PSICOLOGIA E ARCHITETTURA: FUNZIONALITA’ E VALORE ESTETICO

Direttore G. Paolo Quattrini

Istituto Gestalt Firenze

di Paolo Quattrini
Psicologo, Psicoterapeuta, Direttore dell’Istituto Gestalt Firenze, e convinto assertore della convergenza teorica e pratica fra psicoterapia e architettura.

Pubblicato sul numero 23 di  Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.

Abstract: Come l’architettura, la psicologia si confronta necessariamente col problema estetico, in quanto gli spazi per essere vivibili richiedono bellezza: anche uno psicologo è uno specialista di spazi, psichici in questo caso, che senza essere banali devono essere strutturati esteticamente e logicamente. Come tutto ciò che vive, il mondo psichico risponde infatti a una logica circolare e non a una lineare, e non basta che le cose funzionino, ma devono anche avere valore per non produrre retroazioni di rigetto. Questo è un problema non indifferente, perché la bellezza non è facile da maneggiare in maniera oggettiva: alla razionalità infatti bastano le dimostrazioni, mentre la bellezza è un’esperienza: se si sperimenta bello è bello, se non lo si sperimenta, non diventa bello semplicemente pensandoci.

Abstract: Like architecture, psychology is necessarily confronted with the aesthetic problem, as spaces to be livable require beauty: even a psychologist is a specialist of spaces, psychic in this case, which without being trivial must be aesthetically and logically structured. Like everything that lives, the psychic world responds in fact to a circular logic and not to a linear one, and it is not enough that things work, but they must also have value in order not to produce rejection feedbacks. This is a not little problem, because beauty is not easy to handle objectively: in fact demonstrations are enough for rationality, while beauty is an experience: if you experience beauty, it is beautiful, if you don’t experience it, it doesn’t become beautiful just thinking about it.

Keywords: Architettura, psicologia, Gestalt, spazio, arte, estetica, bellezza.

L’architettura è l’arte dello spazio, ed è un’arte che si abita. Mentre un quadro o una musica rispondono solo al problema del bello, l’architettura risponde anche al problema del funzionale: si tratta di due poli fra cui qui si può oscillare, andando dal funzionale senza bellezza alla bellezza senza funzionalità.
Ora, il fatto è che il territorio, in senso etologico, dell’essere umano, è ben metaforizzato dalla casa, che è appunto uno strumento per la gestione di spazi, e che a seconda di come è fatta, supporta più o meno bene la gestione delle relazioni fra le persone che ci abitano. La casa ottocentesca, per esempio, suddivide lo spazio in stanze, ed è attraversata da un corridoio che permette di accedere separatamente ad ognuna, la quale è territorio privato o collettivo: chiudendo le porte o limitando l’accesso, si può dirimere a priori eventuali controversie territoriali. Perchè funzioni bene bisogna però che ognuno rispetti il territorio degli altri componenti della famiglia.
Territorio a parte, lo spazio, il vuoto, è elemento indispensabile per la vita, perchè se ci fosse solo il pieno non ci sarebbe possibilità di muoversi: si spinge via l’aria che occupa il vuoto, e allora ci si può spostare. Il vuoto insomma è quello che permette lo spostamento, l’interazione, la vita: guardare il vuoto e guardare il pieno sono necessità diverse e fondamentali, perchè se non si guarda il pieno non si vede la forma, ma se non si guarda il vuoto non si vede la funzione, cioè le possibilità di trasformazione della forma.
Il lavoro di psicoterapia in gran parte è aiutare le persone a riconoscere il vuoto, che dà la possibilità di muoversi e di vivere: le persone lo guardano poco, perchè il vuoto sembra povertà, mentre il pieno sembra ricchezza. Ma per esempio, un’area fabbricabile è un vuoto che vale molti soldi, e rendersene conto può fare molta differenza nell’economia di una vita: ugualmente accorgersi di non sapere può essere fondamentale perché solo così si accetta di imparare.
La psicologia ha molto bisogno del punto di vista architettonico: nel mondo occidentale c’è una visione ideale dell’anima, che è quella della tradizione cristiana, che permette cambiamenti solo in un’ottica di sacrificio: cioè qui l’anima è perfetta, indistruttibile, assoluta, e quindi anche poco trasformabile. La psicologia la chiama psiche invece che anima proprio per differenziarsi da questa rappresentazione: la psiche è qualcosa che evolve continuamente, che ha problemi di costruzione e di abitabilità, esattamente come l’architettura. Quella che gli psicologi chiamiamo psiche è insomma metaforicamente parlando un edificio, e come gli edifici in senso stretto può essere funzionale e bello, funzionale e brutto, disfunzionale, talmente assurdo che magari è anche grande ma con un’unica stanza abitabile, oppure è fatto in modo tale che si può entrare in certe parti ma non in altre. La psicoterapia assomiglia parecchio al restauro, cioè uno psicoterapeuta cerca di restaurare insieme a lui l’appartamento del paziente: sposta muri, apre porte, apre finestre, chiude qualcosa in modo da costruire spazi agibili, funzionali e belli.
Come l’architettura, la psicologia si confronta necessariamente col problema estetico, in quanto gli spazi per essere vivibili richiedono bellezza: anche uno psicologo è uno specialista di spazi, psichici in questo caso, che senza essere banali devono essere strutturati esteticamente e logicamente. Come tutto ciò che vive, il mondo psichico risponde infatti a una logica circolare e non a una lineare, e non basta che le cose funzionino, ma devono anche avere valore per non produrre retroazioni di rigetto. Questo è un problema non indifferente, perché la bellezza non è facile da maneggiare in maniera oggettiva: alla razionalità infatti bastano le dimostrazioni, mentre la bellezza è un’esperienza: se si sperimenta bello è bello, se non lo si sperimenta, non diventa bello semplicemente pensandoci.
Con l’arte moderna, diventa più comprensibile la famosa affermazione di Kant “non è bello ciò che piace”: a questo punto si può infatti differenziare fra “bello” e “piacevole”, qualcosa che piace senza essere bello. Per esempio, una cosa di moda, quest’anno piace l’anno prossimo magari no: non è dunque davvero bella, ma si potrebbe piuttosto chiamare piacevole. Quando si guarda invece un quadro cubista, in genere non appare affatto piacevole, ma se si guarda col cuore si vede che non è una cosa qualsiasi: c’è qualcosa lì dentro che parla, che chiama… è nell’insieme che dice qualcosa, le parti separatamente non dicono magari niente, ma l’insieme parla al cuore. Ci vuole tanta attenzione per accorgersene, bisogna ascoltarsi a fondo, e poco a poco ci si accorge che esistono forme che anche se non sono naturalistiche, compongono insiemi che trascendono le loro parti, che volano oltre. Magari guardando le parti di un edificio moderno si vede dei semplici parallelepipedi di cemento armato, ma guardando l’insieme c’è poi qualcosa che tocca, che va oltre. Si può mettere insieme forme di qualunque tipo, e l’insieme può dare un risultato o meno: non conta le parti, ma solo il più della loro somma, ed è così per gli insiemi di forme e anche per gli insiemi di pensieri.
Le forme hanno in questa ottica una vita autonoma, che si realizza specificatamente nella ricerca artistica: non ci sono canoni né regole per produrre bellezza, si può solo ottenerla nella pratica della creazione. Allora, per produrre valore bisogna sperimentare: cosa guida però questa sperimentazione? La risposta più diretta sarebbe: “il senso della qualità”. Si chiama bellezza la qualità della forma, e qualità si sente, non si pensa: le forme hanno una qualità, intrinseca, che non dipende da nessun significato che gli si possa attribuire, o da nessun portato simbolico che le investa. La forma è inevitabile: nessun contenuto si dà senza forma, e la ricerca di qualità nella forma è un corollario, in quanto se una forma bisogna dare alle cose, allora il buon senso direbbe che è meglio dargliela bella.
La qualità non è funzionale, ma dà senso, e la vita ne riceve valore: la mancanza di bellezza di quartieri e città pesa evidentemente sulle vite degli abitanti. Bello non è necessariamente più costoso che brutto, ma è certamente più difficile: per fare “bello” bisogna averne l’esperienza, saperlo cioè differenziare da brutto, e non c’è modo di fare questo semplicemente attraverso paragoni esterni. Se si compara a modelli, al massimo si può fare qualcosa che “sembra” bello, e che in breve tempo si rivelerà per quello che è, una finzione che alla bellezza assomiglia soltanto e che proprio per questo è ancora più brutta. La pratica della bellezza richiede appunto pratica, attenzione al proprio vissuto, e lenta scoperta del miracolo che una forma piace più di un’altra senza che questo possa essere spiegato con ragioni oggettive: richiede insomma una scoperta della propria soggettività, e un’elaborazione di questa per lo sviluppo di uno ”stile”, che è ciò che caratterizza l’artista. Ci sono tante bellezze quanti artisti, ognuno ha la sua e non si deve uniformare a quella degli altri: per scoprire la bellezza bisogna cercare dentro l’esperienza e trovare la consapevolezza dell’effetto che le forme producono nella propria percezione1.
Il problema è che la bellezza è un fatto soggettivo, e proprio per questo in una cultura che da secoli privilegia l’oggettività è vissuta come se fosse un optional, come se non fosse utile2: il bisogno di valore però c’è a prescindere dal fatto che le persone se ne rendano coscientemente conto, e la sua mancanza opera sgradevoli effetti.
Fatto sta che se il novecento è progredito enormemente sul piano del pensiero e ha scavalcato molte delle ingenuità dell’ottocento, nella vita quotidiana e professionale si utilizza invece ancora il vecchio modo di pensare, cioè quello assoluto: il pensiero moderno invece è relativo, e rappresenta la bellezza e la bontà come fenomeni relazionali, che sono valori cioè nella misura in cui aprono un’esperienza a chi li sperimenta. Bello e buono è qualcosa che “permette”, e se invece non permette niente, non costituisce valore. Anche per essere logico un pensiero deve essere strumento per permettere3: invece, siccome i pensieri non ricadono subito in testa, si possono pensare le cose più inverosimili senza pericolo, anche quando non portano da nessuna parte. In realtà i pensieri abitabili sono come le case abitabili: una casa abitabile ha stanze separate e articolate fra loro, se si immagina un appartamento che ha una stanza sola per tutto, si vede che non è proprio quello che si dice comodo da abitare. Se per esempio in una casa si ha il gabinetto e la cucina insieme è difficile utilizzarli! Per i pensieri è lo stesso, se non sono differenziati e articolati, non permettono l’abitabilità: certi pensieri risultano contorti perchè spesso le persone hanno bisogno di fare due cose allo stesso tempo, e non riuscendo a metterle in sequenza finisce magari che per questo non fanno ne l’una ne l’altra.
Una persona, per esempio, che era stata incaricata di ottenere che una paziente si convincesse a fare qualcosa che le era necessario, era disperata perché non l’aveva convinta. Analizzando i suoi ricordi, è emerso chiaramente che lei non era stata incaricata di convincerla, ma di tentare di convincerla: per lei tentare di convincerla e convincerla si erano fuse in un’unica cosa. Al momento che ha potuto differenziare fra tentare di convincerla e convincerla, si è potuta chiedere: ma io ho tentato? E a questo si è risposta “sì”, e ha ricominciato a respirare normalmente. Questa differenziazione concettuale che sembra banalissima, può fare la differenza fra avere l’angoscia e non averla più. Nel lavoro di psicoterapia, non si risolve la vita esterna delle persone, le si aiuta ad abitare la vita interna: lei era disperata, ed è uscita dalla seduta senza la disperazione.
Avventurandosi nell’edificio psichico delle persone, si vede immediatamente dove la trasmissione del sostegno è poco funzionale: i tetti sono storti, i pavimenti non reggono, le stanze non hanno dimensioni plausibili, in qualcuna ci piove, ecc. In realtà ognuno in genere usa solo parte di quell’edificio che è la sua personalità, e il resto, anche se ce l’ha, gli serve a poco. Molto spesso, in terapia, i pazienti raccontano: “ho sognato che c’era una stanza nella mia casa che non avevo mai visto, o una stanza piena di sole” oppure “ho scoperto un passaggio segreto che porta da un’altra parte della casa, ecc.”. I sogni di case sono frequentissimi e metaforizzano chiaramente parti della persona che ci sono ma non sono abitate, perché la persona stessa non sa nemmeno come fare ad arrivarci. Progettando un edificio è improbabile che un architetto si scordi le scale, ma nell’organizzazione della propria anima le scale si scordano facilmente, perché non si vede quello che si fa, e appena fatto diventa parte dell’organismo psichico e non si sa più cosa si è fatto, dov’è, come ci si arriva, come si torna in dietro. Si perde parte di noi stessi con una visione poco architettonica della nostra anima, usando poco il concetto che l’anima vada abitata, che sia qualcosa che accoglie, che ci si fanno cose dentro, e che se è stretta, angusta, buia e umida, ci si fanno cose malvolentieri: i processi endopsichici richiedono cura e attenzione, altrimenti si svolgono in maniera inconscia, cioè automatica, e raramente nell’interesse dell’insieme della persona.
Questo dal punto di vista funzionale, ma bisogna prendere in considerazione anche etica e estetica: l’uomo infatti non è un essere semplicemente razionale, ma usa la razionalità al servizio di istinti, istanze varie, valori, che si avvicinano meglio con il sentire che con il pensare. Bello e buono sono indicazioni fondamentali per qualunque operazione, dato che l’insieme uomo non è deducibile razionalmente e non è prevedibile. Se si vuole fare un’architettura umana, bisogna insomma partire dal fatto che l’uomo non è semplicemente razionale, e quindi non si può conoscere in astratto: nelle opere pubbliche sarebbe previsto che si consulti la popolazione, e formalmente magari viene fatto, ma in pratica no, nel senso che consultare la popolazione viene riferito a un piano razionale e astratto, non viene mica consultato il passante su cosa vorrebbe come pavimento della piazza, cosa gli piacerebbe vedere intorno, dove gli piacerebbe avere dei bar, dove gli piacerebbe ci fossero le panchine, gli alberi, ecc… Quello che si cerca sono le idee grandi, luminose, cosa sarebbe bello, giusto, buono, non cosa alla specifica persona piacerebbe.
Anche sul piano psicologico la razionalità non basta: i comportamenti devono piacere alla persona perché sia in grado di adottarli, e per questo è indispensabile un’ottica di valore, che si appoggia sul senso piuttosto che sul significato. Il valore però ha bisogno di essere coltivato, la bellezza non salta agli occhi da sola, per incontrarla bisogna sentire, guardare con la coda dell’occhio, ascoltare le cose minime. Ci vuole tanto sforzo che a volte le persone non hanno voglia o la possibilità di farlo.
Nella vita di una persona insomma il problema non è solo di avere quello che gli è funzionale, come un lavoro, una casa, una famiglia, ma tutto questo deve anche essere bello e buono, altrimenti la qualità della vita rimane bassa. Da questo punto di vista si vede subito come la bellezza nella pratica psicologica come nell’architettura è un elemento fondamentale, è quella che permette una vita che fiorisce al posto di una vita che schiaccia. Quando la sera si va in piazza, ci si va più volentieri se la piazza è bella: che è bella, significa che è come se permettesse di allargare l’anima, di distendere le fibre dell’anima. Una piazza brutta dà una sensazione di oppressione, come lo dà uno stare insieme senza grazia. Questo, sul piano architettonico, è un problema che una volta non esisteva: i paesini di una volta erano tutti belli, perché si costruiva secondo canoni tradizionali, come si era trovato ottimale attraverso i secoli, insomma su solidi canoni di bellezza. Oggi in genere non si fa più così, perché costruire brutto spesso costa meno e ci si guadagna di più.
Anche nella psicologia il problema è l’insieme degli esseri umani e la sua qualità: non basta occuparsi di come è un uomo, il problema principale è cosa ci fa insieme agli altri, dato che le difficoltà psichiche si sviluppano soprattutto nella vita sociale. Gli altri sono il mondo in cui ognuno vive, e pensare psicologicamente significa pensare in prospettiva, cercando di individuare la linea dell’orizzonte del proprio operare.
Naturalmente anche nell’architettura bisogna guardare avanti mentre si pensa. Pensando si cerca di stabilire la verità: ma come farlo in un mondo infinito? Ci sono infinite verità, o infinite direzioni della verità. Fare una casa non significa occuparsi dell’infinito in sé, ma di mettere muri, colonne, con l’intenzione di sostenere delle cose specifiche: si mettono a certe distanze, in certe posizioni, per metterci un tetto o altro del genere. Quando si elabora pensieri bisogna fare esattamente la stessa cosa: quando ci si fa una domanda, se non ci si vuole perdere nell’infinito, dato che le domande sono infinite e le risposte altrettanto infinite, bisogna chiedersi che scopo ha questa domanda, che è come se un architetto si chiedesse a che scopo mette lì una colonna. Può anche dirsi che ce la mette per bellezza, e ci si può anche dire che ci si è fatto questa domanda per bellezza, ma, in linea di massima, bisogna che si costruisca un sistema di domande e di risposte che trasmettono il sostegno. Cioè, quando mi faccio questa domanda, la risposta mi serve per appoggiare quest’altra domanda, e da questo arrivo ad altre domande e altre risposte che mi permette di costruire un insieme viabile, nel senso che posso procedere da un punto a un altro e tornare indietro, e che mi serve per qualcosa: per prendere decisioni, per dirimere delle controversie, ecc. Come la bellezza serve alla vita, anche per la logica è la stessa cosa: l’uso è l’essenza relativa della logica, il che vuol dire che non c’è da cercare ciò che è logico in assoluto, ma quello che è logico in relazione all’uso che se ne vuol fare.
Se la funzionalità supporta la civilizzazione dell’Uomo, etica e estetica ne supportano la cultura, e da un punto di vista psicologico civilizzazione e cultura non sono identiche: in una famiglia con abitudini civili non significa che ci sia spazio creativo e possibilità di sviluppo spirituale, come in una famiglia decisamente incivile non è detto che non fioriscano fiori bellissimi. Cultura è coltivazione del valore, operazione difficile che non di rado richiede di trasgredire le regole della civilizzazione: la bellezza non sempre rispetta la funzionalità, e l’etica richiede a volte di ignorare le rigide regole della morale.

 

NOTE:

1 Un problema psicologico centrale è la bellezza che la persona guarda in sé stessa, cioè il narcisismo. Freud parlava di eros e istinti dell’io (che alcuni freudiani hanno ribattezzato istinto di morte): Kohut chiamò questa polarità pulsionalità e narcisismo. Piacersi dà in effetti tanta soddisfazione, che non poche persone si dedicano solo a questo, e se si può esagerare in questo senso, si esagera però anche nel senso opposto: non occuparsi di piacersi può portare le persone a stati di deprivazione tali che poi non gli interessa più niente. Si può rinunciare a fare qualcosa se non si riesce a trovare una forma accettabile, e lo stato di espressione coincide a volte con la mancanza di speranza di riuscire a fare qualcosa di bello, o comunque di ottenere qualcosa di bello.

2 Incidentalmente, allora opera sotto il livello della coscienza con forza ancora maggiore.

3 è logico qualcosa che porta da qualche parte e che permette qualcosa, ma non è mica l’unica logica: ci sono tante altre logiche.

Please cite this article as: G. Paolo Quattrini (2013) PSICOLOGIA E ARCHITETTURA: FUNZIONALITA’ E VALORE ESTETICO. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/psicologia-e-architettura-funzionalita-e-valore-estetico/

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