Paura, Phobia e Déos
Silvia Contini – Counselor filosofica
Pubblicato sul numero 45 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
La paura è una disgiunzione senza voce con gli occhi della Gorgone
Abstract
Fear is an important emotion, it has an adaptive function since it allows us to alert ourselves from the first years of life facing a real danger or an imaginary threat. But it is also much more, as the etymological excavation of some terms connected with this primary emotion shows us; in fact, not only our experiential events radiate from its root but also the plot of the myth shines through.
Parole chiave
Fear, symbol, myth, emotion, nèkyia
“Ma dove c’è il pericolo, cresce
Anche ciò che ti salva”
F.HÖlderlin, Patmos
La paura è un’emozione importante, ricopre una funzione adattiva poiché permette di allertarci fin dai primi anni di vita di fronte ad un pericolo reale, o irreale poiché esistente solo come prodotto delle associazioni della nostra mente. Dal punto di vista fisiologico irrompe come un terremoto nel nostro corpo: l’aumento del battito cardiaco, la sudorazione, la diminuzione o annullamento dello stimolo della fame, il tremore, il respiro che non riesce a placarsi. Il senso di smarrimento, o di congelamento che ci rende come pietra fredda, l’istinto di attacco reattivo o di fuga. La paura è un evento che travolge ed avviluppa il corpo, ma è anche molto di più, come ci può suggerire lo scavo etimologico di alcuni termini antichi connessi a questa emozione primaria che da millenni ci rende edotti sia sul nostro mondo esterno sia riguardo al florilegio del nostro sepolto mondo interiore; dalla sua radice si irradiano non solo le nostre vicende esperienziali ma traluce anche la trama del mito.
Parto sempre dalle parole per capire; circumnavigare cognitivamente lemmi e radici per intravedere una traccia narrativa nell’appartenenza delle parole a famiglie di altre parole declinate dalla stessa radice. Ne emergono talvolta, saettanti, legami inattesi; emerge dal nulla la traccia di una strada, un percorso irradiato che ha fatto quel lemma di luogo in luogo, di voce in voce; la sua trasformazione in significati nuovi che sembrano tradire e poi invece si riconvertono alla propria radice in un eterno ritorno dell’analogo.
Paveo in latino e paio πάιω in greco, entrambi derivanti dalla radice indoeuropea pat-, richiamano il suono del battere, del percuotere, o meglio, dell’essere percossi.
Fobos era il nome del figlio di Ares, il dio degli aspetti più spaventosi e distruttivi della guerra, e Afrodite, la dea dell’amore nata dalla spuma del mare provocata dal lancio dei genitali di Urano evirati dal figlio Zeus. Per alcuni (Cicerone, De natura deorum) è tra i figli di Erebo e Notte, mentre per Virgilio di Etere e Gea. Aveva un fratello, Deimos, personificazione del terrore, e con lui accompagnava il padre nella mischia della guerra. Fobos è la personificazione di quella specifica paura che induce alla fuga; “si tratta del δαίµων che personifica la “Paura”, soprattutto in battaglia1 ed “È un nome d’azione appartenente alla famiglia del verbo φέβοµαι, “fuggire“.2
Ma è con un altro termine greco che si designa il terrore atavico ed istintivo dell’uomo per il buio, l’oscurità, l’Ade tenebroso, l’infinita notte buia che lacera e risucchia lasciandoci dentro lo smarrimento di un’angoscia senza fine; il termine è déos, paura, derivante da deìdo, temo; questo “esprime alle origini il terrore istintivo dell’uomo rappresentato dalla tenebra, dall’oscurità, dalla notte buia”3 e il timeo latino è della stessa base.
“La parola greca più densa per dire paura è deos, in cui brilla la radice di “due” (dyo), il numero che “divide”. La paura è “due”, due è il numero della paura, deos è allora parola bifronte e ancipite, e, per chi de finisca la paura come emozione solo negativa, è sulla cresta del paradosso: perché nel segnalare la paura addita la meraviglia.”4 La radice ne rivela l’antica parentela con deinos, formidabile, potente, che induce quindi meraviglia e timore, dove per Omero lo erano esemplarmente la dea Atena5e la dea Teti6 e l’incrocio del termine con l’accadico rivela non solo la traduzione con formidabile, ma anche con violento e minaccioso7.
Déos è ciò che spaventa perché si teme, è la notte buia che ci congela nella decisione sulla strada da prendere, poiché al buio tutto appare indifferenziato, fuori dal perimetro familiare; o fuori dal perimetro di ciò che vogliamo considerare identitariamente vicino, appartenente. È divisione, ma anche meraviglia, potenza veemente che induce senso di smarrimento ed impotenza, disarticola le membra e rende muta la voce. La fonte della mia paura può essere un pensiero, un concetto, un soggetto, un oggetto, una situazione; qualsiasi nesso semantico che ha un’interrelazione per me vivida con la mia esistenza. Diviene immagine raggelante, che pietrifica con il suo sguardo immaginato e temuto più di ogni altra cosa, anche della percezione. Più forte del dolore fisico stesso, che può paradossalmente essere consapevolmente cercato più di non subire dentro la nostra mente lo sguardo pietrificante di Medusa, o l’incontro con il drago. Ma è davvero incontro con il mostruoso, con l’alterità? O déos, con il suo paralizzante scuotimento, parla invero di noi, di qualcosa di interno che convertiamo come mostro esterno per poter essere scorto?
“Deos è fenomeno che accade quando una parte di sé è da sé separata, decisa e oggettivata in preteso altro da sé. Fa paura proprio in quanto, sotto la minaccia del totalmente altro, si occulta una minaccia molto peggiore: che quel totalmente altro non sia che quel sé, opportunamente mascherato da nega zione, proiezione, da mancato riconoscimento, da amnesia.”(…)“Deos (paura) è separazione, opposizione, percezione terrificante del totalmente altro che non sarebbe per me così terrorizzante se la sua alterità non avesse una caratteristica “saliente” quasi “insultante”, e causa a sua volta di “sussulto”: è me. Non è affatto alterità assoluta, bensì a me ben relazionata, con strettissimo legame di opposizione e negazione, cioè di identità (respinta).”8
Parto sempre dalle parole per capire; ma se voglio comprendere, depongo il ragionamento analitico e penso all’immaginale del mito.
Medusa è una figura che, sin dal VII sec.a.C., si presenta già nella pittura vascolare esattamente come è presente nei giorni nostri; frontalità e mostruosità sono le sue caratteristiche immediatamente visive. Come sottolineava il Vernant, “la figura si avvale sistematicamente delle interferenze tra l’umano e il bestiale, associate e commiste in maniera diversa. La testa, slargata, arrotondata, ricorda un muso leonino, gli occhi sono sbarrati, lo sguardo è fisso e penetrante, la chioma trattata come una criniera animalesca o irta di serpenti, le orecchie ingrandite, deformate, simili talora ad orecchie bovine; (…) la bocca ghignante, si allarga fino ad occupare tutta l’ampiezza del volto, scoprendo le file di denti (…) questo volto si presenta più come orribile ghigno che come viso.”9
Nel mito di Perseo e Medusa, l’unica Gorgone mortale tra le tre, come racconta Esiodo che la chiama “dal triste destino”10; abitavano in un luogo lontano ed estremo, verso la notte e vicino alle Esperidi e Notte. Era una fanciulla bellissima, punita dalla dea Atena per aver giaciuto con Poseidone in un tempio a lei dedicato, o per la rivalità della dea con la fanciulla in fatto di bellezza. Trasformata in un mostro con capelli di serpenti, era in grado di pietrificare chiunque con lo sguardo. L’eroe Perseo le tagliò la testa dopo aver ricevuto strumenti magici ottenuti dopo il superamento di difficili prove (Graie, Ninfe dello Stige); riuscì a sconfiggerla perché non cedette alla meraviglia del mostruoso, ed usò invece come medium lo scudo a mo’ di specchio, non lasciandosi pietrificare.
Narrativamente antitetica ad Atena, figura frontalmente in molte decorazioni e pitture vascolari arcaiche, è presente sull’egida di Atena e sullo scudo di Agamennone, come attestato da Omero nell’Iliade. Gorgone è in questo, come in altri, contesti, Potenza di Terrore, è mostro e prodigio, ma è un terrore che “non è ‘normale’, non dipende dalla situazione particolare di pericolo in cui ci si può trovare. È il terrore allo stato puro, il Terrore come dimensione del soprannaturale.” (…) è una paura “né seconda né motivata come quella che provocherebbe la coscienza di un pericolo. È prima.”11
È il suono animalesco, gutturale, arcaico, che si lancia verso Perseo prima che l’eroe le tagli la testa con un falcetto, osservando dallo specchio quel volto mostruoso e fascinoso; è lo sguardo e il suono raccontato da Esiodo, che racconta il digrignare dei denti e lo sguardo selvaggio delle Gorgoni12: lo stesso atteggiamento selvaggio del guerriero posseduto dal ménos, il furore in battaglia che precede una carneficina.
“La Gorgone si manifesta come un orrido volto dallo sguardo che pietrifica. Sguardo e volto che non instaurano rapporto di reciprocità con chi la guarda: la Gorgone non scambia lo sguardo, non crea comunicazione perché “non è un altro”. (…) Non è un diverso, che abbia perciò con il mio sguardo e il mio volto una relazione comunicativa, un proprio logos da scambiare, ma un non-sguardo, e un non-logos estremizzato nel digrigno spettrale dei denti, nel rombo alogico delle mascelle che non articolano parole ma versi, che mi duplica nel momento in cui mi nega sia come soggetto che guarda sia come oggetto da guardare. La Gorgone è insomma uno specchio dell’alterità totale che mi abita e definisce la mia forma, che è me, e che per un greco è “me nella morte”: il modo di essere più distante da me che tuttavia sia ancora me.”13
Il simbolo dello specchio, speculum, ci rimanda ad un altrove solo nel senso di inconosciuto, è la rivelazione immaginale dove vi si aggiunge il logos speculativo per rendere il dato inconsapevole coscienza, consapevolezza, radicamento nel ‘conosci te stesso’ socratico.
Specchio, speculum, proviene dal latino specere, guardare come pure la radice indoeuropea da cui proviene. Speculare e speculazione hanno stessa radice e stessa derivazione, e stanno ad indicare non solo un guardare, ma un esaminare con attenzione, indagare filosoficamente in senso teoretico. Lo specchio rimanda al logos che vede, indaga dall’alto ed esamina con attenzione teoretica. La Gorgone richiama la morte, ha un non verbale che colpisce immediatamente il nostro immaginale con mostruose sembianze che sembrano avere l’odore rugginoso del tanathos, del regno di Ade tenebroso, il pegno che restituisce per essere vista, poiché incrociare il suo sguardo è come rubare la vista di una dea nuda; e questo può rivelare il suo rapporto con la verità, aletheia, senza velo, il rivelato oltre le apparenze.
La Gorgone irradia emozioni spaventose nell’immediato, ed ha come strumento di intervento nel mondo la sua immagine mostruosa e pietrificante; non ha parole e rende muti e poi raggelati nella pietra. Rende morti, dove la fissità del rigor è data dal persistere nella diadicità anziché nell’accettazione della coesistenza. Io sono, nel profondo, questo e questo, non questo o questo. L’integrazione antitetica all’oppositività. L’Angoscia rende l’io frammentato, il rimettere insieme delle parti è vicenda terrena del viaggio dell’eroe che tende a ricucire con gesti sacri e dolorosi il suo dialogo con i celesti e con gli inferi in attesa di un cenno rivelato che unifichi; perché la Pizia, la pitonessa, il drago, non parla ma accenna.
“Perseo usa lo scudo bronzeo come oggetto di “speculazione”. Cioè rifletto. (…) E nello speculare non si può che specularsi: mi rifletto, scopro che riflettere “sulla” Gorgone è riflettere “la” Gorgone, e poiché non si riflette che il proprio modo di riflettere, la riflessione mi porta a capire-contenere me e la Gorgone come (in) un’unica inseparabile riflessione. Rifletto che sono la Gorgone (me stessa nella morte, cioè la massima distanza che sfida, ma non nega, l’identità), porto alla coscienza, simboleggiata dallo specchio della riflessione, che la Gorgone è un mostro solo se insisto nel vincolo dia-bolico che mi lega a lei. Se la Gorgone credo sia l’assolutamente altro da me, è perché è me in un modo così profondo che è diventato irti conoscibile in quanto è gettato fuori, reso immagine, e diviso. Davanti a questa persuasione non si può che fuggire: infatti la paura, quando non è pietra insensibile, è fuga, in entrambi i casi è divisione senza relazione.”14
L’eroe ha paura ma tende ad avere un rapporto, a fare nékya di questa paura; Perseo non diviene né statua di pietra né fuggiasco, si pone in relazione agendo una decapitazione che risolve il dualismo tramite uno speculum che lo permette; non avesse speculativamente guardato, sarebbe ancora dentro il dia-ballein e non nel sym-ballein.
“Il mito di Perseo ha un impianto iniziatico: racconta la prova di valore che un giovan uomo compì ai margini del mondo, per tornare come uomo adulto e re nella comunità da cui era partito come giovane iniziando”15. La testa di Medusa, da elemento di terrore collettivo diviene strumento magico, risorsa di cui l’eroe si serve per affrontare e sconfiggere i suoi nemici, poiché “solo mostrando la sua testa trasformò in pietra il suo nemico, Polidette re di Serifo, e tutti i suoi convitati che rimasero pietrificati, ciascuno nell’atteggiamento che aveva in quell’istante”16.
In questo doloroso viaggio dell’eroe che tutti compiamo con fattezze speculari e speculative differenti, il nome del mostro animale che frontalmente ci guarda raggelandoci con il suo sguardo posto sotto la chioma di serpi ci offre letture e suggestioni ulteriori che sembrano chiudere il cerchio alla miniera di significati; Medusa, per noi il mostro, significa ‘guardiana’, ‘protettrice’ (dal greco médo, proteggo). Sua caratteristica è lo sguardo, come del drago (derkomai, guardare, darc, vedere,) che paralizzava la sua preda con lo sguardo ed era sempre a guardia di un tesoro o di un luogo sacro.
Ed in questa visione mitico-simbolica risuona anche il thaumazein, quel senso di sbalordimento, di meraviglia misto ad inquietudine dal quale per Aristotele scaturisce il filosofare17, perché “paura e meraviglia sono i due volti della stessa erma, nell’esperienza dell’estasi maniaco-profetica, in quella estatico-poetica, e in quella erotica. (…)” ed il verde cloro era significativamente non solo il “colore della paura, quel chloros verde cloro che sbianca la pelle degli eroi”, ma anche “lo stesso della possessione erotica: tutti si ricordano il «sono più verde dell’erba» di Saffo innamorata18, resa di pietra da una passione medusea, perché si spezza la lingua, gli occhi non vedono niente, rombano le orecchie, sudore inonda la pelle, tremore corre, e «poco lontana da morte sembro a me stessa.»” (…) “Passione d’amore e paura portano vicino alla morte perché portano ai confini dell’io, sono porte alla terribile conoscenza di sé, che è terribile solo per paura dell’io di perdere il profilo della propria imago.”19
Esiste una dialettica rivelata dalla paura, un dialogo magmatico e pulsante tra pericolo e salvezza, una parola non detta che rievoca nel nostro perimetro esistenziale l’ancestrale ed a priori esperienza del numinoso, così come la descrive Rudolf Otto: un mysterium tremendum perché reale ed incontrollabile, ma anche un mysterium fascinans; un mistero che pertanto suscita attrazione e timore nello stesso tempo20. Poiché, come rammentava Jung, “Si va dove si è spaventati” poiché “lì è custodita la radice che chiede di essere integrata”21.
3 G.Semerano, Le origini della cultura europea vol.II, Basi semitiche delle lingue indeuropee, DIZIONARIO DELLA LINGUA GRECA, Firenze, Olschki editore, 1994, pag.71.
4Nicoletta Salomon, ‘Radici antiche della paura’, in «Atque>> n. 23-24, giugno 2001-maggio 2002, pag. 45.
9J.-P. Vernant, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Bologna, 1987, pagg. 39-62.
15G.Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità, Il Mulino, Bologna, 2015, pag.54.
16Ibidem, e Apollodoro, II, 3, 8. Inoltre, acquisì valore apotropaico sia l’immagine frontale di Medusa che il corallo, poiché la leggenda vuole essere nato dal contatto con il sangue di Medusa.
20 Cfr. R.Otto, Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, Brescia, Morcelliana, 2011.
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