Appartenenza e amore
Istituto Gestalt Firenze
Di G. Paolo Quattrini
Direttore Scientifico Istituto Gestalt Firenze
Pubblicato sul Numero 37 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Uno degli equivoci più diffusi in tutte le culture è la confusione fra appartenenza e amore: persone che si odiano continuano ad appartenere agli stessi enturages sperando di poter scacciare gli avversari, e solo raramente se ne vanno volontariamente per conto loro abbandonando il gruppo di appartenenza.
Questo fa capire la forza del legame, che se in tanti casi è funzionale alla sopravvivenza, è potente anche quando rappresenta una vera e propria corda al collo. Da un punto di vista biologico è chiaro che questa forza dipende dalla sua distanza dalla coscienza: il legame funziona anche fra gli animali, e quindi non ha a che vedere con la coscienza in senso umano.
Il legame permette la vita in gruppo, cosa che dà molte più chances di sopravvivenza: basta pensare che anche i leoni, che di forza certo non mancano, vivono in gruppo.
Per mantenere il legame di appartenenza bisogna rispettarne i limiti, che in parte coincidono, in parte sono diversi da gruppo a gruppo: se per esempio è sempre vietato uccidere i membri del proprio clan, i precetti religiosi possono cambiare moltissimo, basti pensare a cristiani e islamici. Questo crea una speciale solidità dell’appartenenza, attraverso un mezzo stabile con cui i membri si riconoscono: lo stesso vale per i cognomi, con cui si identificano le famiglie, le quali tramandano e mantengono le proprietà.
Tutto questo a vantaggio di un gruppo e a scapito degli altri, ma così è la sopravvivenza!
Solo col tempo e le vicissitudini religiose e politiche la specie umana ha costituito gruppi di dimensioni nazionali, internazionali e intercontinentali, creando un insieme col nome di “Umanità”
dove tutti almeno sulla carta sono uguali nei diritti, cioè hanno la stessa appartenenza: questo non ha fermato guerre e distruzioni, ma ha cominciato a limitarle.
Se questa è l’appartenenza, cos’è l’amore?
L’amore certamente convive con l’appartenenza, ma questa non lo definisce: in realtà l’amore, come lo spirito, esce da ogni definizione, salvo forse dal termine trascendenza, che a sua volta è indefinibile. L’amore non è una cosa, è un’esperienza, e come tale scorre nel tempo e non è mai uguale a se stesso, ma è sempre differente dal resto: ha tanta buona fama presso l’Umanità per la sua parentela con la felicità. L’amore colora il mondo e gli dà calore, lo tinge di speranza e apre il futuro, è il contrario della depressione, e tutti cercano di averne almeno una piccola parte: si può provare per persone, animali e cose, oltre che, naturalmente, per lo spirito (etica, estetica, logica).
E’ la cosa più semplice e quella più difficile, si alimenta togliendo, non aggiungendo: bisogna lasciare paura, rabbia, frustrazione per fare alzare la fiamma, che cresce con il rilassamento e l’allargamento dell’attenzione. E’ uno stato che i bambini possono avere naturalmente, mentre è molto meno frequente negli adulti, che lo devono ricercare esplicitamente: è a questo verosimilmente che Nietzsche alludeva con la metafora delle tre età dell’uomo, di cui il punto d’arrivo era appunto quella del bambino.
Se ha così buona fama, non è coltivato come sarebbe logico, perché l’amore non serve a niente: si diceva “l’arte per l’arte”, ugualmente l’amore è per l’amore. A differenza dell’appartenenza, non produce beni e non dà potere, per cui viene sempre dopo al resto salvo quando è con-fuso con quella: appartenenza significa invece territorio, che è la fonte della ricchezza.
L’appartenenza dà attaccamento, che viene sbagliato per amore ma non lo è: si tratta solo di legame, cioè del bisogno di una distanza determinata, a prescindere da quello che si svolge in quello spazio, e questo è fonte delle più svariate disavventure nelle famiglie. La famiglia, il clan, il gruppo hanno sempre uno spazio determinato dal legame e quindi limitato, e in quello ci deve entrare quello che c’è, dagli amori ai malumori, e quello che non è permesso deve essere represso: con la conseguenza dell’effetto pentola a pressione, che prima o poi scoppia e crea drammi e tragedie. L’amore, se non serve, per lo meno ammortizza però le tensioni, e forse è anche per questo che l’umanità sopravvive malgrado tutto.
La grande epopea dell’appartenenza è la tragedia greca, dove mariti e mogli, padri e figli si massacrano, malgrado che poi le Erinni, cioè i sensi di colpa, li perseguitano per il resto della vita. I sensi di colpa infatti sono il segno dell’appartenenza: Edipo aveva ucciso un tale per futili motivi prima di entrare in città, ma solo dopo la scoperta che l’ucciso era suo padre viene preso dalle furie, si acceca e va in esilio. Uccidere chi non appartiene al proprio clan è permesso, come si vede nelle guerre.
Appartenenza è possesso, e si sa come questo sia necessario e letale: i tentativi politici di abolire la proprietà hanno avuto esiti bruttissimi e risulta ormai evidente che non sono una strada percorribile. L’evidente alternativa è la limitazione della proprietà a dimensioni indispensabili per il senso personale della vita e non minacciose per gli altri: deve insomma essere un possesso lieve, a cui si può rinunciare prima o poi.
L’alternativa fondamentale al legame come mezzo di unione è l’empatia (l’einfuelung di E. Stein), la capacità di mettersi nei panni dell’altro, che è stata spiegata scientificamente con i neuroni specchio: una parte del cervello è capace di captare i movimenti e di copiarli, inviarli al talamo dove si colorano emotivamente, e riportarli alla consapevolezza dotati di senso, in modo che si percepisce approssimativamente l’intenzionalità dell’interlocutore. E’ evidente la funzionalità di questo dal punto di vista della sopravvivenza: l’amore poi può emergere più facilmente alla coscienza nel caso di un possesso leggero, e renderlo più forte quando si combina con l’empatia.
Per capire il mondo gli esseri umani usano preferenzialmente la via digitale, mentre gli animali, che non hanno quella parte del cervello che è la corteccia, usano necessariamente la via analogica, con cui capiscono esperienzialmente (quello che viene chiamato istinto). L’empatia non funziona con le spiegazioni, funziona per via evocativa (analogica): non è lettura della mente, come si potrebbe equivocare, è semplicemente lasciare che i movimenti dell’altro evochino uno stato emozionale in chi osserva, in modo che “capisce” l’interlocutore per via sensoriale, cioè diretta, senza dover interpretare concettualmente la situazione.
Attraverso l’empatia in un certo senso si diventa l’altro, e quando si è nei suoi panni c’è più facilità a rispettarlo, o comunque a riconoscerlo come parte dello stesso gruppo: il problema è che l’empatia, anche se è naturale, si perde se non viene coltivata, e da adulti è facile rimanere senza. L’educazione dovrebbe avere un peso fondamentale in questo, e nelle scuole si dovrebbe combattere sistematicamente il bullismo con l’empatia, come si fa poi nelle terapie delle classi difficili.
Il peggior nemico dell’empatia è il razionalismo, che funzionando per via digitale, cioè per uguaglianze, procede per deduzioni: l’evocatività, analogica, procede per metafore, cioè per somiglianze, come è evidente nell’arte. L’empatia non risponde a un esame scientifico: in realtà la qualità della vita è dovuta solo in parte alla tecnica e in gran parte all’arte. Le somiglianze sono connessioni scelte, non obbligate: è il libero arbitrio che le assembla, e niente le può “spiegare”. Fra le molte articolazioni possibili fra causa ed effetto c’è infatti il libero arbitrio, che non è una possibilità di scegliere qualunque cosa, ma di prendere una via o un’altra: l’arbitrio si esercita anche fra due sole opzioni, e si chiama libero appunto per il fatto di non essere determinato della catena di cause ed effetti.
Qui la questione diventa complicata: un artista sceglie le combinazioni che vuole, ma non qualunque combinazione va ugualmente bene, e se la scelta è libera il risultato non lo è del tutto. La differenza dal razionalismo è il punto di vista olistico, dove, come dice la matematica insiemistica, il tutto è più della somma delle parti: questo “più” non è determinato dalle parti, in quanto le stesse parti si possono combinare in infiniti insiemi differenti.
In questo infinito si apre il libero arbitrio, che decide la direzione delle scelte: la parte che non si può concettualizzare comincia qui, ed è il tema del valore. La cultura classica riconosceva tre direzioni di valore, etica estetica e logica, ma nella tradizione cristiana questo è stato sostituito da Dio, che rappresenta tutta la positività senza distinzioni. In pratica però è una tradizione appoggiata sull’affermazione biblica “in principio era il verbo”, con la quale la parola si è sostituta all’esperienza: da questo punto in poi l’etica, che è esperienza e non è quindi spiegabile ma solo evocabile, diventa la morale, che può essere disegnata con le parole e verificata digitalmente nel confronto con le tavole della legge, da quelle bibliche ai codici legali moderni.
Questo è fondamentale per il razionalismo che si è imposto da secoli in occidente, la verifica è il sine qua non per l’accreditamento, e tutto quello che non è accreditabile, ad eccezione dell’arte, qui è senza valore: parte del mondo psicologico moderno combatte da molti decenni per il riconoscimento del “sentire” come strumento di conoscenza, indispensabile nell’ambito psichico, dove quello che c’è assomiglia, non è mai uguale al resto, e l’interlocutore si capisce per empatia, la regina delle somiglianze, e non per deduzione, la quale si appoggia su teorie, opinabili, e che è spesso sbagliata.
L’empatia non è verificabile “oggettivamente”, lo è per via intersoggettiva, come indica la fenomenologia: quello che si sente è una verità soggettiva, scambiare con l’interlocutore il proprio sentire porta a una verità intersoggettiva (vero non è quando dico sento questo e quest’altro, vero è che tu rispondi come rispondi quando io dico così, e che io rispondo…eccetera). E’ con questa verità, intersoggettiva e narrativa, che si svolge il processo psicoterapeutico, e secondo i più recenti studi, anche in parte quello medico.
Altro errore da non fare è quello di scambiare l’empatia con la simpatia, una forma leggera di amore: l’empatia è fondamentale nel teatro, dove l’attore può mettere in scena personaggi orribili per cui non ha la minima simpatia. Neanche l’empatia dunque è amore, anche se può sostituire l’appartenenza abbastanza da non costringere la persona all’isolamento.
L’amore resta il mistero che è l’esperienza, che non può essere trasformata in discorso, può essere solo chiamata dalle parole, preferibilmente poetiche: Nietzsche diceva che lo psicologo deve avere orecchie dietro le orecchie, presumibilmente perché mentre con le orecchie ascolta le parole, con le orecchie dietro le orecchie ascolta il posto senza forma d cui vengono, il cosiddetto “ineffabile”.
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