Le funzioni della parola

Direttore G. Paolo Quattrini

Istituto Gestalt Firenze

G. Paolo Quattrini – Psicoterapeuta Direttore Responsabile IGF

Pubblicato sul numero 46 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

La parola è un’astrazione prodotta della corteccia cerebrale, che solo gli esseri umani hanno: sono i cosiddetti concetti. La corteccia produce i concetti, i quali si associano a suoni (presumibilmente) già connessi a determinati oggetti, e l’abitudine ne fa una connessione stabile, che si chiama la lingua, e che dà “il nome alle cose”.

Siccome però nel mondo ci sono le parti e gli insiemi, i quali trascendono le parti e sono percettibili non con i 5 sensi del mondo concreto, ma con il sentire che conosce il mondo dell’esperienza, questo sentire differenzia gli insiemi e attribuisce loro un nome come fossero degli oggetti, un nome che è conosciuto come metafora.

Dare nome alle cose consiste nel descriverle, cioè farle vedere con i sensi: le metafore invece evocano cose che non hanno forma propria. Evocare significa chiamare, non descrivere: a quel richiamo ognuno vede venire cose diverse, e quello che le tiene insieme è effetto della metafora. Il campo specifico della metafora è quello del valore: bello buono e vero non hanno forma oggettiva, sono esperienze, che come tali non possono essere descritte, ma solo richiamate.

Descrivere e evocare sono le due funzioni della parola, e dato che la parola è la stessa spesso vengono confuse. Nelle scritture religiose la descrizione non ha posto, ma l’evocazione la soppianta completamente. Scambiare un’evocazione per una cosa è quello che si chiama reificazione, trasformare cioè in res qualcosa che forma oggettiva non ha. In realtà la distinzione viene ufficializzata da poco tempo, ed è diventata una necessità riconosciuta nell’arte e nella psicologia.

Cultura infatti implica fermare il tempo, solo così si stabilizzano elementi che possono essere articolati fra loro nell’invenzione di nuovi aspetti della realtà. La stabilizzazione può essere assoluta o relativa, quando è assoluta si trasforma l’elemento in cosa, per esempio in un nome, ed è questo che si chiama reificazione, cioè cosificazione.

Reificare implica una banalizzazione, e questo è il costo dell’identità, così importante per mantenere stabilità personale e sociale, strumenti essenziali per la sopravvivenza: le regole sociali banalizzano l’esperienza e stabilizzano il futuro del mondo. Si tratta però del mondo dele cose, delle produzioni industriali, degli acquisti, del lusso, dell’esibizione e dell’importanza sociale, del lato insomma più discutibile della realtà umana.

Ma c’è qualcosa oltre gli oggetti? Ovvio, gli oggetti sono invenzioni umane che dipendono dalla parola, cioè dal loro nome: la domanda allora è, cosa c’è prima degli oggetti? E la risposta è l’esperienza, che non è uguale a sé stessa e scivola nel tempo se non è trattenuta dalle parole. Ma se è chiaro a che servono gli oggetti, a cosa serve l’esperienza? O comunque, in che senso è importante?

Se gli oggetti rappresentano la quantità, la qualità è data dall’esperienza, che conferisce valore alla vita. Il valore, il kalos kai agathos dei greci, non ha forma oggettiva, e si riconosce appunto dall’esperienza di valore, che è per definizione il senso stesso della vita.

Paradossalmente dunque, la sopravvivenza e il senso della vita non sono la stessa cosa: coesistono ma obbediscono a regole differenti, e a volte bisogna sacrificare l’una per fare esistere l’altra. Quantità e qualità sono ugualmente indispensabili, e vengono conosciute dai due diversi linguaggi che abbiamo a disposizione, il digitale e l’analogico, la mano destra e la mano sinistra della mente umana, la scienza e l’arte: inutilmente si indagherebbe scientificamente con un linguaggio analogico, e altrettanto inutilmente si perseguirebbe valore con un linguaggio digitale.

Qui si arriva a un punto essenziale del discorso: come si fa a perseguire valore senza le parole? E prima delle parole l’umanità non conosceva il valore? Certamente sì, e allora come faceva a scoprirlo senza le parole per stabilizzare l’esperienza? La risposta evidente è il rito.

I riti sono azioni che si ripetono sempre uguali, allo scopo di far sperimentare qualcosa di specifico a chi li fa: che siano religiosi, o magici, o bellici, si tratta sempre di accorgersi cosa si prova a farli, e di rifarli per provare di nuovo l’esperienza in questione. Sono insomma gli antesignani delle parole, servono per dare forma all’esperienza e costruirci una cultura.

Come le parole, i riti evocano realtà dinamiche, e come le parole posso essere reificati in ricette di comportamento oggettivo, perdendo in questo modo l’evocazione del valore. Riti e parole sono insomma realtà ambivalenti, che possono descrivere o evocare a seconda di chi se ne serve: importante nella vita riconoscere la differenza e usarla a seconda delle proprie necessità.

Nominazione e reificazione.

La reificazione è il più stupido degli errori umani, ma essendo l’altra faccia della nominazione, deve essere scusata come un incidente plausibile nella più grande avventura dell’umanità. Immaginiamo i primordi: gli esseri umani, da bestioline assomigliavano, tanto per dire, ai gatti, e vi sembrano stupidi i gatti? Ovviamente no, la sanno non di rado più lunga degli uomini, ma hanno un limite preciso al loro conoscere, che è l’approssimazione: solo nell’astrazione abita l’esattezza, niente in natura è esatto, tutto è più o meno, con diverse approssimazioni. Un gatto sa da dove uscire di casa, ma a volte sembra averlo dimenticato e poi lo riscopre, e il suo conoscere il mondo è molto adeguato malgrado non sia esatto.

L’esattezza non è cosa naturale: richiede una capacità di astrazione e una cultura del mondo astratto. È una capacità che appare nel mondo con la corteccia cerebrale, quella parte del cervello che crea le astrazioni e che solo gli esseri umani possiedono: su questa capacità si appoggia una lunghissima storia di elaborazioni culturali, che da ben più di diecimila anni si è sviluppata in moltissime direzioni che si sono incontrate e alimentate a vicenda, fino ad arrivare al pensiero moderno in tutte le sue variabili.

L’astrazione non appartiene al mondo concreto, che è localizzato nello spazio e nel tempo: l’astrazione è qualcosa di ab-tracto dal tempo e dallo spazio, e quindi non soggetto alle leggi del cambiamento: un concetto è eterno e immutabile. Con l’immobilità dell’astratto si può operare relazioni di uguaglianza fra “oggetti” riferibili alla stessa astrazione, e per questa via si apre l’esattezza, che è la base del pensiero scientifico. Si aggiunge così al sentire e al fare, un terzo tipo di realtà, il pensare. Un piano di realtà non naturale, a cui solo gli organismi dotati di corteccia hanno accesso: per quanto abile nell’essere nel mondo, un gatto non è in grado di maneggiare l’astratto.

Come l’esperienza anche le astrazioni sono comunque volatili, e solo dandogli nome diventano stabili e associabili a parti del mondo esperienziale e di quello concreto: una volta nominate, queste parti abitano anche il mondo astratto, che ha poi capacità di conservazione praticamente illimitate attraverso la scrittura.

Il nome è però cosa che indica, non che identifica: crederlo significa reificare, cioè tradurre in oggetti visibili e maneggiabili cose che non lo sono. Il massimo della reificazione è la superstizione: ritenere un gatto nero portatore di sfortuna è scambiare un elemento evocativo con un oggetto vero e proprio. Il gatto nero è una macchia nera che si sposta qua e là e non può essere controllata, e questo evoca tanto i contenuti psichici rimossi che si può capire come le persone più antidiluviane ne abbiano paura, ma prenderlo a sassate per questo, oltre che una orribile mancanza di rispetto è segno di una vera idiozia.

Le parole dunque si usano in due modi principali, descrivere, cioè disegnare il contorno dell’oggetto con tutti i particolari possibili, e evocare, fatto che non è riferito all’oggetto ma all’esperienza di chi lo percepisce. Si tratta in sostanza del linguaggio scientifico, che descrive senza preoccuparsi dell’effetto, e quello artistico, che si occupa dell’effetto senza interessarsi della sua essenza. La parola che descrive la si potrebbe chiamare in via metaforica come il cellofane che avvolge le verdure al supermercato, mentre la parola che evoca è in primo luogo la parola poetica. “Nel mezzo del cammin di nostra vita…” dice Dante, e non si può pensare che con questo descriva qualcosa: la vita si può vedere come cammino solo con l’aiuto della fantasia: facendolo però si entra in una avventura di sogno dove la propria storia trova una consequenzialità attraverso l’immagine del cammino e delle sue tappe. Un modo di spiegare questa differenza sono i termini significato e senso: il significato emerge dalla descrizione, il senso dall’evocazione. Significato e senso non sono confondibili, il significato è quantitativo e funzionale, il senso è qualitativo e valoriale.

Da qui escono due teorie della conoscenza fondamentali, quella cognitivista (Vygotskij), e quella fenomenologica (Husserl), che stanno alla base di due direzioni divergenti della pratica psicoterapeutica: non esiste un ragionare unico, ogni ragionamento si appoggia su una specifica epistemologia, e non ci si può capire se non si avverte l’interlocutore della teoria della conoscenza su cui si basa il proprio ragionamento. Non si può neanche disquisire su chi ha ragione e chi torto, perché si tratta di due epistemologie incommensurabili, cioè non misurabili con lo stesso metro di misura: certo, se si misura la quantità con un’ottica fenomenologica sarebbe difficile districarsi su un piano tecnico, e certamente l’arte non permette un’ottica cognitivista.

Nominare è la salvezza dal destino, dove capita quello che capita e non ci sono alternative: è la grande svolta dell’umanità che esce così dalla dimensione animale, perché senza questa operazione staremmo ancora in cima alle palme a raccogliere noci di cocco. Nominare è fondamentale per organizzare la mente e il comportamento, è la base per qualunque operazione di riflessione: un ragionamento è una costruzione di elementi astratti dotati di nome e legati fra loro dalle logiche, metodologie che sono state descritte dettagliatamente.

Non bisogna scordare però questa doppia natura della parola: da una parte descrive e dall’altra evoca: scordarsene significa confondere due livelli di realtà assolutamente diversi e non sovrapponibili. La descrizione è un evento pesante, mentre l’evocazione è leggera, chiunque vede un oggetto descritto, ma non tutti “vedono” il senso di una poesia: facilmente scambiano l’oggetto per l’evocazione, come nel vecchio detto “l’ignorante è quello che gli indichi la luna e lui ti guarda il dito”. Il nome ufficiale di questo fraintendimento, reificazione, significa appunto ridurre a res, oggetto, qualcosa che non lo è, cioè il senso.

Un crocifisso per esempio non ha una dimensione spirituale, è solo una cosa che evoca, ma un numero incalcolabile di persone ritiene invece che ce l’abbia: la sacralizzazione dei rituali è un esempio classico di reificazione, giustificata dall’ignoranza che non riesce a distinguere i due livelli. Sarà anche l’ignoranza, ma sembrerebbe un’ignoranza coltivata per motivazioni gerarchiche. Le reificazioni infatti trasformano il sentire in cose, e le cose (e le persone) si possono facilmente disporre in ordine di importanza: in un pensiero binario, che come l’algebra di Boule (quella dei computer) si riduce al binomio si o no, giusto o sbagliato, le cose (e le persone) giuste stanno più in alto di quelle non giuste.

La reificazione dunque è l’anima stessa della gerarchia, che è stato lo strumento di aggregazione umana più efficace e diffuso finora: è importante rendersi conto che questo si appoggia totalmente sulla logica aristotelica che essendo basata sul principio di non contraddizione organizza le differenze in gerarchie. Trasformando il mondo in cosa, o al limite in concetti, la realtà volatile dell’esperienza si spegne nell’immobilità, e per questa la reificazione è una nemica mortale del senso.

L’invisibile e gli oggetti sacri.

Nel linguaggio popolare c’è un modo di dire, il sesto senso, che dà forma metaforica all’invisibile: è “come se fosse un altro senso”, ovviamente oltre ai cinque che percepiscono la realtà concreta, c’è insomma una capacità inspiegabile di percepire qualcosa che non è concreto. Il sesto senso non è però un’espressione che si riferisce a una realtà astratta, non riguarda il mondo concettuale, si riferisce di solito a qualcosa che sta per accadere, oppure a qualcosa che è più reale di quello che appare: qualcosa di invisibile. La saggezza popolare riconosce insomma la capacità umana di percepire qualcosa che non è la realtà concreta: e con percepire non si intende pensare, che è quello che si fa con le astrazioni. Allora, se non è realtà concreta e nemmeno astratta, di che si tratta?

L’insieme, che la matematica insiemistica dimostra essere più della somma dei suoi componenti, è invisibile e non è concreto né astratto: è una realtà trascendente, che si percepisce anche se non si vede1. Si percepisce col “sesto senso”, non è quindi dimostrabile e non è riconosciuta come realtà dai razionalisti, che nell’invisibile riconoscono come esistenti solo le catene di cause ed effetti, cioè solo il mondo concettuale.

Normalmente tutto questo si dà per scontato, è ovvio che c’è ma non ci si chiede di più e non si prende sul serio, almeno consapevolmente: in realtà siamo in preda a una gran quantità di automatismi, sia caratteriali che cognitivi2, e non ci chiediamo mai da che esperienze vengano e come verificarli. Freud teorizzò che i bambini vivono all’inizio quello che chiamò il processo primario, dove la parola evoca oggetti, e solo più avanti nel tempo compare il processo secondario, dove la parola descrive e corrisponde a uno specifico oggetto e solo a quelli. È come dire che il linguaggio primario è fatto di metafore, dove ogni cosa ne evoca per somiglianza tante altre, e soprattutto anche quelle che non hanno nome: Nietzsche diceva che i concetti sono metafore disseccate, e appunto da qui derivano i concetti. Se la realtà concreta è il destino dell’uomo, la realtà trascendente e quella astratta sono le sue invenzioni, con cui ha costruito una realtà nuova, l’arte e la scienza.

Il primo sistema di gestione della realtà trascendente è stato la reificazione in oggetti sacri: le culture primitive avvicinavano la trascendenza con le metafore, e poi la trasformavano in oggetti con una forma definita, che diventavano la tradizione da ricordare attraverso le generazioni e a cui riferirsi nelle avventure della vita personale e del gruppo di appartenenza. La metafora è uno strano fenomeno con due facce: dire che qualcosa è “come un soffio di vento”, offre all’ascoltatore due diverse esperienze, un “soffio di vento”, ben percettibile sensorialmente, e dall’altra il “come se fosse”, espressione ben misteriosa che non è richiesto di capire. Il processo di reificazione è semplice: basta scegliere il lato percettibile e si arriva a un oggetto concreto, una res. È chiaro perché le culture abbiano realizzato un numero infinito di rappresentazioni e oggetti religiosi: in questo modo hanno dato forma a infiniti avvenimenti trascendenti, per poi però scambiarli con la trascendenza vera e propria, che è esperienza, non concretezza.

La reificazione è stata una delle invenzioni geniali e basilari dell’umanità, che peraltro dispone anche di una stupidità sublime: una volta nella storia antica il potere politico, in quel caso il faraone, tentò di riportare le reificazioni all’esperienza, ma appena lui morì avvenne una immediata restaurazione della sacralità reificata. È il caso di Akenaton, che con la moglie Nefertiti impose il culto del sole e creo una città nuova, dove i templi non avevano il tetto perché così il sole potesse entrare senza ostacoli e le persone, orientate a riconoscerla concettualmente, potessero sperimentare la trascendenza in un’esperienza che vivevano tutti i giorni come realtà materiale.

Molti secoli dopo, Platone sistematizzò un’altra area di reificazione, la concettualità, con la quale cominciò quell’edificio del mondo delle idee che oggi è diventato tanto colossale da costituire un impedimento invece che un aiuto. I concetti, come gli oggetti sacri, sono strumenti per gestire l’invisibile, non sono la trascendenza vera e propria, che è esperienza: questo porta una confusione particolarmente grave nel mondo psicologico, in cui si continua a confondere la realtà esperienziale con gli strumenti per gestirla, un po’ come confondere le bistecche con le forchette.

Gestire l’esperienza con i concetti è già molto più evoluto che gestirla con gli oggetti sacri, ma non è un punto di arrivo: è un po’ come guardare un paziente con i raggi x. Questo aiuta, ma se va operato lo devi toccare, e i raggi x in questo non ti aiutano se non in senso evocativo: in analogia con la lastra puoi indirizzare le tue mani verso direzioni più probabili all’interno del corpo del paziente. L’ultima ratio dell’esperienza è l’esperienza stessa, e nella pratica psicoterapeutica questo significa non guardare il paziente attraverso i testi di psicologia, ma guardare semmai i testi di psicologia attraverso il paziente in carne ed ossa.

Oggi il mondo astratto ha la credibilità e la potenza che una volta avevano gli oggetti sacri, fra i quali bisogna annoverare anche le parole sacre (Dio, la Madonna, i Santi e via dicendo) e le affermazioni sacre (Dio esiste, i cattivi finiscono all’inferno, la Madonna ci proteggerà eccetera): oggi la verità indiscutibile è quello che dice la scienza, malgrado la grande la diversità di opinioni dei vari scienziati che sembra essere trascurabile. Ma non è vero, la scienza non è la Verità, è solo uno strumento per scoprire verità varie che aiutano a galleggiare nel mistero infinito del mondo. Certo ci si galleggia meglio di prima, ma anche con gli oggetti sacri si galleggiava meglio di prima, nei tempi dove non c’erano ancora: il problema è andare avanti, non credere di essere arrivati.

Per andare avanti si potrebbe tenere presente che ci sono tre ordini di realtà, quella concreta, quella astratta e quella trascendente, che non devono in nessun modo essere confuse una con l’altra. Il problema diventa allora articolare una relazione sensata e funzionante fra le tre: che rapporto c’è fra la realtà concreta e quella trascendente? Che rapporto c’è fra quella trascendente e quella astratta? Che rapporto c’è fra quella astratta e quella concreta?

Se diciamo che io sono concreto e anche tu sei concreto, che connessione c’è fra queste due concretezze e la trascendenza? In matematica la risposta è semplice: noi è più della somma di io e tu, come è evidente da quante più cose si possono fare in due che non si può fare da soli. Come dire che fra io e tu passa qualcosa che non può passare senza questa dualità: Buber diceva che questa è la scala per il cielo. Nella tradizione cristiana si conosce dalla notte dei tempi la santissima Trinità, dove fra Padre e Figlio passa lo Spirito santo: fra io e tu passa comunque la colomba dello spirito, anche quando non è santo.

In altre parole la trascendenza origina nel rapporto con altro da sé, ovviamente soprattutto con esseri umani, ma anche con quelle cose che, come dicono gli artisti, li ispirano. La trascendenza quindi si appoggia sulla realtà concreta: non c’è trascendenza senza concretezza che con un processo dialettico la generi. E la trascendenza che rapporto ha poi con la concretezza? La trascendenza influisce sul libero arbitrio, che sceglie la strada e cambia il futuro.

E l’astratto? Una invenzione straordinaria, appoggiata alle funzioni della corteccia cerebrale, che è capace di dare vita ai concetti: per quanto intelligente, un cane manca delle strutture neurologiche deputate a questo. L’importanza del concetto si capisce se si pensa per esempio che con il concetto di “sedia” si maneggiano in un istante tutte le sedie del mondo, anche di quello passato e di quello futuro: da lì altri concetti differenziano (sedie da comprare, sedie da costruire, eccetera) in maniera altrettanto veloce varie possibilità, fino ad avere in un tempo ridottissimo rispetto a quello dell’esperire, indicazioni utili su cosa decidere per i propri bisogni. Certo, non bisogna confondere l’astratto con il concreto: i concetti servono solo a indicare, non ci si può sedere sopra.

L’astratto insomma non è una realtà concreta, e non va sbagliata con questa: quello che dice il paziente in seduta può essere tradotto in astrazioni, ma poi quelle concettualità vanno riconvertite in esperienza se si vogliono utilizzare in un’ottica psicoterapeutica: nella loro dimensione astratta sono prive di effetto sulla realtà concreta, e per il paziente hanno solo una possibile funzione di orientamento.

L’astratto dà infinite indicazioni sulla relazione con la realtà concreta, che è quello che si chiama la tecnica, e sembra non esserci fine a questa linea di sviluppo. Ben poco aiuta invece con la trascendenza, che non si muove per via deduttiva in catene di cause ed effetti. Un esempio illuminante è “la noche oscura del alma”, una poesia di san Juan de la Cruz che racconta una sua esperienza fortemente trascendente: leggendola si sente il sapore della trascendenza, ma capire si capisce solo il movimento di san Juan che scende una scala nel buio e l’incontro con un oggetto di infinito amore e niente di più.

La trascendenza non si spiega, non si riesce a dare indicazioni a proposito, solo evocazioni: san Juan evoca una discesa nel buio verso un oggetto di infinito amore, e anche se non si capisce in senso razionale di che si tratta, qualcosa porta giù con lui il cuore in questa discesa. Questa è la caratteristica della trascendenza, la qualità dell’esperienza. La realtà materiale e quella astratta sono fonti di quantità e di potere, la trascendenza è invece qualità.

Gli esseri umani per ragioni di sopravvivenza tendono a privilegiare la quantità e il potere, e solo dopo si occupano della qualità: più importante il potere, e poi la qualità. Ma è un ragionamento sbagliato: certo da ricchi si possono acquisire oggetti bellissimi, però la qualità non sta nell’oggetto, ma nella persona che la sperimenta. La ricerca del potete e della ricchezza cozza con il senso della trascendenza, dove le cose sono solo parti dell’insieme. La trascendenza richiede di lasciare dietro le aspirazioni sociali e narcisistiche, come fece san Francesco con il bacio al lebbroso: dopo, ori e sete gli sembravano ridicoli a confronto di un corso d’acqua che scorre e che poteva sentire con una misteriosa capacità portata alla luce dalla rinuncia all’importanza delle cose del mondo.

La trascendenza però non è solo quella dei santi, è che quella viene bene come esempio: la trascendenza si sperimenta continuamente nella misura in cui si usa le metafore e non si cede alla tentazione di reificarle per saltare sul lato sensorialmente afferrabile. La metafora è una iniziazione a un mistero, accoglierla significa capire di non capire, come diceva Socrate a suo tempo. La priorità sul capire è una fissazione della cultura digitale, dove è richiesto di copiare diligentemente quello che si vede: in un’ottica analogica si tratta invece di andare in luoghi simili, evocati da quello che si vede, ma che si è liberi di scegliere a piacere.

In conclusione, sarebbe consigliabile percepire la realtà concreta con i cinque sensi e quella trascendente con il sesto, o, come diceva Nietzsche, ascoltare con gli orecchi le parole e con gli orecchi dietro gli orecchi il silenzio dietro le parole; bisogna dare nomi alle realtà concrete e metafore a quelle trascendenti, disseccare poi le metafore e creare concetti (i concetti sono metafore disseccate diceva Nietzsche) da spargere su tutto quello che c’è come fossero confezioni e cartellini del prezzo, ricordandosi sempre che quello che si mangia non è la confezione né il cartellino, articolare poi un linguaggio di concetti e metafore con cui navigare nell’universo infinito: questo sarebbe uno sforzo che farebbe del mondo un pranzo alla Karen Blixen invece di un pastone per animali d’allevamento.

1 C’è una vecchia storia che lo illustra bene: Gustaf Meirynk comprò una delle prime macchine che era stata messa in commercio, e pieno di entusiasmo la portò a vedere a un suo vecchio professore di scienze che sosteneva che le automobili non possono funzionare: scesero in strada e Meirynk cominciò a girare la manovella per metterla in moto, e dato che non ci riusciva, il vecchio professore scosse la testa e tornò in casa convinto della sua ragione.

2 Vedi i bias cognitivi: i neuroscienziati Johan E. Korteling, AnneMarie Brouwere e Alexander Toet  studiando i meccanismi cerebrali coinvolti nei bias cognitivi si sono accorti che molti bias derivano da meccanismi cerebrali intrinseci, fondamentali per il funzionamento delle reti neurali biologiche. (Wikipendia)

Please cite this article as: G. Paolo Quattrini (2023) Le funzioni della parola. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/numero-46/le-funzioni-della-parola/

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