La gestalt a orientamento fenomenologico esistenziale e l’uso dei linguaggi artistici come mediatori culturali in contesti internazionali
Abstract
Valentina F. Barlacchi e Pierluca Santoro
Istituto Gestalt Firenze
di Valentina F. Barlacchi – Didatta e Direttrice Didattica IGF
Pubblicato sul Numero 38-39 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
INTRODUZIONE
Per lo sviluppo del progetto di Azioni e Contaminazioni sull’applicazione e ricerca dei linguaggi della mediazione artistica a contesti di relazione di aiuto in Italia e all’estero, sono state molto significative le esperienze di Gestalt Training condotte dal 2009 in Thailandia e Libano da Paolo Quattrini-Psicologo, psicoterapeuta, direttore scientifico IGF, rese possibili per anni grazie a inviti e collaborazioni con Università statali e private in Thailandia e Libano. Questo prezioso patrimonio di esperienze pionieristiche del dott. Paolo Quattrini, che ha aperto strade per scambi personali e professionali con studenti e professori, con il coraggio di incontrare mondi nuovi e sconosciuti, fidandosi della saggezza organismica, è stata la bussola per muoversi come terapeuti in ambienti di grande differenza culturale, almeno a prima vista. Grazie al sodalizio professionale e la successiva amicizia con una professoressa di psicologia thailandese, ha avuto continuità fino ad oggi il progetto di collaborazione formativa con due università thailandesi.
Come Azioni e Contaminazioni, vogliamo qui riportare alcuni punti salienti dell’esperienza di formazione da noi condotta nell’estate 2016 a Bangkok, esponendo alcuni punti fondanti del nostro approccio teorico-pratico in continuo sviluppo, che ci guida nel lavoro terapeutico e di ricerca. I committenti di questa nostra missione di formazione erano un tempio di monaci buddisti insegnanti (il Wat Saket) e un’università per l’educazione che richiedeva seminari per professori e genitori(foundation for special education – Srinakharinwirot University of bangkok).
Le esperienze proposte all’estero da Azioni e Contaminazioni – Istituto Arti e Gestalt per la formazione nella relazione di aiuto attraverso i linguaggi della mediazione artistica, con Valentina F. Barlacchi e Pierluca Santoro, in Thailandia e in Libano nella cornice dell’art-gestalt counselling hanno avuto come impronta comune l’uso della teatroterapia e della foto-videoterapia, intorno a cui si sono usati molti altri linguaggi narrativo-metaforici di espressione del mondo interno, come la voce, il corpo in movimento, il disegno, il collage, la scrittura, lo story-board, la poesia.
La Foto-Videoterapia è principalmente un campo di applicazione della mediazione artistica finalizzato alla facilitazione dei processi narrativi di una persona nell’ambito di una relazione d’aiuto. Originariamente, l’interesse per la fotografia in ambito clinico nasce con la psicoanalisi che, interessata soprattutto al portato inconscio dei valori generazionali della fotografia di famiglia, comincia a portare nel setting terapeutico l’immagine fotografica come stimolo evocatore della storia passata dell’individuo. Questo genere di approccio fototerapeutico, soprattutto nelle circostanze in cui eravamo impossibilitati a chiedere ai partecipanti di portare nel lavoro le foto della loro storia familiare, ci è stato utilissimo nel proporre l’immagine come contenitore qui e ora del vissuto piuttosto che come attivatore di vissuti lì e allora. L’attenzione quindi allo strumento tecnico, l’obiettivo della macchina fotografica, in un paese in cui lo sviluppo tecnologico va di pari passo con il rispetto delle tradizioni, diventa un mezzo di seduzione ludica potentissimo, permettendo il gioco con l’immagine di sé orientato non alla dimensione estetica come comunemente avviene anche nella nostra cultura, bensì alla narrazione e alla costruzione di storie e all’espressione di vissuti emozionali. Per alcuni thailandesi, la dimestichezza poi, non solo con la macchina fotografica, ma anche con il fumetto (Manga ad esempio) e con la rappresentazione grafica, ci ha permesso da un lato di proporre facilmente il lavoro ma anche di co-costruire sequenze narrative espressive dense di vissuti emozionali personali. Il vedersi e il ri-vedersi implica un’attenzione, sempre distratta dal gusto estetico e dall’ovvio imbarazzo, ai dettagli della propria immagine identitaria e che, se ben condotta dall’operatore, può generare infiniti insight emozionali e nuove narrazioni di se stessi. Soprattutto l’uso dell’immagine in diretta, attraverso la video-ripresa e la proiezione su schermo, implica l’apertura di un palco scenico emozionale su se stessi, di un gioco relazionale molto impegnativo tra i partecipanti al gruppo e l’occasione di modificare stereotipie comportamentali (non estetiche) personali che, quando riviste dallo sguardo esterno condiviso, diventano potenti specchi per trasformazioni esistenziali. |
La Teatroterapia. Nell’approccio gestaltico, esistenzialista e fenomenologico, la messa in scena è ricerca di qualità dell’esperienza e quindi della vita, e permette allo sperimentatore di articolare un linguaggio, in questo caso comportamentale, con cui costruire la sua quotidianità relazionale senza essere appesantito dalle coazioni di una comunicazione rimasta a un livello scolastico e generalmente non creativa. Qui il mondo interno si considera una molteplicità, che prende forma come sintomo, compromesso o sintesi a seconda della capacità o meno della persona di creare un contenitore comportamentale con lo spazio necessario per contenere le varie istanze in gioco: la ricerca e la sperimentazione si muovono così su un piano che ha funzionalità psichica, quella di contenere appunto più spinte emozionali contemporanee, e allo stesso tempo cerca valore attraverso il processo creativo, muovendosi verso sintesi etico estetiche che portano qualità nella vita. (…) Si tratta di una ricerca comportamentale che non è indirizzata alla scoperta di una verità (il comportamento giusto, adatto, sano, ecc.) ma al rivelarsi della multiformità della realtà, che in questo modo appare agli esseri umani come una molteplicità di forme, di cui ognuno può disporre a suo piacere per costruire frasi comportamentali funzionali a un’espressività soddisfacente ed eventualmente dotate di valore etico, secondo le intenzioni della persona stessa. (…) Lo psicoterapeuta aiuta le persone a trovare una vita di qualità, e la drammatizzazione è una maniera di sperimentare: la persona mette in scena ciò che non gli è piaciuto nella vita, e sperimenta come avrebbe potuto fare altrimenti. Serve pazienza e coraggio, e anche gli altri, perché non si può fare drammatizzare da soli, o se si può, con gli altri è più facile. Ci vuole il coraggio di lasciare l’idea che io sono il mio comportamento: gli attori famosi spesso non accettano il ruolo del cattivo, perché vogliono proteggere un’immagine eroica di sé. (…) Il problema è che, per conoscere il sapore di altri comportamenti li si deve sperimentare, e non si può sperimentare in famiglia o a scuola. Con gli amici poi è ancora peggio, gli amici sono quelli che hanno meno pazienza con i comportamenti strani. (…) Un posto dove si esercita la drammatizzazione è la psicoterapia. La gente va in psicoterapia perché ha una vita di poca qualità, e la situazione più tipica è la depressione, che non è semplicemente una mancanza di significato: la persona distingue perfettamente una parete da una porta, ma il problema è che la vita non ha senso, non ha sapore. (Paolo Quattrini-Psicodrammatizzazione) |
Lavorando in paesi di cultura non giudaico-cristiani, molti presupposti riguardo alla cultura sociale, religiosa, ai ruoli di genere cambiano, portando a una diversa modalità di espressione delle emozioni. Pertanto il nostro interesse come gestaltisti, si muove verso la ricerca di un modo di lavorare secondo i principi della Gestalt, in uno spazio di intersezione tra Gestalt e Arte come terapia, individuando alcuni principi di fondo e mettendoli in relazione con il linguaggio della psicologia della forma in Gestalt.
La parola forma assume un ruolo sempre più centrale e ci libera da linguaggi troppo psicologici che diventano facilmente barriere culturali invece di aprire connessioni e scambi con l’altro, che come sempre è altro e diverso, ma cambiando le cornici culturali è ancora più altro.
La domanda a cui l’arte offre molte risposte è: Si può lavorare con persone di altri mondi e culture, che nonostante la globalizzazione, rimangono davvero una diversità con cui entrare in relazione, creando un terreno comune invece di colonizzare con le proprie teorie?
La questione che si poneva in Thailandia era come conciliare le richieste della committenza rispetto ai problemi che i monaci incontravano nel loro lavoro educativo con bambini e adolescenti, con le varie restrizioni espressive imposte dal loro ruolo nella società e dalle basi del buddismo, come vissuto dai monaci.
Man mano che il lavoro progrediva si delineava un filo abbastanza chiaro di intreccio tra il linguaggio della percezione, partendo dalla psicologia della forma secondo Wertheimer e il linguaggio delle strutture dell’arte che possiamo avvicinare come segue:
È stato interessante scoprire come il concetto in uso in Gestalt di trasmissione del sostegno, sia un tema fondante per l’architettura psichica, anche in contesti culturalmente lontani dal nostro.
IL CORPO E LA TRAMA: LO SPAZIO DEL CAMBIAMENTO
A prescindere dalle latitudini del globo in cui come gestaltisti lavoriamo, sempre abbiamo a che fare con esseri umani dotati di un corpo e questo indubbiamente crea una base comune indiscutibile.
Da questo presupposto si può assumere che la relazione con l’altro, indipendentemente dall’appartenenza culturale, si possa muovere a partire dal prendere atto che abbiamo un corpo presente che sente nello spazio in cui vive e agisce.
Da qui parliamo di differenza tra “pensare e sentire”, a partire dal pensare di avere un corpo e sentire di avere un corpo che risponde in modo diverso al vivere nel mondo. E già stiamo dicendo che sentire non è pensare e che sentiamo diversamente a seconda delle situazioni, cioè dei contesti spazio-temporali, che usualmente possiamo riconoscere nella vita come eventi.
Questo significa che in momenti diversi della nostra giornata noi abbiamo un corpo che abita lo spazio in posture diverse, sia fisiche sia psichiche e che per rientrare in una certa atmosfera emotiva dobbiamo tenere conto di come stava il nostro corpo, di quali segnali mandava nell’episodio specifico.
Il corpo può essere coperto, velato, assoggettato alle leggi della cultura e ai suoi tabù, ma in ogni caso sente e respira e ha organi di senso, finestre aperte sul mondo. Su questa esperienza possiamo fondare un primo passo, dal pensare, al sentire, alla trasmissione del sostegno del mondo psichico.
IL LAVORO “NEL CORPO” COME LUOGO DI SCENA DEI VISSUTI: TRA BLOCCO E FLUSSO
In psicoterapia della Gestalt il corpo è il luogo, la scena dei vissuti dell’intera vita, è il testimone delle vicende che la persona ha passato nello scorrere della sua esistenza e che non ricorda più, avendo spesso dimenticato l’origine e le connessioni tra certe immagini e certe emozioni che tutt’ora sono vive come fossero capitate ieri.
Il corpo è spesso al contrario, visto e vissuto dalle persone come un oggetto, separato da Io, invece che come un Io-corpo, imprescindibile dai pensieri, emozioni, accadimenti interni di Io.
Il corpo sente, percepisce, ricorda e testimonia nella sua struttura i passaggi che hanno composto la trama esistenziale della persona, con i conflitti irrisolti, le zone di apertura e chiusura, quelle di tensione cronica, con il ritmo del respiro e la mobilità o poca mobilità di certe parti del corpo come il bacino, le spalle, la colonna vertebrale.
Non è raro che anche chi studia psicoterapia della gestalt sia poco familiare con il proprio corpo. E’ infatti sede di conflitti spesso così stratificati nel tempo da ritenerli come una dotazione naturale e immodificabile della propria persona. Le persone pensano che sia il corpo ad avere certi blocchi muscolari e quindi energetici, non che siamo noi a fare questo al corpo. E’ molto diverso immaginare che il mio corpo sia teso, o che io tendo il mio corpo. In un caso diventa estraneo, nell’altro inizia un dialogo e una possibilità di fare qualcosa di diverso piuttosto che tendere ogni momento della mia vita le mie spalle fino a procurarmi una tensione cronica che nemmeno si fa più sentire con dolorosità perché il corpo compensa e cerca di ristabilire un equilibrio funzionale.
Le zone del corpo che diventano silenti, possiamo immaginarle come stanze chiuse della nostra casa, stanze dimenticate, che non sono abitate e quindi non offrono la loro specifica qualità funzionale.
Perls diceva che le emozioni funzionano come gli arti, se il mio braccio non posso estenderlo, non potrà svolgere la sua funzione massima, ma solo parziale, e così un’emozione, se non posso esprimerla, non potrà svolgere la sua funzione di muovere all’azione la persona rispetto ad un bisogno emergente.
Da un punto di vista strutturale una tensione muscolare è il risultato di due forze contrastanti, una che tira in una direzione e l’altra che tira in quella opposta; il risultato è il blocco energetico e funzionale in termini di limitazione di movimento e di blocco della catena muscolare di cui fa parte.
In certi casi è espressione metaforica di un conflitto tra polarità interne. Un blocco alle spalle mi può precludere la possibilità di estendere le braccia e di avere la forza di compiere azioni come spingere fuori ad esempio, e la domanda potrebbe essere: quale è l’intenzione dell’azione che compio nel tendere tanto le spalle? Si tratta certamente di un’emozione diversa che si oppone a quell’aggressività necessaria ad allontanare qualcosa di indesiderato dal proprio spazio personale, come sostiene Kepner in Body Process -Il lavoro con il corpo in psicoterapia. Spesso è la paura che una tale azione abbia come conseguenza la rottura del legame amoroso, a vari livelli della relazione. Il blocco diventa quindi un libro che può essere aperto e sfogliato rivelando una trama sensata per la persona, per quanto paralizzante. Cioè le due forze si paralizzano a vicenda, creando un sintomo, invece di dialogare verso una sintesi creativa.
Questo tipo di blocchi ha per la persona una trama che per lo più si configura come una descrizione di eventi, ossia una verità storica, che, se separata dal vissuto personale, a volte non è di molto aiuto per trovare una via d’uscita creativa. spostando invece l’attenzione dall’evento al vissuto, e quindi costruendo una narrazione in cui la verità perde di peso semantico in favore di una evocazione emozionale più partecipata (una verità narrativa quindi), le possibili trasformazioni del blocco diventano pressoché infinte.
E qui si apre la questione della trasmissione del sostegno in Gestalt.
Per esempio, da un punto di vista posturale se una persona è disallineata rispetto al suo centro svilupperà una serie di difficoltà motorie e di dolori articolari, scaricando il peso in maniera non funzionale, per esempio sull’esterno dei piedi invece che su tutta la pianta del piede, oppure sull’interno delle ginocchia in caso opposto.
LA TRASMISSIONE DEL SOSTEGNO:
PER UN’ARCHITETTURA INTERNA VERSO NUOVE TRAME NARRATIVE
In Gestalt si parla di trasmissione del sostengo facendo riferimento alla struttura interna che emozioni e pensieri creano nell’edificio del mondo psichico interno.
Affinché la struttura abbia solidità, deve essere costruita secondo precise regole di posizionamento delle singole parti in modo che il peso sia scaricato a terra e la struttura per quanto grande, sia solida. Questo ha a che fare con il rispetto della logica emozionale, che dice per esempio che un’emozione può manifestare la sua funzione di promuovere cambiamento, solo se viene espressa, altrimenti la sua forza energetica troverà altre vie con cui retroflettere la sua carica, che non sparisce, ma cambia direzione.
Le emozioni hanno anche altre leggi: per esempio per mandare via la paura devo imparare a rassicurare, ma non come le mamme che ripetono “non ti preoccupare non è niente, non succede niente”, negando che il bambino senta davvero un pericolo, ma con la consapevolezza dei pericoli e insegnando ad usare le armi adeguate per difendersi. In certi casi, su un piano emozionale, rassicurarsi implica il permesso di accedere alla propria aggressività e rabbia per difendersi una volta valutata l’entità del pericolo. E’ chiaro che se la persona non si può permettere la rabbia perché non era accettata in famiglia, come potrebbe separarsi dalla paura e dalla visione di un mondo pieno di pericoli vaghi e indistinti?
Per costruire una casa interna solida bisogna potersi permettere di ricostruire delle fondamenta che in alcuni casi non erano tanto solide o mancano proprio su alcuni lati. Per esempio accorgersi che l’espressione della rabbia non è stata possibile nell’infanzia, non è stata né insegnata, né permessa. E quindi la si può imparare a esprimere e gestire ora da adulti, in un percorso di psicoterapia.
La trasmissione del sostegno ha a che fare con la consequenzialità delle emozioni, ma anche con cosa si pensa e ci si racconta di ciò che si sente. Una paura può diventare una vera e propria paralisi a seconda della propria narrazione interna. La stessa paura può cambiare completamente volto e muovere la persona in direzioni diverse dalla paralisi, se la trama narrativa all’interno della quale è sostenuta, cambia.
Questo è il passaggio da una verità storica ad una verità narrativa. La prima riguarda i fatti, almeno quelli che la memoria ha registrato, la seconda riguarda il vissuto intrecciato a quei fatti e questa origina una trama nella trama. O meglio a partire dallo stesso frammento di memoria possono emergere trame di verità narrativa completamente diverse, più funzionali al movimento trasformativo della persona. Il passaggio da una verità narrativa all’altra non è arbitrario, né buonista, in questo caso non sarebbe in grado di promuovere un cambiamento di stato emotivo e cognitivo nella persona, rispetto ad emozioni che sono a volte vive, come se l’evento fosse appena accaduto.
La trasformazione della trama si rende possibile a partire da una diversa trasmissione del sostegno.
Cioè nasce e si sviluppa dall’ascolto delle emozioni visibili e invisibili e dalle immagini che ne scaturiscono, dando origine, in una prospettiva circolare, a nuove emozioni, sensazioni, movimenti del corpo. Questo circolo mentre si ripete, va ampliando il panorama del vissuto personale rispetto all’evento e crea connessioni prima inesistenti, per la mancanza di memoria e per la presenza di un primo piano fisso, che offusca completamente lo sfondo. Lo sfondo è quello spazio da cui affiorano i bisogni e i desideri che non si vedono e che possono cominciare a interloquire con il primo piano, aggiungendosi alla narrazione. In questo procedere per aggiunte l’emozione cristallizzata in primo piano si trova ad essere parte di una trama più ampia, più articolata, in cui ci sono altre emozioni che creano la base narrativa per l’ingresso di altri personaggi e nuovi intrecci e finali della storia. Cioè la narrazione non è più subita inesorabilmente e in modo immobile dal corpo del narrante/paziente, ma diventa una co-costruzione attiva tra paziente e terapeuta e successivamente tra la persona e se stessa.
LA VIA DELL’ESPRESSIONE EMOZIONALE: TRA ESPRIMERE E AGIRE
I committenti di questa missione di formazione a Bangkok erano un tempio di monaci buddisti insegnanti e un’università per l’educazione che richiedeva seminari per professori e genitori.
Se pensare e agire, come prerogative dell’umano, possono essere letti e interpretati differentemente nelle diverse culture di riferimento in quanto direttamente interconnessi con la cultura, l’educazione e l’organizzazione sociale, il sentire ha come prerogativa fondamentale la sua omogeneità a tutte le latitudini geografiche ed esistenziali. Almeno per quanto riguarda la sua qualità. La qualità del sentire infatti, sintetizzabile nelle emozioni e quindi nelle sensazioni corporee (rabbia, paura, tristezza, disgusto, gioia ecc, a parte i loro gradi di intensità e la loro manifestazione, ma solo nella percezione interna), è la stessa per ogni essere umano preso in senso astratto e avulso dalla contestualizzazione dell’esperienza che sta vivendo. Il senso profondo della psicoterapia della Gestalt che ha come obiettivo e metodo quello proprio di rintracciare il sentire nella narrazione dialogica dell’esperienza, trova però, come in tutti gli approcci transculturali, la difficoltà maggiore nel passaggio dall’osservazione fenomenologica delle manifestazioni verbali e non verbali a quella propria dell’espressione, sia essa verbale, per ragioni ovviamente linguistiche, sia corporea per ragioni culturali. Uno dei punti fondamentali del lavoro che si è cercato di proporre in Thailandia è stato quindi quello di osservare come esprimere e agire le emozioni avessero un senso specifico e diverso rispetto a quello che comunemente, nella pratica clinica e formativa, riscontriamo in Italia.
Partendo dal presupposto che esprimere e agire le emozioni, anche in Italia, spesso sono vittime di un fraintendimento sia linguistico che comportamentale dato dalla mancata attenzione che si dà al concetto di responsabilità individuale del vissuto, l’obiettivo del lavoro proposto era capire quanto spazio relazionale ci fosse, anche nel contesto thailandese, per la comprensione di tale differenza, e quanto utile o meno potesse diventare porla come base di lavoro per la risoluzione dei conflitti.
Anche in Italia, molto di frequente, la differenza tra esprimere e agire un’emozione non è chiara e viene spesso messa sullo sfondo di un più generico “essere spontanei”. Tralasciando per un istante il concetto di spontaneità che non è al centro di questa discussione, il lavoro terapeutico di tipo gestaltico centrato sull’assumersi la responsabilità del proprio vissuto da parte dell’individuo incontra spesso l’equivoco linguistico che ad esempio è insito in espressioni del tipo “mi fai arrabbiare” e “io mi arrabbio quando tu…”, delineando evidentemente la suddetta differenza in cui nel primo caso l’esempio traduce un’emozione “agita” e nel secondo una “espressa”. Qual è questa differenza? Che nel primo caso l’emozione viene proiettata sull’altro come se fosse il reale soggetto responsabile del vissuto, la “causa” di quell’emozione, mentre nel secondo è il soggetto che si fa responsabile di tale emozione, la esprime, ma non la proietta sull’altro strumentalizzandolo bensì solo rendendolo partecipe. L’assumersi la responsabilità del proprio vissuto è quindi uno degli obiettivi primari, in un percorso di crescita, che permette la creazione di un contesto relazionale ed esperienziale all’interno del quale poter agevolare il cambiamento. Se così non fosse, l’operatore della relazione d’aiuto sarebbe impossibilitato a rendersi soggetto responsabile, lui stesso, di un processo di crescita finalizzato all’aiutare all’aiutarsi (che è la base sia del Counselling gestaltico che della psicoterapia).
Partendo da queste considerazioni, il lavoro svolto in Thailandia, soprattutto quello con i monaci ma anche quello svolto con i genitori e con gli educatori, ha trovato un ostacolo multidimensionale: ad un livello infatti la differenza concettuale tra esprimere e agire esattamente come in Italia e in aggiunta alle difficoltà linguistiche, ad un altro la funzionalità e l’accettabilità intrinseche all’espressione delle emozioni date dalla cultura buddhista e dalla tradizione nazionale. Se infatti da un lato abbiamo potuto riscontare un’apertura senza pari all’apprendimento concettuale e una disponibilità completa all’accettazione delle proposte teoriche, sul piano concreto ed esperienziale ci siamo imbattuti inizialmente nella dichiarata impossibilità (per i monaci) o estremo imbarazzo (per i laici) a considerare le emozioni tout court come possibilità di veicoli comunicativi. Siano esse espresse o agite senza differenza. Sbagliato, nella cultura buddhista, è proprio sentirle certe emozioni (in particolar modo la rabbia) in quanto evidenze di “attaccamento” non risolto all’esistenza materiale, se non addirittura, come riscontrato in alcuni casi, in quanto risultato di karma negativi e riflessi di vite passate condotte in modo inappropriato.
Il lavoro quindi, trovata comunque l’apertura necessaria al mettersi in gioco e ad imparare, caratteristiche anch’esse molto profonde e ben gradite da parte nostra nella cultura thailandese, è stato il tentativo di far passare il concetto che la risoluzione dei problemi relazionali possa avere come uno strumento possibile l’espressione delle emozioni e che, giuste o sbagliate che sia il provarle, quando vengono agite anche inconsapevolmente provocano un blocco e una resistenza al cambiamento. Avendo avuto a che fare soprattutto con insegnanti infatti, sia monaci che laici, la necessità di un cambiamento nella didattica appariva come prioritaria nella condivisione delle pratiche dell’insegnamento, e ci è sembrato utile impostare le fasi del lavoro partendo direttamente da esperienze e strumenti espressivi anziché da difficili spiegazioni di tipo teorico..
L’USO DELLA DRAMMATERAPIA COME RICERCA DI UN’ARTE DEL COMPORTAMENTO
Il monaco e la rabbia
Un esempio piuttosto chiaro è avvenuto facendo formazione con i monaci, tutti insegnanti e educatori con bambini e adolescenti. La richiesta formativa era centrata su come sviluppare nuove forme di comunicazione e gestione dei conflitti con i loro allievi e le loro frequenti manifestazioni di aggressività e opposizione, che mettevano gli educatori a dura prova. Il tema più frequente riguardava l’espressione della rabbia, che a un monaco non è permessa in modo plateale, dovendo rispettare una forma data dal ruolo che riveste nella società. La ricerca di come esprimere questa emozione difficile era un passaggio sentito come importante da molti monaci, per poter trovare una forma di relazione con i bambini, anche quando il loro comportamento li esasperava. In particolare un monaco riportava che la rabbia sentita, ma non espressa, gli ostacolava una relazione fluida e creativa con gli allievi e d’altra parte gli era impossibile negarsela e ignorarla.
Attraverso il lavoro di drammatizzazione, come imitazione di una modalità espressiva proposta da me conduttrice, la sua aggressività era diventata un’amplificazione intensa ma giocosa con la mimica e le parole: “E ora vi mangio tutti”. Il risultato della sua espressione rabbiosa era soddisfacente per tutto il pubblico dei monaci, che non percependolo realmente minaccioso, ridevano divertiti.
Ma questa modalità era per il monaco culturalmente connotata come italiana, e alla fine della giornata si è avvicinato e ci ha detto che nel suo ruolo non avrebbe mai potuto fare questo davanti ai bambini.
Nei giorni successivi, durante una drammatizzazione è emersa da parte del gruppo di monaci, un’espressione della rabbia senza parole, ma con il suono, come fossero dei gatti quando manifestano il loro disaccordo con suoni e soffi!
Avevano trovato una modalità assolutamente più congrua alla loro cultura, che svolgeva proprio la funzione di trasmissione del sostegno, permettendo alla storia di continuare a svolgersi in modo creativo, a partire da quel tassello emozionale, ora espresso in un modo per loro soddisfacente. La proposta iniziale, lontano dall’essere un modello da seguire, aveva innescato un dialogo.
La trasmissione del sostegno può quindi rispondere alla domanda: dove e come ti appoggi per poterti muovere verso un’azione di cambiamento?
Se la trasmissione è buona, le scelte dei comportamenti si appoggeranno su pensieri e emozioni che possano rispondere a bisogni dell’organismo e non solo a quelli di Io.
Di una cosa possiamo esser certi: che in qualunque cultura il narcisismo esiste e le scelte personali quasi sempre possono soddisfare maggiormente i bisogni narcisistici a scapito di quelli dell’organismo. La possibilità derivante dalla dialettizzazione di tali bisogni è quella di trovare una sintesi tra gli uni e gli altri.
Il tema dello sguardo dell’altro, come giudizio e misura di approvazione è trasversale alle culture e lo troviamo sia nel nostro mondo giudaico-cristiano, sia in quello islamico, sia in quello buddista, seppur declinato in maniera diversa. Gli esseri umani si trovano sempre a combattere tra bisogni di forma e di essenza. Le due cose vanno insieme, ogni essenza ha bisogno di prendere una forma, ma senza l’essenza la forma si svuota di senso e la vita risulta insoddisfacente.
Nelle esperienze fatte con gli insegnanti e i genitori in Thailandia, dalle loro parole emergeva più volte il piacere profondo che avevano nell’entrare in contatto con i loro bisogni, di ascoltarsi in quelle parti di sé per lo più ignorate, in favore di una rigorosa aderenza al dovere lavorativo come educatori o altro, o come genitori. Questo ascolto di una parte più intima e nascosta permetteva l’emergere del loro sentire, del riconoscere le loro emozioni e di scoprire di avere una base su cui potersi appoggiare per immaginare un cambiamento a quel senso di costrizione asfissiante in cui si può trasformare la vita.
In due modi diversi sia in Thailandia, sia in Libano, sia in Italia, lo sguardo sociale sulla vita del singolo assume un peso rilevante e la vita dell’individuo in quanto tale, con le sue scelte, le sue inclinazioni, rischia di andare sullo sfondo.
Il processo creativo, a cui la Gestalt invita attraverso la mediazione artistica, ha come primo effetto quello di richiamare la persona a sé, al proprio sentire, all’ascolto della parte destra del cervello.
La trasmissione del sostegno fisico e psichico si attiva dirigendo l’attenzione al proprio corpo, e da cui può cominciare un viaggio attraverso il respiro, le emozioni, le sensazioni, i movimenti, i suoni, fino a risalire alle immagini e ai pensieri connessi. Questi canali di “contatto” sono la base comune del lavoro personale in gruppo con la teatro terapia e foto-video terapia.
IL CONFLITTO EMOZIONALE COME MOTORE DEL “GIOCO TEATRALE CREATIVO”
La mamma e la paura
Lavorare a partire dalla trasmissione del sostegno permetteva di seguire un filo che riconnetteva il pensiero conflittuale, problematico della persona, con la sua esperienza corporea e emozionale, per arrivare a lavorare con le polarità in un gioco di messa in scena teatrale.
Una madre diceva di amare troppo suo figlio e si lamentava del fatto che il figlio adolescente non le parlasse più, e che la evitasse. Entrare nei panni del figlio e sperimentare su di sé l’esperienza fisica dell’effetto che la sua modalità di esprimere amore faceva sul ragazzo, le ha permesso di includere anche il senso di oppressione che il figlio sentiva con la sua preoccupazione di perderlo vedendolo crescere. L’intenzione rimane quella di avere un legame stretto con il figlio, ma se ripristina questa connessione interna, l’architettura dovrà trovare un altro appoggio che non sia solo la paura di perderlo, ma anche il piacere di vederlo crescere come essere indipendente e gioire per aver cresciuto un individuo capace di autonomia.
Per muovere il punto di incastro tra emozioni e intenzioni in conflitto bisogna sentirsi sufficientemente al sicuro per poter vedere un panorama più ampio che contenga sia la paura, sia nuovi orizzonti e l’intenzione può nascere come conseguenza naturale del gioco!
L’essere umano è per sua natura giocoso e il gioco è divertente se ha uno scopo, un’intenzione e delle regole, altrimenti ci si annoia. Giocare ad “acchiappino” è divertente perché c’è lo scappare dalla paura di venir presi e questo lo rende divertente da continuare ad aver voglia di giocarci. Giocare è uno stare sul filo continuo tra eccitazione e ansia. Se la mamma entra nel gioco dell’acchiappino con il figlio ed amplifica divertendosi la sua smania di acchiapparlo e immobilizzarlo accanto a sé, accettando anche di perdere, magari si divertiranno insieme, sapendo entrambi che come tutti i giochi si fa “per scherzo” e che lei non potrà immobilizzarlo realmente o almeno non potrà costringerlo a volerle bene. La messa in scena del gioco permette di esplicitare le intenzioni e di essere in due a giocare, ognuno gioca la sua parte.
A questo proposito è interessante il libro di Huizinga “Homo ludens” quando dice che “il gioco si isola dalla vita ordinaria in luogo e durata…Si svolge entro limiti di tempo e di spazio. Ha uno svolgimento proprio e un senso in sé.”
Aggiunge che il gioco fa cultura, una volta che si è giocato permane nel ricordo “come una creazione, un tesoro dello spirito, è tramandato e può essere ripetuto in qualunque momento”, diventa un’azione sacra che può servire la salute del gruppo e che si pone in una dimensione parallela al reale, in una dimensione in cui il reale non è rappresentato solo dai fatti nella loro verità storica, ma assume lo spessore e la trascendenza della verità narrativa, ovvero delle scelte personali, frutto del sentire e dell’immaginare.
Analogamente l’uso delle tecniche teatrali di drammatizzazione in Gestalt fanno “cultura”, perché i nuovi comportamenti che si mettono in scena sono come l’esperienza di un gioco che diventa una cultura condivisa parallela a quella del dovere e della serietà, aprendo quindi uno spazio alla creazione e alla scelta del proprio modo di vivere gli specifici eventi.
LO SPAZIO VUOTO, CREATIVITA’ E L’ANSIA DEL CAOS: DAL DIGITALE ALL’ ANALOGICO
Se assumiamo, come trasversale alle culture degli esseri umani, questo bisogno di giocare e creare uno spazio parallelo ai meri fatti della vita, dove si coltiva e nutre una parte emozionale e immaginativa, allora possiamo parlare di un impulso a dare forma a quello spazio intermedio proprio dell’arte, che sta tra il dentro – spazio del sentire – e il fuori – spazio dell’agire, che Winnicott ha chiamato transizionale, lo spazio dell’espressione, dove dall’infanzia con il gioco, la persona per tutta la vita, quando lo frequenta, mette in connessione in via analogica e metaforica elementi della sua esperienza e conoscenza del mondo, immaginando e creando nuove espressioni di sé e possibili nuovi cammini esistenziali.
Questo introduce il tema del contesto e dei linguaggi dell’arte rispetto alla trasmissione del sostegno.
Il contesto è ciò che in arte possiamo chiamare configurazione/struttura compositiva: insieme di elementi in una data cornice spazio-temporale. Questo concetto della grammatica della percezione lo possiamo mettere in corrispondenza con ciò che in psicologia della forma viene chiamato Struttura compositiva o Effetto composizione che rende possibile passare da una serie di elementi separati tra loro ad una somma delle parti che diventa un intero, trascendendo le singole parti.
Il bisogno di creare ci pone davanti alla questione dello spazio vuoto, non come assenza di vita, ma come spazio che contiene tutte le possibilità, che è crogiuolo di tutte le esperienze vissute, immaginate, sentite e che come un grande lago, ha nelle profondità delle sue acque, molta vita nascosta, solo in attesa di essere richiamata a galla dalla quiete, in un movimento simile al guizzo di un pesce, così come lo sono le libere associazioni nel lago del mondo interno.
In questo senso il vuoto di cui parliamo fa riferimento al vuoto fertile di cui si parla in Gestalt, e al vuoto creativo di cui si parla nelle arti, da fertilizzare con l’intenzione creativa.
Questo passaggio implica il sopportare e accettare l’attraversamento di una fase, in cui non si sa prima che cosa dire, cosa fare e che forma prenderà l’esperienza, sappiamo solo di non sapere, a volte neanche cosa sentiamo. Ci troviamo di fronte alla irrimediabile realtà che Io non esiste, come struttura, ma solo come funzione, che ha una consistenza nella memoria delle esperienze pregresse, ma tutto questo non è sufficiente a tenerlo insieme se non si continua a fertilizzare il vuoto; in cui qualunque realtà si sia vissuta, infatti poco a poco si disferà, lasciandoci in una fase di spaesamento, finché una nuova trama si vada narrando internamente con la storia dei nostri giorni.
Questa fase è generalmente difficile, perché implica un “non fare” che non paralizzi e “un fare” che non interferisca con il processo creativo.
In Thailandia la cultura buddhista aiuta le persone ad una certa familiarità con il vuoto nell’esperienza della meditazione. D’altra parte la difficoltà che incontrano è data paradossalmente dal perseguire il valore del “lasciare andare”, sia emozioni, pensieri e qualunque attaccamento. La creazione richiede un distacco ma anche un’intenzione e questa necessariamente si appoggia sul proprio vissuto, nasce da ciò che c’è e che c’è stato prima in termini di esperienza esistenziale. In altre parole, il contatto con il vuoto ricercato nelle pratiche meditative buddhiste, che rende effettivamente molto alta la qualità di quella che viene chiamatapresenza mentale, non corrisponde conseguentemente al vuoto fertile così come inteso invece in Gestalt e che rende possibile la creatività e l’espressione. Tuttavia, proprio in virtù di quella “presenza mentale”, associabile per via analogica a quella che noi possiamo chiamare consapevolezza, il passaggio alla “responsabilità” dell’azione espressiva e quindi trasformativa dell’esperienza non è stato difficile.
IL CONTATTO ATTRAVERSO I CANALI SENSORIALI
Lavorare con il gruppo facilitando una relazione basata sul sentire, aveva come immediato effetto tra i monaci un ritrovato senso di interesse per il loro mondo interno e per quello degli altri, una vicinanza con altri monaci mai visti prima e vissuta nel gruppo con una certa facilità. La loro voce, l’espressione verbale e non verbale, la mimica e il movimento erano diventati più fluidi, aperti e molto creativi e non ultimo per importanza, fonte di un grande divertimento che nasceva dallo scambiare.
Come insegnano Violet Oacklander e Virginia Satir, le esperienze attraverso i canali sensoriali: vista, olfatto, gusto, odorato, udito sono le prime porte di accesso per riattivare un “contatto” con l’ambiente sano e creativo, tanto per il bambino, quanto per l’adulto, che in seguito a esperienze dolorose nell’arco della vita, tende a chiudere per difesa tali porte della percezione, creando situazioni di blocco.
La grande barriera che i monaci sembrava avessero infranto era quella di una certa fede nel linguaggio digitale come unico ponte di scambio reale con l’altro, mentre il linguaggio analogico apriva le porte alla trascendenza, dal reale/illusorio, al soggettivo e intersoggettivo.
La possibilità di esprimersi in analogico, di mettersi nei gesti e nei suoni di altri empaticamente di esprimersi verbalmente attraverso la metafora, li liberava permettendo una manifestazione di sé più ampia.
Mi sembra interessante che l’effetto di sollievo che loro provavano nell’usare le metafore per esprimersi, era in parte connesso al senso di una realtà e verità dai confini labili e fluttuanti. Così come loro praticano il non attaccamento a pensieri, emozioni e immagini, così la metafora è un veicolo di connessione emotiva tra una sponda e l’altra di se stessi e con l’altro, ma niente più, non assurge ad un ruolo di verità oggettiva. E’ fluida e per sua natura si trasforma in altro, così come il fluire dell’esperienza, non la si cristallizza, non se ne può fare un oggetto venerabile dalla mente, ma rimane morbida come i disegni sulla sabbia in un susseguirsi di forme diverse, come tracce del movimento delle proprie onde interne.
Questo passaggio è stato chiarito con il feedback di uno dei monaci che, parlando di eventi traumatici della sua vita, che aveva cercato di controllare usando il pensiero positivo, si era sentito falso come se stesse indossando una maschera, e questo non lo aveva aiutato al cambiamento interno, seguendo il quale avrebbe avuto bisogno di immergersi passo passo nel movimento delle proprie maree.
Tutti hanno colto il potere di trasformazione e cambiamento personale che scambiare con se stessi e con gli altri porta con sé, attraverso l’espressione delle emozioni e il cambiamento delle proprie forme espressive, cioè l’assunzione di nuovi comportamenti in grado di soddisfare maggiormente l’adattamento all’ambiente e al contesto mutevole.
E’ interessante che il monaco che aveva un problema con la sua rabbia, tanta e difficilmente gestibile nel rapporto con i bambini, abbia notato nei feedback che la tanto avversata rabbia si sarebbe ripresentata e questo era insopprimibile, ma che il vero problema era cosa farne, perché insegnare ai bambini con la rabbia è come gettarla addosso a loro e comporta un effetto boomerang, tornandone indietro comportamenti distruttivi.
L’esperienza riportata da un altro monaco nel riconoscere quanto in genere lui si sentisse autoriferito, era quella di una scoperta importante per sé durante il lavoro, rispetto al piacere di costruirsi nuove capacità di comportamento, per poi agire senza preoccuparsi del risultato in termini di successo e immagine.
SCOMPOSIZIONE E RICOMPOSIZIONE: UNA METODOLOGIA PER L’ADATTAMENTO CREATIVO ALLA VITA QUOTIDIANA VERSO UNA FORMA PIU’ ORGANICA
A questo punto ci possiamo addentrare nel merito della metodologia di lavoro che abbiamo proposto ai gruppi in Thailandia con monaci, genitori e insegnanti e in Libano, con assistenti sociali, psicologi, attori.
In entrambi i casi la metodologia è stata quella della Scomposizione e Ricomposizione, sviluppata e rielaborata da Gianni Capitani, artista, pittore, counsellor, cofondatore e direttore artistico di Azioni e Contaminazioni – Istituto Arti e Gestalt per la formazione alla relazione di aiuto attraverso i linguaggi della mediazione artistica.
Secondo questa metodologia i linguaggi della Foto-Videoterapia e della Drammaterapia hanno guidato le varie tappe del processo invitando i partecipanti a dare una forma ad un loro vissuto conflittuale, per poi passare, attraverso una destrutturazione, a trovarne una nuova.
La destrutturazione è simile ad uno scossone, in cui si accetta di perdere il controllo sul conosciuto e di avventurarsi in nuovi punti di vista.
Senza questa tappa, non ci sarebbe spazio per spostamenti, per nuovi adattamenti creativi. Ha a che fare con il perdere l’illusione che la tessitura di senso con cui si leggono le vicende della nostra vita sia unica e oggettiva.
Immaginiamo come se improvvisamente la storia venisse raccontata da qualcun altro dei presenti alla scena: tutto il racconto cambierebbe. Questo spostamento permette di far emergere nuove connessioni emozionali e di senso, spesso serrate in maglie di interpretazioni deduttive di causa-effetto, non rispondenti alle logiche emozionali ma alle immagini di noi stessi a cui siamo legati narcisisticamente.
Questa nuova configurazione o struttura compositiva, così come la chiamiamo in Gestalt è ciò che il regista Peter Brook nel suo libro “Il punto in movimento”, chiama una “forma organica”, intendendo proprio una forma che non è sovrapposta al materiale a disposizione, ma è il materiale/testo illuminato. Così gli elementi di un contesto con una data cornice spazio-temporale rimangono gli stessi, ma la configurazione/effetto composizione cambia.
L’OPERA COME TRASCENDENZA DA IO E DAI SINGOLI INDIVIDUI
Per fare della nostra vita un’opera d’arte bisogna essere disposti a tollerare una certa dose di caos.
La vera destrutturazione della “figura fissa” che abbiamo in primo piano come narrazione del nostro vissuto è possibile quando passiamo dall’io al noi, sia inteso come pluralità interna, sia come incontro e confronto con gli altri nel caso di un gruppo.
Da qui comincia un cammino di alternanza e dialogo tra un primo piano che tende a immobilizzarsi per ragioni caratteriali e di abitudini e uno sfondo, che tende all’infinito, restituendoci le innumerevoli possibilità esistenziali.
L’approccio al lavoro personale in gruppo di cui stiamo parlando parte da lavori su temi personali, che le persone propongono, per poi attraversare fasi di lavoro collettivo in cui le polarità individuali si orientano verso un’opera di gruppo che trascende i temi personali, inventando delle sintesi che li contengano.
Questo passaggio implica un lavoro con il gruppo come campo, che sceglie di orientare le proprie energie verso una stessa direzione, che offra spazio a tutti e allo stesso tempo trascenda i singoli individui.
PROPOSTA DI UN LABORATORIO IN THAILANDIA
Cercando di sintetizzare i principali passaggi dell’esperienza proposta ai gruppi di monaci e ai gruppi di genitori e insegnanti con cui è stato fatto il lavoro in Thailandia, cercheremo anche di mettere in relazione i principi di entrambi i linguaggi.
Siamo partiti dal proporre ai partecipanti di disporre una serie di foto autobiografiche e costruire intorno a sé includendosi, una forma con un senso rispetto al peso emotivo che ognuna delle immagini aveva, in questo particolare momento della loro vita.
Questo implicava un passaggio dallo sguardo alle evocazioni delle singole foto, ad uno sguardo di insieme alla costellazione delle stesse sul pavimento, che erano state disposte, su nostra indicazione, cercando di mantenere le distanze “affettive” tra di esse e dalla persona che le aveva portate. Le scelte che seguivano quindi un criterio del tutto personale, creavano una configurazione, che per l’effetto composizione assumeva una forma di intero. In questo modo le persone avevano una possibilità di cambiamento in quei mondi sacri e un po’ intoccabili, come in genere sono i ricordi di vita, di famiglia etc, rappresentati dai copioni di vita. Il lavoro in coppie prevedeva l’invito dell’altro a visitare il proprio spazio, la propria configurazione o “casa”, di cui il padrone faceva parte integrante.
Le domande del visitatore ispirate dall’osservazione della disposizione delle foto e di alcuni dettagli portavano ad una ri-narrazione di quella storia.
Già in questo primo passaggio, prima da soli e poi in coppia sperimentavano l’emergere di un ricchissimo materiale personale e, al tempo stesso, una creazione comune alla ricerca di una forma più soddisfacente per la composizione.
Il passo successivo consisteva nell’immaginare la foto mancante che veniva disegnata e inserita nell’insieme cambiandone il peso visivo.
Con i monaci il lavoro ha seguito le seguenti fasi del processo, posto che, in questo caso, nessuno aveva con sé foto di famiglia già stampate e quindi riconducibili alla vita passata:
SCOMPOSIZIONE/TRASFORMAZIONE
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Racconto di una situazione conflittuale
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Disegno della situazione/contesto e dello stato d’animo nella situazione
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Passaggio trasformativo con il passaggio dei disegni e con la contaminazione/aggiunte da parte degli altri componenti del gruppo
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Scelta di un soggetto di gruppo
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Composizione di uno story-board di una storia a partire da elementi comuni che rappresentassero una tematica comune. (Come fumetto)
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Foto mancante- prima attraverso la scultura vivente che poi veniva fotografata (gliela davamo come polaroid) (PASSAGGIO AL DESIDERIO/INTENZIONE CHE FERTILIZZA IL VUOTO)
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La foto mancante diventava parte dello story board
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Messa in scena prima con parole e poi senza
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Creazione di un Video (che comprendeva foto di gruppo con i loro disegni iniziali)
La drammatizzazione si è svolta, in una prima fase usando le parole e in una seconda versione con linguaggio non verbale, in analogico; nella seconda tutti gli aspetti estetici diventavano di maggior rilievo e emergevano tutte le dinamiche della percezione e delle strutture dell’arte. L’espressione era possibile spostando l’attenzione sul senso delle comunicazioni e non sui significati.
La fase del montaggio del video per ciascun gruppo e l’essersi potuti rivedere ha permesso di notare in maniera amplificata quali cambiamenti di comportamento espressivo ognuno fosse riuscito a creare, fuori dal consueto modo di parlare, muovendosi in relazione agli altri. Altro passaggio importante reso possibile dalla proiezione del video consisteva nell’assaporare i vari passaggi del processo, fatti per arrivare a quella creazione; questo significa avere una mappa dell’esperienza ripercorribile in futuro, una prospettiva tangibile delle alternative comportamentali.
Nel processo creativo infatti è importante rispettare una logica organismica che può avvenire solo percorrendo i passi e i tempi del creare, come la trasmissione del sostegno ci indica costruendo ponti e architravi tra emozioni, pensieri e azioni.
L’esperienza si è potuta chiudere per tutti in un modo soddisfacente, aprendo al tempo stesso la curiosità e la disponibilità ad aprire nuovi cicli di esperienze di contatto creativo con gli altri e con se stessi.
Dal punto di vista del ciclo del contatto, così inteso come spirale infinita in cui la relazione tra se stessi e il contatto con il mondo esterno si svolge, la fase del ritiro come chiusura del ciclo della gestalt è importante.
La relazione di aiuto attraverso i linguaggi della mediazione artistica, offre questa possibilità di confrontarsi con il prendersi la responsabilità di mettere un punto, arrivando alla “forma”, “l’opera finita”, almeno per quella fase della creazione.
Come dice Buber in Il principio dialogico: “L’azione comporta un sacrificio e un rischio. Il sacrificio: la possibilità infinita, che è immolata sull’altare della forma; tutto ciò che la prospettiva portava con sé, ancora come un gioco, deve essere cancellato, niente di questo può intromettersi nell’opera (…)
Fare è creare, inventare è trovare. Il dar forma è scoperta. Realizzando, scopro. Conduco la forma al di là – nel mondo dell’esso. L’opera compiuta è cosa tra le cose, come una somma esperibile e descrivibile di qualità. Ma, di volta in volta, può presentarsi, all’osservatore che la accolga, come un corpo vivo.
AMORE, LIBERTÀ E IMMAGINAZIONE
Al termine di questo scritto, chiudiamo con le parole amore, libertà e immaginazione, che racchiudono il senso più intimo di questa ricerca che ci ha fortemente coinvolto come persone e come professionisti. Amore, libertà e immaginazione sono infatti tre elementi che hanno a che fare con la relazione e con la creazione di infiniti mondi abitabili. L’immaginazione, come diceva la Montessori, per sua natura è sensoriale, “l’uomo crea, ma sul modello della creazione divina in cui è materialmente e spiritualmente immerso”.
Buber scrive che “l’amore è tra l’ io e il tu e responsabilità di un io verso un tu, (…) ”.
“Ciò che sta di fronte “si incarna”: il suo corpo emerge dai flutti del presente senza spazio e senza tempo alla riva dell’esistenza”.
A proposito della libertà, scrive Azar Nafisi:
«Mi sono convinta che la vera democrazia non può esistere senza la libertà di immaginazione e il diritto di usufruire liberamente delle opere di fantasia. Per vivere una vita vera, completa, bisogna avere la possibilità di dar forma ed espressione ai propri mondi privati, ai propri sogni, pensieri e desideri; bisogna che il tuo mondo privato possa sempre comunicare col mondo di tutti. Altrimenti come facciamo a sapere che siamo esistiti?». (da Leggere Lolita a Teheran)
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