Il potere nella psicoterapia: autoritarismo e democrazia in una ottica etologica
Istituto Gestalt Firenze
Di G. Paolo Quattrini
Pubblicato sul numero 41 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Il potere, nel senso di potere di un essere umano su altri esseri umani, quando non si tratti di diretta coercizione fisica coincide all’incirca, anche se non perfettamente, con l’autorità, cioè con il rapporto gerarchico. Mi sembra importante cominciare guardando al potere, cioè dunque all’autorità, come fatto. Cos’è l’autorità, la gerarchia? Da dove viene? Perché c’è? È un’invenzione culturale o proviene dal regno animale? Come le ricerche dell’etologia dimostrano, la gerarchia esiste già nel mondo animale, non è un’invenzione umana, e non è quindi una cosa culturale. Tutto quello che si trova in natura è in primo luogo uno strumento di sopravvivenza, perché l’evoluzione lascia indietro spietatamente ciò che non serve e lo fa sparire dalla faccia della terra: se il potere dell’individuo su altri individui esiste è perché evidentemente ha una funzione nel dramma della sopravvivenza. La prima forma di rapporto di potere che si incontra a livello biologico sono i genitori, in ambito umano e in quelle specie che proteggono i figli piccoli: una chioccia protegge i suoi pulcini, come anche un coccodrillo protegge i suoi piccoli. Questo rapporto di protezione è anche un rapporto di potere, perché ovviamente per essere protetti bisogna che i figli diano retta ai genitori.
Se ci concentriamo sul livello umano, vediamo un fatto importante: l’autorità oltre all’aspetto concreto dell’obbedienza, implica anche un aspetto mitico. Sul piano concreto infatti l’autorità consiste in una qualità normativa, che però per funzionare bene dovrebbe essere accompagnata da una colorazione emozionale: e di solito infatti, almeno per un certo periodo i genitori sono un mito per i figlioli, finché questi piano piano non scoprono che in realtà sono persone qualunque. Il tempo di questa scoperta nel migliore dei casi coincide con l’età adulta, quando ormai l’autorità dei genitori ha esaurito la sua funzione protettiva.
Se invece i figli lo scoprono troppo presto o troppo bruscamente, la delusione è così grossa che spesso la relazione di autorità si infrange. Appena cade il mito, finisce anche il potere. Se il padre si rivela troppo sciocco, troppo avaro, troppo una cosa o l’altra, perde quello che si chiama l’ascendente sul figliolo: e il figliolo passa da una cooperazione attiva a una obbedienza formale o disobbedienza aperta, a seconda dei casi. Ubbidisce per esempio finché è preso nella morsa materiale del potere, ma senza collaborare: se i genitori non hanno un qualche mezzo di coercizione da usare, non ottengono più niente. Al momento che si infrange il mito, si deteriora anche la funzionalità della relazione gerarchica, cioè il potere continua ad esistere ma in una forma priva di senso per i figli e diventa disfunzionale. L’autorità che non è investita mitologicamente, cioè che non ha credibilità, è un potere odioso a cui si cerca di sfuggire in tutti i modi possibili e che si cerca di combattere.
Questo però comporta vari problemi, perché effettivamente l’autorità, la gerarchia, ha una funzione importante nella sopravvivenza. Una importanza evidente della relazione gerarchica con i genitori è il fatto che loro hanno un potenziale economico, di forza fisica, di esperienza, molto utile ai figli per la sopravvivenza: per molti anni i bambini non sono addirittura capaci di sopravvivere senza la protezione dei genitori, e ovviamente possono attingere alle loro riserve nella misura in cui cooperano con i genitori, senza andare in opposizione e in scontro di potere.
Per avere credibilità come superiore gerarchico, in natura una cosa fondamentale è rispettare il funzionamento naturale delle gerarchie. Nelle specie che vivono in società, gli individui, dopo lotte estenuanti, si sottomettono al più forte: ma per l’individuo che sale gerarchicamente quella superiorità non è solo privilegio: è anche un impegno. L’individuo che vince si assume il compito di proteggere quello che ha perso. Chi sta sotto, ci sta non solo perché riconosce la sua sconfitta, ma anche perché ci guadagna protezione. Appena cessa la protezione, incomincia a serpeggiare il malcontento: i superiori gerarchici, per poter svolgere in modo funzionale il loro ruolo, devono proteggere i sottoposti. La gerarchia in natura funziona così: si collabora con i superiori e si protegge gli inferiori gerarchici.
Sul piano pratico, il problema in ballo è il territorio: in campo umano avere autorità significa accogliere qualcuno nel proprio territorio, non intrudere nel territorio dell’altro, o chiedere all’altro di abbandonare il proprio territorio per stare in quello del superiore come individuo senza territorio. Problemi importanti di territorio si presentano fra gli esseri umani nelle divergenze di idee, cioè di rappresentazioni del mondo, e qui il superiore per non essere intrusivo dovrebbe offrire la sua rappresentazione senza pretendere che venga accolta1: la propria rappresentazione del mondo è infatti per ognuno un vero e proprio territorio.
In natura proteggere gli inferiori gerarchici è un atteggiamento che funziona bene, e se una cosa funziona in natura funziona anche fra gli esseri umani: per questo sarebbe importante per i superiori gerarchici rendersi conto che perché i sottoposti collaborino, invece di ubbidire di malavoglia, si devono sentire protetti oltre che comandati, e si devono sentire presi in carico personalmente. Essere presi in carico implica inevitabilmente essere conosciuti e capiti: senza capire la persona come si fa a sapere da cosa ha bisogno di essere protetta? Perché una gerarchia funzioni gli inferiori gerarchici hanno bisogno di essere capiti, di essere presi in carico personalmente dai superiori.
I comportamenti delle persone possono essere emozionalmente investiti o no, cioè possono essere “freddi” o “caldi”, come si dice in termini comuni. Nell’accezione corrente freddo equivale a sgradevole, quindi in partenza meno funzionale che caldo: per accogliere gli inferiori gerarchici in un contenitore caldo e quindi funzionale è necessario un coinvolgimento emotivo, che è poi semplicemente quella che si chiama benevolenza. Perché una persona si senta accolta, capita, apprezzata da un superiore, e sia quindi incline a investirlo di credibilità e a riconoscergli autorevolezza bisogna che senta benevolenza da parte di quel superiore.
È molto diverso se il superiore è uno che sfrutta i privilegi della posizione o se è una persona che si relaziona con benevolenza: è la differenza fra una persona amica anche se distante, e un nemico che fa paura, ma a cui alla prima occasione buona si farà lo sgambetto. Benevolenza non vuol dire paternalismo, che è una falsa benevolenza: “la politica è una cosa sporca – dicevano paternalisticamente i fascisti – lasciatela a noi”. Cosa vuol dire concretamente benevolenza? Significa semplicemente volere il bene della persona. Essere più contenti cioè se la persona è contenta che se è dispiaciuta. La benevolenza costa poco, non bisogna spendere molto per essere benevolenti: costa quasi meno che non esserlo. A non essere benevolenti non si risparmia tanto e si provocano un sacco di problemi.
Quando si vince, una delle cose che la vittoria implica è di non essere più in competizione con quello che ha perso, se si vuole stabilire un regime di pace con quella persona. Una delle grandi scoperte della psicologia moderna è che compito essenziale dei genitori è rispettare le “barriere generazionali”, cioè fra le altre cose anche non essere in competizione con i figlioli: i figlioli infatti possono facilmente trovare che i genitori sono persone straordinarie, a patto però che non siano in competizione con loro. Ma se approfittano della loro superiorità per far vedere come sono meglio di lui, il figliolo dopo un po’ si scoccia e li trova insopportabilmente cretini o peggio. Perché i sottoposti accettino un superiore, bisogna che il superiore non si metta in competizione con loro: questa è una delle difficoltà fondamentali per lo stabilirsi di un clima di benevolenza nei rapporti gerarchici, che spesso i superiori non sono affatto fuori dalla competizione con gli inferiori. Continuano a rimettere sotto gli inferiori, perché hanno una gran paura dell’instabilità del loro status.
In realtà dunque non è così facile essere benevolenti con gli inferiori gerarchici, perché implica stare tranquilli al proprio posto e accettare che quelli che sono più deboli, se non si vuole che si ribellino, devono essere protetti, e non sottomessi per dimostrare la propria superiorità. Questa è essenziale, nelle famiglie come nelle altre gerarchie. È abbastanza evidente infatti, da una parte che non è un granché onorevole mettersi in competizione con gli inferiori gerarchici: è un po’ come prendersela con i più piccoli, cosa assolutamente vietata da qualunque galateo cavalleresco. Dall’altra, dovrebbe essere chiaro che, dato che a nessuno piace avere un superiore sulle spalle, anche i propri inferiori gerarchici sono insofferenti, e sopportano la situazione solo nella misura in cui ne hanno almeno un minimo di vantaggio. È il minimo di vantaggio possibile è almeno la benevolenza.
Fermo restando l’esistenza delle gerarchie, cioè del potere bisogna considerare che nelle culture umane esistono poteri di almeno due tipi: quello autoritario e quello democratico. Sono ormai in molti quelli che sono riusciti ad accettare il sistema democratico come il migliore dei sistemi politici finora conosciuti. Ora, una cosa di cui è importante rendersi conto per capire le sue peripezie, è che la democrazia non è naturale: al regno della natura appartiene la monarchia, che è presente in buona parte delle specie sociali, ma non la democrazia. È per questo che è così difficile farla funzionare: la democrazia non va da sé, va sostenuta con un grosso apporto personale di responsabilità. La democrazia consiste in una estensione del potere, cioè della responsabilità, dal capo a tutti quanti, in modo che ognuno possa avere il potere di gestione della propria vita.
Una volta la vita era un bene talmente poco personale che era concepibile la schiavitù. Gli schiavi, per esempio i servi della gleba, che in Russia sono esistiti fino al ‘900, se avessero voluto non avrebbero potuto andare a vivere in un’altra città, né cambiare mestiere
Il processo di democraticizzazione è un processo di estensione della responsabilità, cioè del potere, dal re ai sudditi, e una cosa molto importante da tenere presente è che potere e responsabilità sono sinonimi. Non sono una cosa che implica l’altra, sono sinonimi: si chiama infatti posto di responsabilità un posto di potere. Se si ha potere, si risponde di quello che si può, e se si risponde vuol dire che si può. Questa è molto importante perché, siccome la responsabilità ha questa implicazione minacciosa del rispondere di quello che si fa, capita spesso di rifiutare il potere per rifiutare la responsabilità, cioè per evitare di pagare il conto.
Ma questa è la più grande delle illusioni, perché il conto si paga comunque. Se si rifiuta, si paga il conto di aver rifiutato, se si accetta, si paga il conto di aver accettato: la responsabilità non è qualcosa che si può prendere o lasciare, è intrinseca alla vita, alla realtà della scelta. Scegliere significa responsabilizzarsi, decidere di pagare un conto invece di un altro: spesso si crede di poter sfuggire al conto, ma questa è pura illusione, perché il conto la vita lo presenta comunque.
I due tipi di potere si possono far risalire a due grandi e opposte provenienze:
– quello autoritario, monarchico, viene dall’alto, “per volere di Dio”;
– quello democratico viene dalla base, dal popolo, per elezione.
Nella relazione psicoterapeutica questo significa che, o il terapeuta si trova nel posto di terapeuta calvinisticamente per un merito riconosciuto e riconfermato dall’alto, o invece perché il cliente, di sua volontà e con il suo potere di scelta ce l’ha messo (ovviamente con il suo consenso). Nel secondo caso si tratta di una delega, quindi almeno revocabile o comunque replicabile: è semplicemente una credibilità che chiunque può aspirare ad ottenere. Nel primo caso invece, si tratta di una superiorità per diritto, (di nascita, di forza di conoscenza scientifica, ecc.), che si riferisce a un intrinseca differenza di valore fra terapeuta e paziente,
Ora, fermo restando il bisogno di autorità nel processo di sviluppo psichico, e il bisogno di credibilità, di carisma, che il cliente ha di riconoscere nel terapeuta, questo non implica che anche il terapeuta si riconosca in questo carisma. Che il cliente riconosca nel terapeuta un superiore gerarchico infatti non implica che il terapeuta riconosca nel cliente un inferiore gerarchico, che sarebbe evidentemente un effetto del controtransfert, come si direbbe in linguaggio freudiano. Implica solo che si lasci il cliente in pace di vedere cosa vuole, in modo da ridimensionerei poi con i suoi tempi l’immagine da transfert.
Se il terapeuta si assume un ruolo di effettiva superiorità gerarchica, invece di limitarsi ad essere autorevole, cioè credibile, diventa autoritario, cioè coercitivo nel rapporto col paziente, ripresentando in questo modo il tipo di situazione dove presumibilmente sono cominciati i problemi del cliente. Questo naturalmente se consideriamo l’opposizione fra polarità come il normale modo di funzionamento della mente, e la sintesi dialettica come l’alternativa alla caduta nel sintomo: sembrerebbe difficile che un cliente riesca a dialettizzare la propria esperienza con un rappresentante dell’assoluto, o che il suddetto rappresentante possa dialettizzare la propria con quella contingenza per definizione limitata che è il cliente: per questo (e naturalmente non solo per questo) ritengo dunque più accreditabile l’ipotesi democratica. L’autorità in sostanza nella pratica psicoterapeutica non è un giocattolo per soddisfare la propria vanità, ma uno strumento affidato dal cliente per raggiungere scopi richiesti dal cliente.
Emozioni e istinti
Gli scopi del cliente hanno a che vedere direttamente o in direttamente con le sue emozioni. Queste avvengono in concomitanza dello scatenarsi di un istinto: parte per esempio un istinto aggressivo e in concomitanza di questo si sente qualcosa che può essere rabbia, o un’altra forma di aggressività. L’emozione e l’istinto sono concomitanti ma non sono identici: su questo c’è un importante dibattito a livello scientifico, e ci sono almeno due punti di vista fondamentali
– quello meccanicista, il cosiddetto parallelismo, che consiste nell’idea che in parallelo a un istinto ci sia l’emozione, che sarebbe l’istinto visto dal punto di vista della coscienza, oppure:
– il dualismo interazionista. È l’idea di Popper, un pensatore di importanza fondamentale, uno dei massimi epistemologi contemporanei: il dualismo interazionista sostiene che la relazione tra l’emozione e il sostrato neurologico si può immaginare metaforicamente come quella fra una registrazione e il nastro su cui è registrata, cioè il nastro è il supporto della registrazione. Se non c’è il nastro non c’è la registrazione, ma sul nastro ci possono essere tante registrazioni diverse.
Popper sostiene questo punto di vista con un ragionamento impeccabile, molto convincente per chi pensa in un’ottica evoluzionista: se l’emozione fosse l’altra faccia dell’istinto non ci sarebbe nessun bisogno che esistesse l’emozione, perché sarebbe una ridondanza, e da un punto di vista evoluzionista non esistono le ridondanze. In un ottica evoluzionista appare chiaro che la natura lavora a strettissimo risparmio: quello che c’è serve, quello che non serve scompare.
Questo punto di vista comporta l’idea che fermo restando che un’emozione è appoggiata sul sostrato neurologico, altrimenti non ci sarebbe, non c’è una relazione di uno a uno, cioè un metro di attività neurologica, un metro di emozione, cioè non c’è una relazione di identità tra l’emozione e il sostrato neurologico, ma un appoggio reciproco flessibile, dove un emozione può interagire con il sostrato neurologico. Essendo altro può interagire, quindi fra l’emozione e il sostrato neurofisiologico c’è una possibilità di intercambio, cosa che implica praticamente che l’emozioni possono essere guidate, dirette, cavalcate. Altrimenti le emozioni potrebbero essere solo agite o represse.
L’istinto è una struttura genetica la cui forma è stata descritta in varie maniere: c’è un modello idraulico e un modello cibernetico, il quale sarà sicuramente più adeguato a spiegare il funzionamento, ma è sicuramente molto più difficile da capire. Il modello idraulico ha il vantaggio di una maggiore comprensibilità, e Lorenz propone questa metafora: è come se ci fosse una pentola in bilico, una pentola di forma irregolare messa su una base piccola, e se piano piano c’entra l’acqua, a un certo momento si rovescia. L’istinto ha tre componenti: un meccanismo scatenante innato, che è il nucleo dell’istinto, l’elemento attivante esterno e il movimento scatenato. Elemento scatenante e movimento scatenato sono variabili, mentre il meccanismo scatenante innato è fisso. La pentola in bilico sarebbe il meccanismo scatenante innato, quello che varia è l’acqua che entra dentro e il momento dove si rovescia la pentola.
L’istinto è un meccanismo che scatena un attività: c’è questa pentola in bilico che si riempie col tempo, e infatti la voglia di mangiare è scatenata dal tempo che è passato dall’ultima volta che si è fatto. Se è passato moltissimo tempo, si comincia a guardare anche un millepiedi con un certo interesse, e in campo di concentramento si mangiavano anche gli scarafaggi: in Indocina, dove il mangiare era scarso, gli scarafaggi erano un piatto normale e i ragni fritti una grande raffinatezza…. se hai mangiato da poco invece, non sei disposto a mangiare nemmeno delle paste alla crema, figurati un piatto di pasta scotta. Ma metti che non hai mangiato da tre giorni… buona quella pasta scotta!! Se la pentola si è appena rovesciata, prima di rovesciarsi di nuovo ce ne vuole, ma col passare del tempo si riempie sempre di più e poi anche una goccia è sufficiente.
Questo è un modo cosi semplice di rappresentarsi l’istinto che anche se è approssimativo è molto utile per capirlo. Il movimento scatenante, di cui l’eventuale millepiedi è l’elemento attivante, attiva un movimento, che è quello di prenderlo e mangiarlo. In alcune specie il movimento scatenato non cambia di modalità, ma quello che cambia sempre è l’elemento attivante. Un famoso esperimento di Lorenz era quello di uno storno allevato in gabbia, che per questo non poteva aver un comportamento appreso: in una stanza dove non c’era niente cominciava a fare i complicatissimi movimenti con cui gli storni acchiappano le mosche, che non potendo averlo imparato, era dunque innato. Il meccanismo scatenante innato era attivato da puntini neri nell’aria: l’elemento attivante esterno è pochissimo differenziato geneticamente, in modo che possa articolarsi in molti modi diversi.
Nella pittura di Modigliani si vede come dal punto di vista genetico il prototipo dell’elemento attivante è stilizzatissimo: un bambino non sorride a un viso, ma a una linea e a due punti. È necessario che sia stilizzato, perché un’immagine più precisa comporterebbe una dipendenza troppo specializzata, mentre con un’immagine cosi approssimativa può accettare come mamma qualunque persona abbia davanti.
La base del bisogno è data da elementi approssimativi, in modo che ci sia un adattamento possibile alla realtà circostante. L’ominazione comincia in Africa, ma ci sono gruppi umani che hanno attraversato tutto il mondo fino ai ghiacci dell’artico, e ora gli piace lì: ci deve essere nell’uomo una capacità straordinaria di adattamento e di intercambiabilità dell’elemento attivante esterno.
Il meccanismo scatenante è genetico e rimane quello, ma cosa lo attiva dipende da tante cose, compreso la cultura locale. Se si impara a pescare quando si ha fame viene una irrefrenabile voglia di andare a pescare: in una cultura di coltivatori invece a chi ha fame gli viene una irrefrenabile voglia di sbarbare vegetali dalla terra, alla gente di città viene voglia di aprire il frigorifero.
Si intende per istinto questa articolazione tra meccanismo scatenante innato, elemento attivante esterno e movimento scatenato: l’emozione è quello che si sente in concomitanza di tutto questo. Quando ci si aggira per la cucina cercando la porta del frigorifero, non è un movimento freddo, ma è accompagnato da una bramosia, per così dire, canterina
Olismo e libero arbitrio
Per capire il senso della psicoterapia, bisogna tenere presente la relazione fra istinti e libero arbitrio: il sistema di una personalità funziona attraverso una serie di meccanismi: quello che non è meccanico è il guidatore, cioè il libero arbitrio, ma il movimento fisico, che è organizzazione culturale di proto movimenti strutturati geneticamente, è meccanico. Siamo a cavallo di due realtà che non si identificano l’una con l’altra. C’è un sostrato meccanico che è totalmente meccanico, fino all’ultima rotellina e c’è una presenza non meccanica che dipende dalla responsabilità, dalla capacità di scelta di quello che si vuole, che sta sul resto come il guidatore sta sulla macchina. Si hanno diverse capacità innate, ma per esempio dare cazzotti alla gente non c’è scritto nel genoma, questa è una scelta. Il lavoro di psicoterapia si svolge fra automatismi e libero arbitrio, ed è orientato a aiutare la persona a svincolarsi dagli automatismi disfunzionali con cui i suoi istinti agiscono, assumendo così la responsabilità dei propri comportamenti.
Il libero arbitrio della persona dipende dalla trascendenza in senso olistico dell’organismo macchina, che è talmente complessa da filiare nel suo insieme il libero arbitrio. Il libero arbitrio, la capacità di scelta, la responsabilità, non è qualcosa che viene da fuori che si monta sulla macchina, è l’espressione stessa della macchina, essendo il più della somma delle sue parti. La differenza tra gli approcci olistici e quelli non olistici è che gli approcci non olistici si interessano dei meccanismi, mentre quello olistico afferma che per il terapeuta l’interfaccia è con il responsabile dell’insieme: non importa cioè la macchina, importa il guidatore, la sua intenzionalità e la sua volontà.
Mentre gli approcci non olistici lasciano da parte il guidatore e si occupano della macchina come se fossero dei meccanici, gli approcci olistici dicono che la macchina è troppo complicata, l’unico che ci può farci qualcosa è l’organismo stesso della persona. Ci si relaziona con la persona, sperando che il suo organismo si autoripari: questo è l’atteggiamento classico della medicina, che per secoli è stata descritto dall’espressione natura sanat, medicina iuvat. A parte che secoli di medicina l’hanno confermato, l’organismo comunque è un processo, e come tale si disfa e si risana. È un processo contenuto da linee di forza: nella medicina cinese si considerano le malattie come problemi che riguardano queste linee di forza, per cui intervenendo sulla rete energetica che è l’organismo ci si aspetta che si strutturi un campo di forza dentro cui l’organismo ripiglia il suo camino.
Questo è stato sperimentato anche in laboratorio. Ai tempi in gli psicologi sperimentavano con una crudeltà efferata sugli animali, uno degli esperimenti è stato questo: nevrotizzavano piccole scimmie, poi le mettevano in un gruppo di scimmie normali e in breve tempo queste si normalizzavano, cioè il campo di forze del gruppo normalizzava la difficoltà nevrotica della scimmia. Ora questo è importante anche per il lavoro di psicoterapia gruppo, perché qui si struttura un campo di forze che, entro certi limiti, rimette automaticamente in sesto l’equilibrio dell’individuo.
E’ ugualmente un campo di forze quello che si stabilisce fra il paziente e il terapeuta, ed è in questo contenitore che avviene la terapia: si tratta di un incontro di volontà, dove nessuna deve prevalere, ma per la prima volta (di solito) nella vita del paziente, viene riconosciuto come titolare di una volontà, che deve essere rispettata, altrimenti si tratta di un’esperienza militare dove l’insieme è più importante delle sue parti, cosa che (in genere) gli è ben conosciuta in famiglia e a scuol
Esprimere e agire
In psicoterapia è proibito agire, è permesso solo esprimersi, e si struttura per questo una situazione di particolare libertà. Quando è permesso agire infatti quelli più forti sottomettono quelli più deboli, nel momento invece che non è permesso agire e la relazione, individuale o di gruppo, funziona sul piano dell’espressione: tutti possono esprimere quello che gli pare. Se una persona non si sente comoda lo può dire e nessuno gli dà una botta nel capo. Questo permette ai pazienti di strutturare dei campi di forza più ampi, e permette di esistere all’interno del gruppo senza essere schiacciati e tagliati fuori. Questo aiuta a normalizzare le situazioni di repressione di qualcosa che non può essere messo fuori: accanto alle situazioni classiche, agire o reprimere, compare una terza posizione che è esprimere. Lì c’è uno spazio dove le persone possono esistere e possono far esistere anche quello che per anni non ha avuto possibilità. Il gruppo di terapia, quando è amministrato con precisione riguarda sull’esprimere e all’agire, ha di per sé un effetto risanatore.
All’interno di gruppi di lavoro le coppie diventano nuclei energicamente distorcenti, perché dove c’è una coppia non c’è più libertà di espressione, in quanto una coppia è una cosa delicata, che si rompe con niente. Va coltivata, e bisogna stare attenti a quello che si fa e che si dice, va protetta da interferenze che possono essere letali. Di solito se c’è nello stesso gruppo di lavoro due persone che stanno insieme, quasi sempre se uno lavora l’altro non lavora.
Un esperimento interessante è stato fatto da psicologi americani: deviando l’esofago di un cane, in modo che quando mangiava il cibo non entrava nello stomaco, è stato notato che comunque la fame gli passava. Un fenomeno analogo si riscontra fra le scimmie urlatrici, che fanno terribili battaglie solo con la voce, e senza morti né feriti. Darwin nella “espressione delle emozioni”, mostra l’utilità dell’espressione dal punto di vista biologico, dal punto di vista della sopravvivenza della specie, e quindi in una logica evoluzionistica.
Dire non significa esprimere, fra esprimere e dire c’è un oceano: dire significa trasformare il vissuto su un piano concettuale, esprimere significa vivere e far vivere l’emozione. Se dici sono tanto arrabbiato o se lo urli, fa una differenza notevole. Se provi a esprimerti ti accorgi che è molto più difficile esprimersi che agire: è molto più facile tirare a qualcuno uno schiaffo che manifestargli la tua rabbia. I maschietti bisogna che si trattengano dal picchiarsi, altrimenti gli viene bene appiccicare qualcuno al muro, invece esprimere la propria rabbia è difficilissimo trovare qualcuno che lo fa. Le donne picchiano poco ma feriscono comunque molto: si sa che ferisce più la lingua che la spada. Siamo abituati a qualcosa che chiamiamo l’espressione della rabbia ma non è questo, è l’espressione dell’impotenza, che non da una grande soddisfazione, mentre dà più soddisfazione sbattere nel muro la gente: la rabbia implica impotenza. Quella che noi chiamiamo rabbia in realtà si chiama risentimento, il risentimento, che è sempre un misto di rabbia, impotenza e dolore.
L’espressione della rabbia dà in realtà molta più soddisfazione che sbattere nel muro qualcuno. Se spettini uno con un urlo non è per niente impotenza, quello per un pezzetto va in giro spettinato ma questo non innesca una spirale di violenza, non implica cioè un’escalation. Inoltre, un grido lo posso fare a te o al muro, ma un cazzotto al muro è un agito e non lo posso fare perché magari potrei sfondare il muro poi mi tocca ripagarlo, anche se qualche pupa nei dintorni potrebbe poi venire a curarmi la mano, e questa sarebbe una grossa vittoria sul piano del pubblico: i cazzotti si devono dare a una persona, cioè l’azione non è possibile senza l’altro, mentre l’espressione è possibile senza l’altro. Questo implica che si può lavorare sul passato, perché due schiaffi alla mamma morta non gliele puoi dare, mentre uno strillo sì.
Il dolore è il tipo di cosa che, o hai a disposizione l’espressione, oppure sei fritto. Nel caso del dolore non c’è scelta: dato che non c’è niente che si può fare, il dolore, o lo esprimi o lo ingoi, e siccome molte persone lo ingoiano e nell’esperienza clinica si sa gli effetti disastrosi dell’ingoiare il dolore, qui si vede benissimo che questo terzo posto che occupa l’espressione. Lo spazio transizionale, è l’unica chance perché una persona possa non affogare nel suo dolore: si capisce quindi l’importanza del campo di forze fra paziente e psicoterapeuta, e la funzione del fatto che non sia una relazione di potere.
Se a un bambino muore la mamma e piange è normale, se non piange è grave. Le persone che non piangono sono preoccupanti: il dolore è un’energia, se non si scarica diventa una tensione interna, qualcosa che logora il cuore, la circolazione, la digestione, tutto l’organismo. Se una persona si tira dietro tensioni croniche, queste diventano stress e da lì vengono malattie. Non sto parlando della psicosomatica, ma semplicemente di somatopsichica: se ci si tira dietro una tensione logorante, prima o poi un organo, quale che sia, cede. La psicosomatica connette in genere simbolicamente una specifica tensione a uno specifico organo, la somatopsichica constata che le tensioni psichiche si scaricano sugli organi fisicamente correlati, ma senza ipotizzare una relazione per via simbolica tra la tensione e un organo preciso. Se la somatopsichica è incontrovertibile, rispetto alla relazione simbolica tra una specifica configurazione emozionale e uno specifico organo, cioè alla psicosomatica, ci sono tante versioni differenti: per esempio in oriente si pensa in una maniera, le varie scuole di psicosomatica occidentali la pensano in un’altra.
Il contenitore di un motore sono gli organi di senso e la ragionevolezza: senza emozioni nessuno si e muove, ma quando vai in macchina articoli la potenza del motore con la tua voglia di arrivare vivo guardando dove vai. La ragionevolezza dice di non uscire dalla strada, di rimanere sull’asfalto: le emozioni vanno considerate come una rete ferrotranviaria, una rete di trasporti e nient’altro.
Come esprimere la rabbia non è scritto da nessuna parte: se vuoi puoi anche metterti in camera tua, tappare tutto e urlare le peggio cose. Ci sono quelli che appendono al muro la fotografia del capo e gli tirano coltelli. Nella tradizione tibetana, quando uno proprio non ne può più va in cima a una montagna e comincia a urlare, a pigliare a calci i sassi, e poi quando gli basta torna a casa. Anche se siamo abituati a non farlo, la paura si esprime come qualsiasi altra emozione: interessante che non viene in mente il modo più banale di farlo, cioè dire “ho paura, ho paura, ho paura, ho paura…” Chi però lo fà nota che gli diminuisce la paura. Il senso dell’esercizio consiste nel gestire la respirazione: che si tratti di dire ho paura o qualunque altra cosa, va fatto fino a che non si ha più fiato, e poi il rientro forzato dell’aria scolla dalla morsa della paura. Importante è questa esplosione d’aria, per l’emergenza del bisogno: buttando fuori tutta l’aria si ipoossigena l’organismo, mentre il suo bisogno primario è di ossigenarsi, e a quel punto all’organismo non gli frega più niente di niente, ci possono essere i coccodrilli in giro neanche li vede per niente, quello che vuole è ossigeno e per averlo deve aprire i polmoni allentando la tensione. Poi la paura ripiglia, ma intanto hai rotto la prima botta, non ti ripiglia uguale a prima: se ti ritirano fuori dall’acqua e respiri quando ti ricacciano nell’acqua la paura ti torna con una certa velocità. I torturatori lo sanno bene, sono bravissimi, è un’antica tradizione assodata la tortura.
Una teoria è che gli uomini sono più sensibili delle donne, ma per quanto possa sembrare strano gli manca il dono della parola, mentre le donne essendo meno devastate sul piano emozionale ed essendo più abili con la parola, nel senso che hanno una lingua lunghissima, sono in grado di esprimersi meglio. Per le donne per esempio la gelosia è una malattia endemica, come il raffreddore, tutte c’è l’hanno sempre e comunque, mentre per gli uomini è una malattia mortale. Le cronache dicono che per la gelosia le donne fanno meno guai rispetto agli uomini, che ci combinano veri e propri disastri: la gelosia negli uomini e nelle donne risulta molto diversa nel comportamento. Le donne la maneggiano meglio, non che ci soffrano di meno: per gli uomini è come mettere un bambino di quattordici anni al volante di una Ferrari, e magari non arriva neanche in fondo alla strada prima di sbattere nel muro.
Gli uomini e le donne sono ugualmente competitivi, appartengono tutti quanti alla razza umana: ma le modalità della competizione maschile e di quella femminile sono sostanzialmente diverse. Se non si capisce questa diversità tanti accadimenti umani diventano incomprensibili. La competizione maschile è essenzialmente verticale, quella femminile è orizzontale: cioè vincere per una donna è essere il più vicina possibile al centro, mentre per un uomo è essere più in cima possibile alla catasta dei cadaveri dei perdenti. Che gli uomini sono orribilmente competitivi tutti lo riconoscono, perché si vedono i cadaveri: la competizione femminile però ha una dimensione altrettanto efferata, anche se meno visibile. La competizione femminile consiste nell’essere il più vicino possibile al cuore, nell’essere la più amata di tutte: questo ha una componente scenica diversa dalla fila di cadaveri: per salire in cima al mucchio di cadaveri bisogna presentarsi aggressivi, per essere più vicina al cuore ci si presenta dolci, per cui l’uomo sembra cattivo e la donna sembra buona, ma sembra soltanto. Bisogna immaginare dietro l’arietta angelica tutta la sfilza di quelle che non sono state amate, cosa che a volte è peggio della morte. I cadaveri sono di forma differente, ma sempre di cadaveri si tratta: le donne si sentono innocenti a essere belline, cosa faccio di male si dicono, faccio solo una cosa carina e amorosa, certo, ma dietro ci sono i cadaveri delle perdenti nella corsa amorosa. Poi quando arrivano gli attriti e iniziano a parlare davvero a cuore aperto diventano di un velenoso viperino, con tutto quello che hanno dovuto ingoiare senza dire niente per non diventare brutte, perché Dio mio, qualunque cosa ma sempre belle: se ho il cuore ha pezzi che nessuno se ne accorga, mi vorrei buttare nella spazzatura, ma sorrido e sono carina, perché se non sono carina è ancora peggio. A un certo momento una è sfiancata e non ne può più: molte donne raccontano come a un certo momento quando depongono le armi e non sono più lì in pista a combattere sentono un grande sollievo, finalmente posso andare in giro come mi pare e non mi devo preoccupare di come mi guardano.
Le donne non si vestono per gli uomini, ma per le altre donne, infatti stanno attente a dettagli che nessun uomo noterebbe, ma che le altre donne vedono immediatamente. Non chiedono spesso ai mariti “come sto?” altrimenti dovrebbero accorgersi che il marito non si accorge che sono andate dal parrucchiere, che hanno un vestito nuovo, e via dicendo.
Una cosa è sicura che le donne sono geneticamente dotate di più pazienza, perché un uomo a farsi crescere per nove mesi qualcosa in pancia dà di matto sicuramente. Uomini e donne hanno varie combinazioni di maschile e femminile: il maschile si identifica con questa competizione verticale, con la rapina, la conquista, il possesso: in un’ottica primordiale potete immaginare uomini cacciatori che vanno a rapinare il bosco degli animali, e le donne che cucinano gli effetti della rapina e non si sentono neanche cattivelle, loro non hanno fatto niente di male.
La moglie che si fa in quattro per il marito disgraziato è (in genere) una persona che ci tiene in primo luogo alla relazione, in secondo luogo alla gerarchia sociale. Il marito spesso tiene in primo luogo alla gerarchia sociale, in secondo luogo alla relazione, e questo ha a che fare con la competizione verticale e la competizione orizzontale.
Una volta la psicanalisi era roba da matti e non ci andava nessuno, ma ora ci sono addirittura quelle robe esperienziali, che gli uomini non ci vanno perché non si sa mai che gli tocca fare, magari li mettono nel mezzo, e gli uomini detestano essere messi nel mezzo. Almeno dallo psicoanalista si sa, uno sta fermo nel lettino non vede niente, non c’è nessun rapporto, penso, penso, penso… e questo è più di sollievo,
L’idea è che l’essere umano è come una macchina con un guidatore, c’è una struttura meccanica e c’è un libero arbitrio sopra: la struttura meccanica sono le emozioni, che dipendono da un fatto genetico, ma come si gestiscono è tutto un altro discorso. Geneticamente parlando l’homo sapiens è razzista, cioè nella razza umana come in parecchie altre razze animali, esiste il mobbing, che consiste nella tendenza a distruggere gli individui deformi, con la funzionalità di mantenere la razza pura.
Ho visto una volta una terribile scena di mobbing tra le tartarughine da acquario, queste belle tartarughine colorate, cosi graziose: a un certo punto una di queste ha avuto una estroflessione intestinale, e quando le altre tartarughine se ne sono accorte, l’hanno beccata a morte. Questo è un esempio di mobbing, ed è il prototipo dell’istanza razzista, la quale è naturale, almeno naturale come l’omicidio: le tartarughine che hanno beccato a morte quella malata erano chiaramente prese da una emozione, da un gusto di farla a pezzi.
Se volere appiccicare qualcuno al muro è assolutamente normale, farlo è delinquenziale: avere istanze razziste è normale, seguirle è delinquenziale. Questo è importante da capire, perché a dire che il razzismo non esiste, ci si trova davanti un fenomeno elusivo: un razzista non si convince, i nazisti pesano ancora che purtroppo, sono stati interrotti nella loro operazione di pulizia etnica: se tornassero al potere probabilmente ricomincerebbero da lì, solo in maniera ancora più scientifica. L’olocausto fu una passione: alla fine della guerra, quando ormai la Germania era in disfatta e la deportazione degli ebrei non funzionava più, in Bulgaria, la gente inseguiva gli ebrei per le strade e l’ammazzava con le loro mani.
Così si lavora il bullismo nelle scuole: la classe viene lasciata sola e viene filmato quello che fanno, poi si rivede il filmato e si chiede per esempio alla persona che sta sbatacchiando un compagno di classe: “cosa senti mentre lo sbatacchi? Perché lo sbatacchi? ti fa piacere che lui soffra?” Quello che succede è che spesso quando i ragazzini si accorgono che gli altri sono persone, smettono di trattarli come cose. Il sistema del razzismo funziona con il fatto che l’altro è visto come una cosa, quando l’altro è riconosciuto come essere umano è impossibile trattarlo come una cosa! I nazisti dicevano che una bella ebrea non è una ebrea, Vedere lo si vede come si vedeva anche prima, ma se una persona riesce a entrare negli occhi dell’altra attraverso qualcosa che percepisce, si accorge che è un essere umano: il lavoro consiste nel fargli trovare più somiglianze che differenze, e mettendo l’occhio sulle somiglianze che importano, le differenze razziali sono fenomeni collaterali e irrilevanti.
Lo scopo in psicoterapia è arrivare all’apprezzamento delle differenze, perché siamo così sposati narcisisticamente a noi stessi che apprezziamo solo l’uguaglianza: come me è giusto, diverso da me è sbagliato. Nella sedia calda il grosso del lavoro di psicoterapia consiste nel riconoscere le altre parti di sé come persone, malgrado la loro differenza: e se in genere non riconosciamo neanche noi stessi come persone, figuriamoci gli altri. Nel rapporto col terapeuta l’insopportazione della differenza viene gestita spesso attraverso il potere, ma è un esempio dell’infinito pessimismo umano: la si può affrontare più semplicemente con l’accettazione che se qualcosa degli altri ci piace, necessariamente ci sono parti che non ci piacciono, e averci a che fare comporta necessariamente delle (almeno) sbucciature narcisistiche che dobbiamo imparare a sopportare.
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