l’occasione di cimentarsi con un contributo personale di valenza artistica con cui ciascuno potesse esprimere una descrizione di un altro membro del gruppo e poi di se stesso. Ecco allora un reciproco dono di produzioni creative personali con cui partecipare agli incontri con una modalità alternativa alla conversazione. C’è chi ha scritto e letto poesie, chi ha realizzato disegni, chi ha scattato fotografie, chi ha composto ed eseguito partiture musicali in una sinergia eterogenea e variegata che ha legato e appagato tutti i membri del gruppo, ognuno in virtù delle sue specifiche e volontarie qualità comunicative. Si è trattato di veri e propri regali condivisi senza potersi incontrare, ma sperimentando nella piattaforma Zoom un appuntamento in cui incrociare materiali inediti creati appositamente per i partecipanti. Poesie, disegni, fotografie, canzoni e musiche possono essere scambiate e godute anche nella virtualità, in una fruizione individuale domestica che però avviene in contemporanea con quella degli altri membri del gruppo incastonati nella medesima situazione. L’isolamento prescritto dalla legge è stato trasgredito piacevolmente dalla ricezione collettiva di un’esperienza artistica che ha il valore ancestrale di riportare il genere umano all’essenza della sua natura innata, eterna e immutabile. Zoom ha potuto svolgere da remoto la funzione del focolare che ha cominciato a invogliare gli uomini primitivi alla socialità nella condivisione serale delle avventure della giornata, un forma primigenia di riunione amicale, ma anche di terapia di gruppo ante litteram.

Il collegamento a distanza che ha consentito la prosecuzione di tante attività durante la pandemia ha anche paradossalmente mutato la prossemica abituale: persone che solitamente si frequentavano solo per questioni professionali o in ambienti esterni sono entrate a lungo nelle nostre case, pertanto qualora l’immagine offerta agli altri fosse differente da quella svelata ai conviventi, questa frattura tra essere e apparire è stata inevitabilmente, e forse anche spiacevolmente, colmata dall’esigenza di mostrarsi così come si è dal luogo privato in cui si abita e ci si manifesta. L’annullamento di ogni distinzione fra la sede pubblica in cui si svolge il proprio lavoro e la residenza familiare ha necessariamente agito anche sulle modalità di concepire e proporre se stessi. Nella terapia online, in cui è rimasta salva la disponibilità a essere autentici e a donare la propria intimità che sussisteva anche nello studio, si è colta in un totale disvelamento la natura della relazione con il proprio spazio domestico e con i suoi altri eventuali componenti. La dimensione familiare, fino ad allora soltanto narrata, è diventata una manifestazione concreta, tangibile, riconoscibile e non più soltanto immaginabile o fantasticabile in base alle risonanze emotive. L’assenza o la presenza di altre persone negli spazi da cui si attivava il collegamento non poteva non avere una sua percepibilità, una sua energia, una sua consistenza vitale. Lo sfondo domestico apparteneva all’inquadratura quanto la figura: era esplorabile direttamente e non attraverso la visione della persona intenzionata a descriverlo. Lo scollamento tra realtà soggettiva e oggettiva, qualora fosse più o meno quantitativamente esistente, veniva sanato non senza un’intrusione della verità obiettiva nella descrizione personale. Si sa che in terapia il paziente ha l’agio di non dover sempre dire, confessare e illuminare la verità autentica della sua esperienza, potendo abbandonarsi tranquillamente alla sua soggettività più o meno integrata. Questa consuetudine consolidata che ogni relazione di cura tiene ben presente risulta piuttosto messa in crisi, almeno nei casi di un esame di realtà sufficientemente intatto, dall’ambientazione domestica degli incontri terapeutici. Porsi, descriversi, se non addirittura fingersi, molto differenti da quelli che si è all’interno delle quattro mura della propria stanza e a pochi metri dei propri cari può essere una prova molto più complessa anche per i più intenzionati a manipolare gli altri e la loro realtà. Avere accesso agli ambienti che in precedenza erano stati accennati o vagheggiati, attingendo informazioni solo dalla persona e dalla sua modalità di descriversi e raccontarsi, può diventare una valida conferma della sincerità dei contenuti espressi negli incontri dal vivo e rappresenta una decisiva rassicurazione per gli altri membri del gruppo che possono così realizzare di aver partecipato e condiviso le questioni private e intime di una persona della cui autenticità possono fidarsi. Una simile scoperta non è né prevista né ipotizzata nella situazione di normalità che contempla le riunioni del gruppo soltanto nello studio professionale. Quest’incursione nella sfera privata reale di ciascun partecipante, queste piccole gite fra le pareti altrui, questi brevi soggiorni domestici, questi squarci di vita vissuta normalmente non contemplati dall’universo terapeutico e, anzi, considerati preclusi o sconsigliabili nella maggioranza degli orientamenti, sono state rivelazioni sfuggite al controllo personale che la pandemia ha reso praticabili nella necessità di fronteggiare un’emergenza molto grave senza perdere il contatto con l’attività terapeutica iniziata.

L’esperienza appresa attraverso gli incontri su Zoom costituisce un inedito assoluto nella storia della psicoterapia che ha tanto maggiore pregio quanto più si è disposti ad accettare che alcune trasgressioni del setting non possano non avere una ricaduta tutta da scoprire e interpretare. Pretendere di rimanere ancorati in maniera ferrea ad alcune regole che non potevano più essere rispettate, pena la cessazione della continuità terapeutica, sarebbe un assurdo che andrebbe a inficiare lo scopo ultimo e fecondo della relazione di cura che non consiste certo nell’applicazione metodologica in senso stretto, bensì nella ricerca del benessere e della qualità di vita migliore possibile per i pazienti. La vocazione al cambiamento e alla trasformazione, insita in ogni percorso terapeutico che non voglia limitarsi a un’idea stigmatizzante di guarigione, ha ricevuto con questa inusitata modalità comunicativa una significativa impennata. Il mutamento formale del setting ha reso necessario uno sforzo di adattamento immediato che ha addirittura coinvolto lo stesso terapeuta, forse il più spiazzato di tutti dagli avvenimenti convulsi e disorientanti della pandemia. La sua abilità non poteva più essere vincolata soltanto alla gestione del gruppo nel suo svolgimento, ma finiva per comprendere una funzione contenitiva molto più ampia in quanto si trattava di affrontare una problematica nuova, sconosciuta, allarmante e persecutoria in cui era drammaticamente coinvolto in prima persona senza aver mai potuto effettuare in passato un lavoro su se stesso relativo a una simile condizione. L’ignoto incombente e il diffuso senso di incertezza, se non di paralisi, che si insinuavano nel gruppo con reazioni e ripercussioni individuali, ma anche con un’istanza collettiva di smarrimento e di deriva perturbante, rendevano quanto mai arduo il suo ruolo di «nocchiero in gran tempesta», ampliando a dismisura la sua responsabilità e intaccando talvolta la sua centralità nell’ordine sparso delle icone della schermata, come pure nella realtà esistenziale condivisa. Eppure anche questa anomalia non è mai passata per dissonanza in quanto il gruppo ha sempre trovato e mantenuto la sua ricchezza in una totalità delle parti in grado di esprimere e tutelare il sapore dell’unione e della solidarietà.

La prova del valore di tre mesi di “zoomate tra figure e sfondi” si è avuta nel rientro alla normalità con la riapertura dello studio, anche se nel rispetto delle dovute cautele con sanificazioni, disinfettanti e mascherine, come previsto dal protocollo sanitario. Gli sfondi che avevano rappresentato l’aura visibile di ciascuna figura, quei mondi privati diventati pubblici, quei disagi rispetto alla novità che avevano reso tutti ugualmente smarriti e inesperti sono approdati nello spazio consueto delle riunioni insieme a un gruppo di persone irrimediabilmente mutate e differenti, ovvero con la figura cambiata, per parafrasare Artaud1, ma assolutamente solidali per la tragedia vissuta e quasi superata. Il ritorno in studio conservava ben poco degli incontri lì effettuati in precedenza e segnava una tappa completamente nuova: non era più l’isola felice della memoria del passato, ma piuttosto l’Itaca vagheggiata e sognata in tante, troppe, peregrinazioni della mente e dei sensi. In ogni figura era ormai metabolizzato il suo sfondo personale, ma anche quello dell’esperienza comune affrontata insieme. Il tempo che sembrava essersi fermato nella reclusione casalinga poteva ripartire di colpo con la percezione di vivere un presente che a tutti sembrava corrispondere a quel futuro di cui era andata perduta ogni speranza. Lo spazio dello studio era ormai il luogo della libertà troppo a lungo sacrificata, il vero regno di una privacy violata, l’approdo di una lontananza avvertita come infinita. L’istinto di sopravvivenza dei singoli, messo a durissima prova dalla pandemia, convogliava nell’urgenza e nell’avidità di vita dell’intero gruppo che poteva riconoscersi il merito di essere uscito vittorioso, potenziato ed evolutivamente trasformato dalla separazione fisica e dalla vicinanza telematica.

Benché l’auspicio sia ovviamente di non trovarsi mai più in una situazione di tale allarme e pericolo, il valore esperienziale della Terapia in Gruppo online si è dimostrato all’insegna della resilienza, salvaguardando le risorse individuali e ribaltando una crisi altamente traumatica in un percorso alla conquista di insospettabili energie positive, mantenendo intatti sia il senso dell’identità personale sia la dinamica taumaturgica dell’entità gruppale.

Il gioco serio di figure e sfondi, attivato dalla piattaforma Zoom, non può certamente diventare una prassi, in quanto la presenza e la relazione dal vivo restano gli unici aspetti caratterizzanti possibili e ineliminabili della psicoterapia, tuttavia può rappresentare un’occasione fertile e prospera di riflessione sulle coordinate spazio-temporali che costruiscono e delimitano l’esistenza umana, come pure sull’impegno di adattamento evolutivo che consente agli esseri viventi di resistere ai traumi e di superarli.

1 Antonin Artaud dichiarava che gli spettatori dovessero uscire da un evento teatrale «con la faccia cambiata» per segnalare la trasformazione operata da un’esperienza che non doveva limitarsi alla convenzionalità.

Please cite this article as: Tiberia De Matteis (2020) La terapia in gruppo online ai tempi del Covid-19: Zoom di figure e sfondi. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/la-terapia-in-gruppo-online-ai-tempi-del-covid-19-zoom-di-figure-e-sfondi/

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