"Ti vedo, ti sento, ti accompagno", in cerca di risposte nell’esserci empatico
di Sergio Mazzei
Direttore dell’Istituto Gestalt e Body Work
Pubblicato sul numero 16 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling e Fenomenologia
“Avete coraggio, fratelli miei? … Non il coraggio al cospetto dei testimoni, ma il coraggio dell’anacoreta e dell’aquila, che nemmeno un Dio vede più? … Ha cuore chi conosce la paura, ma lavince; chi vede l’abisso, ma con orgoglio. Chi vede l’abisso, ma con occhi d’aquila, – chi con artigli d’aquila afferra l’abisso: quegli ha coraggio”
Negli ultimi cinquanta anni abbiamo visto un fiorire sulla scena della psicoterapia d’innumerevoli metodi per aiutare le persone con sofferenze psicologiche. Affiancandosi alla tradizionale psicoanalisi freudiana e al comportamentismo di Pavlov e Skinner sono apparse, negli anni ’60 e ’70, la terapia della famiglia di Whitaker, lo psicodramma di Moreno, l’analisi transazionale di Berne, la Gestalt Therapy di Perls, e molte altre geniali risposte al disagio psicologico dell’umanità. Tutti questi approcci, insieme a molti altri, oltre che mobilitare le risorse degli individui alla risoluzione dei problemi legati alla sfera intrapsichica e a quella interpersonale, hanno anche concretamente messo in primo piano l’influenza dell’ambiente nella formazione e quindi come causa di tanti disturbi psichici e della relazione. Ponendosi inoltre come metodo di cura alternativo, superando la storica posizione a orientamento biologico che faceva derivare le problematiche psicologiche da cause prevalentemente organiche curabili con l’esclusiva assunzione di rimedi o psicofarmaci, hanno tutte posto l’accento sull’importanza della relazione e del contatto umano come vero e proprio principio terapeutico fondamentale.
Suzuki, nel suo importante lavoro “Psicoanalisi e Buddhismo Zen” , che ha fatto tra i primi da ponte tra la cultura occidentale e quella dell’Oriente, disse che uno degli assunti della filosofia Zen, come peraltro della psicoterapia gestaltica, è che se vuoi conoscere qualcosa o qualcuno, devi diventare quello. Se vuoi conoscere una rosa, egli diceva, devi essere quella rosa e se vuoi conoscere una persona, devi divenire quella persona. L’identificazione dunque una la via per entrare in contatto dall’interno con qualcun altro, per conoscere il suo essere ciò che è, il suo sentire e il suo pensare. Entrare in contatto e identificarsi non vuol dire conversare o discutere con qualcuno ma piuttosto fare del proprio meglio per sperimentare la realtà dell’altra persona dal suo interno. Significa cercare di sentire e ragionare come lui anche se naturalmente ciò non implica il condividerne i punti di vista o le conclusioni sulle cose o sulla vita. Identificarsi non è perdere se stessi e la propria soggettività.
VERO O FALSO?
A mio avviso nella pratica psicoterapeutica o in generale nelle professioni di relazione d’aiuto, non è così importante “chi ha ragione e chi ha torto”, in ciò che il paziente (o cliente) racconta di sé e del suo mondo. Non è così fondamentale che egli abbia una corretta percezione degli eventi che lo riguardano. Anche se avesse “torto”, o in altre parole che nulla di ciò che afferma corrispondesse al vero, non sarebbe poi così importante investigare per stabilire la verità sui fatti ai quali attribuisce la causa delle sue difficoltà. Non si tratta di un “processo” in cui devono essere imputate assoluzioni e colpe. Ciò che credo invece vada fatto è piuttosto aiutare il paziente a mettere a fuoco la sua visione delle cose, aiutarlo a capire chi egli è e cosa gli va, a conoscere la propria verità soggettiva, il suo modo di essere quel che è, rendersi conto della percezione di sé e delle persone con cui è in rapporto. Si deve aiutarlo a divenire più consapevole del suo “mondo vissuto” (Lebenswelt).
Il punto di vista della new epistemology, come ho voluto evidenziare in un mio precedente scritto, è, di fatto, che “la conoscenza è una funzione dell’osservatore e del contesto e dipende più dall’idea che si ha del mondo piuttosto che dal mondo stesso” . Tenendo quindi presente questa incertezza che ci impone una certa umiltà per non giudicare troppo frettolosamente, credo che anche la psicoterapia non debba occuparsi di “verità accertate” (se anche esistono) ma semmai dei “punti di vista” soggettivi e di come aiutare qualcuno a trovare serenità ed equilibrio nonostante la propria relatività percettiva ed eventuale limitazione di vedute. D’altra parte, come si dice, se ti trovi in una casa avvolto dalle fiamme, reali o immaginarie che siano, in quel momento non ti devi fare molte domande sulle cause dell’incendio o se stai solo sognando, ma devi solo chiederti come uscirne.
COME?
Voglio esprimere ora il mio punto di vista su “come” lavorare con la percezione reale o distorta del paziente, su come esplorare e conoscere la sua visione delle cose e promuovere l’organizzazione della sua “respons-ability”. In che modo possiamo raggiungere veramente un altro essere umano, collaborare con lui e aiutarlo a diminuire il peso dei suoi affanni?
Per quanto sia convinto dell’importanza che possono avere nella personalità del terapeuta fattori quali la creatività, l’umorismo, la fantasia, l’apertura, la generosità, l’intelligenza e molti altri ancora, oltre naturalmente all’esperienza, cultura e competenza professionale, io personalmentepongo l’accento prima di tutto sull’importanza della sensibilità empatica, dell’accoglienza e della capacità di sostenere l’impatto emotivo del paziente mantenendo e trasmettendo un’adeguata capacità di distacco, che non è indifferenza, ma un punto di equilibrio intorno al quale “si può parlare di qualsiasi cosa”, come aspetti fondamentali che concorrono al buon fine di un processo terapeutico.
In principio nella relazione terapeutica è molto importante vedere l’individuo nel suo insieme, nella sua “forma”, sentirne la presenza ovvero percepirne la gestalt, e concentrarsi su questi suoi aspetti della personalità piuttosto che sull’esame del contenuto delle sue parole o del suo racconto. Dice Petruska Clarkson : “Lo scopo dell’approccio della Gestalt è di far scoprire, esplorare e sperimentare alla persona la sua propria forma, il suo modello e la sua interezza”. Per realizzare quest’obiettivo è prioritario “rimanere con lui”, “essere con lui nel suo essere con te”.
L’accoglienza non è certo qualcosa che si “fa” ma piuttosto che si “ha”. O sei accogliente o non lo sei. Ottengo spesso risultati molto più soddisfacenti quando esprimo la mia comprensione e solidarietà sulle paure e angosce dei miei pazienti piuttosto che quando gli interpreto o spiego le ragioni o cause della loro esistenza. Il primo tra i più importanti e fondamentali momenti del lavoro, la posa della prima pietra che influenzerà il processo di lì a venireè pertanto la realizzazione di un buon contatto con il paziente e dunque la costituzione di una tacita alleanza terapeutica.
S’incomincia a vedere e sentire il proprio paziente e a fargli compagnia, gli si sta vicino nella sua discesa entro se stesso, nell’esplorazione del suo mondo. “Vedere” è percepire con il proprioocchio empatico, un occhio che coglie il dolore nelle sfumature della postura corporea, dell’espressione del viso, degli atteggiamenti e movimenti in rapporto alle vicende che narra. E’ un vedere partecipativo in cui non si è neutrali e distaccati, ma si sente e si soffre insieme al paziente. Altrettanto “sentire” è un sentire con il proprio orecchio empatico, che coglie le sfumature ed esitazioni della voce, le emozioni che le accompagnano o che sono assenti. Si cerca di stare attenti e presenti e in tal modo si possono captare attraverso il tono e le inflessioni della voce, le situazioni e la natura delle circostanze che gravitano intorno al paziente. Si può, infatti, “vedere” anche attraverso il “sentire” come del resto si può “sentire” attraverso il “vedere”.
Con quest’atteggiamento presente e di alleanza partecipativa si va con il paziente, si accompagna ovunque egli proponga o ove ci sia un’indicazione, una “freccia”, per usare l’espressione di Erving Polster , che indichi una direzione che abbia un senso. Si è attivi nell’osservazione di tutto ciò che si manifesta. Tutto ciò naturalmente comporta e presuppone lo sviluppo di una buona e stabile fiducia da parte del paziente nei nostri confronti.
“Tale stabilità non è realizzabile attraverso un semplice processo cognitivo di comprensione delle cause del suo disturbo ma solo ed esclusivamente attraverso una relazione significativa ed empatica con un’altra persona, simile a quella agognata nelle prime relazioni d’oggetto. Nell’approccio empatico si trasmette accettazione e comprensione profonda per le difficoltà del paziente.”
IL DASEIN
Vorrei ora porre l’accento su alcuni aspetti dell’approccio empatico nelle relazioni d’aiuto a orientamento fenomenologico – esistenziale che considero particolarmente importanti:
In primo luogo, come ho già detto l’importanza dell’“esserci” nella relazione. Esserci come “essere umano” che sente e sperimenta, e parte del campo e in contatto con la situazione, con attenzione e presenza, e non certo come “il morto a bridge” per usare l’espressione di Lacan riguardo alla posizione che l’analista dovrebbe assumere. Un esserci in senso ontologico, dal grecoon, “che è“, e che esprime la fondamentale autoaffermazione di un essere nella sua semplice esistenza. E’ l’esserci nel senso del Dasein di Heidegger o in altre parole “che si realizza nell’esserci, nell’essere con l’altro, nello stare nel mondo”.
Sappiamo che l’essere umano è per sua natura “unico” e non paragonabile a nessun altro o ad alcun’altra cosa e pertanto non possiamo generalizzarne la sua intima esperienza né tantomeno il suo orientamento. Dobbiamo quindi trovare il modo di raggiungerlo direttamente e con autenticità senza peraltro trascurare di renderci conto anche delle nostre “differenze” e quindi dell’importanza di rimanere fedeli alla nostra soggettività evitando le pericolose trappole dell’eccessivo “confluire”.
Heidegger, come prima di lui Husserl, sosteneva che possiamo comprendere un uomo solo attraverso il suo svelamento, nel suo manifestarsi e darsi (sich geben). Per conoscere qualcuno dobbiamo quindi chiedergli di parlarci, ma svelarsi, manifestarsi e darsi sono in realtà tra gli scopi impliciti del processo psicoterapeutico ed è ovvio che la difficoltà a “essere ciò che si é” e di conseguenza l’attitudine al “non darsi”, la troviamo sovente nel mondo delle interazioni umane. Tutto ciò accade in modo particolare quando non vi è il coraggio di prendere contatto prima ed esprimere poi aspetti di sé che si rifiutano o di cui si ha vergogna. Quando non si ha una buona relazione empatica con qualcuno, si tende a trattenersi e a non svelarsi. C’è la paura del giudizio e del conseguente rifiuto, così com’è stato in passato si teme di subire nel presente la stessa umiliazione ed essere nuovamente feriti. Ci si auto-interrompe. Il problema è dunque la paura.
CORAGGIO E ANGOSCIA
Questo cronico processo di auto-interruzione che tanto caratterizza i disturbi nevrotici si manifesta quando viene a mancare ciò che è stato definito il “coraggio di esistere”, in altre parole la capacità di affermare se stesso a discapito di quegli aspetti della propria esistenza che sono in conflitto con il proprio principio di autoaffermazione.
Diceva Tillich : “Il coraggio è autoaffermazione ‘nonostante’, cioè nonostante ciò che tende a impedire all’Io di affermarsi” .
Nella sua raccolta di frammenti che va sotto il nome di “Volontà di potenza”, Nietzsche sosteneva che avere coraggio significa avere la capacità di affermarsi nella vita nonostante questa possa manifestarsi in modo ambiguo e rifiutare la vita a causa della sua negatività è un’espressione di vigliaccheria. Per lui, come per gli stoici, la gioia accompagna l’autoaffermazione del nostro essere essenziale nonostante le inibizioni derivanti dagli elementi accidentali che sono in noi. Nell’atto ontologico dell’autoaffermazione del nostro essere essenziale il coraggio e la gioia coincidono.
Esiste d’altra parte una moltitudine di circostanze più sfumate in cui la presenza della paura e dell’angoscia è ben più sovrastante di quella della gioia.
L’angoscia è un’esperienza umana primordiale profondamente connessa con le incertezze della vita. Si esprime con mille volti. Tra le tante sue forme sono state descritte l’angoscia del “non essere” che minaccia “l’essere” e che si manifesta nell’angoscia della perdita della capacità di affermare se stesso e della morte, l’angoscia del vuoto e della mancanza di significato e l’angoscia della colpa e della condanna. Altrove l’angoscia è stata descritta, come“grande nausea” in Così parlòZarathustra di Nietzsche o “notte dell’anima” o “assalto dei demoni” come molti mistici l’hanno definita. Peraltro possiamo trovare anche tante altre manifestazioni dell’angoscia nella vita ordinaria di tutti i giorni sotto forma delle mille paure che ben conosciamo. Nella ricerca psicoanalitica contemporanea Kohut descrive una condizione che egli chiama “terrore presimbolico”, ove la minaccia per l’individuo è l’angoscia della possibilità di ritorno a un’antica esperienza di disintegrazione (che Lacan chiama “discordia primordiale”). Egli ha ipotizzato l’esistenza negli esseri umani di un’esperienza precoce di “frammentazione” che incute un grande timore ed è simile a quella descritta da Stern (che peraltro non considera questa esperienza inevitabile ma solo come conseguenza di un cattivo rapporto con la funzione materna). L’esperienza di quest’antico terrore di frammentazione come reazione a ciò che non si comprende è ancora più primitiva della rabbia e della vergogna. Il “terrore presimbolico” si sperimenta come perdita del senso della realtà. Si perde la percezione di sé e dell’altro. Non si ha più un centro. E’ come se tutto svanisse o si alterasse. Non vi sono più punti di riferimento. Manca il terreno sotto i piedi. Non si sa più chi si è o chi sono gli altri. Ci si sente senza alcuna protezione. Non si sa come o dove stare. Ci si sente dentro un’infinita scomodità. Si cade in un abisso di paura. Ci si smarrisce.
Ho voluto porre l’accento su queste esperienze poiché sono convinto che il campo terapeutico sia sovente colmo di elementi carichi di angoscia che si manifestano gradualmente nella misura in cui il terapeuta è sensibile e responsivo a ciò che il paziente gli trasmette. Per avere quella confidenza e fiducia necessaria per esplorare e lavorare con contenuti emozionali così potenzialmente dolorosi bisogna essere in grado di trasmettere in maniera inconfutabile la propria alleanza terapeutica con la totale accettazione di qualunque cosa possa manifestarsi mettendosi nella posizione dell’epoche, del non giudizio. Ci vuole calda accoglienza, ammirazione e tranquillizzazione.
LE FUNZIONI ALFA E BETA DI BION
Secondo la teoria della funzione alfa di Bion gli individui interiorizzano le esperienze sensoriali solo attraverso un processo che le rende rilevanti ed evidenti. In altre parole affinché queste siano importanti per noi, dobbiamo prima dar loro un senso. La funzione alfa nel bambino è sviluppata e stabilizzata dalla funzione alfa della madre solo quando questa è in grado di rispondere adeguatamente e soddisfacentemente ai suoi bisogni e alle sue richieste. Il riconoscimento e il rispecchiamento sono tra le necessità primarie. Solo in questo caso il bambino sente e si tranquillizza. In questo modo può interiorizzare stabilmente la funzione alfa della madre.
Per Bion nell’interazione della madre con il bambino, insieme agli elementi alfa si manifestano anche quelli beta. A differenza di quelli alfa, gli elementi beta sono prodotti sconosciuti della mente, privi di simbolizzazione e sono vissuti come molto minacciosi, destabilizzanti e sgretolanti. Quando la funzione alfa della madre non è sufficientemente rispecchiante e nutriente, il neonato è bombardato da elementi beta e precipita nell’angoscia.
Le esperienze angosciose derivanti dalla proliferazione di questi elementi beta sono collegate aiterrori senza nome e alle agonie impensabili di cui ha parlato Winnicott e al terrore presimbolico di cui ho detto sopra. Questi vissuti generalmente non si manifestano alla piena consapevolezza ma rimangono sempre sullo sfondo come costante inquietudine umana, come un persecutore interno perennemente in agguato. Possiamo individuarlo principalmente negli stati postraumatici da stress o nelle psicosi ma sotto certi aspetti lo dobbiamo considerare universale. È’ un elemento persecutorio interno caratteristico della condizione umana.
Secondo Winnicott il bambino è in grado di fronteggiare e superare l’impatto di questa esperienza solo attraverso la risposta empatica della madre. Senza la possibilità di accogliere in sé questa empatia tranquillizzante della madre, il bambino sarà sommerso dagli elementi beta e per quanto potrà comunque crescere bene fisicamente, sarà comunque segnato interiormente da un’esperienza devastante.
Per Melanie Klein lo spaventoso impatto di figure persecutorie nella fantasia del bambino come quelle dell’essere distrutto, mangiato, fatto a pezzi, disintegrato, ecc., così vicine all’esperienza del terrore presimbolico, esprime e manifesta l’istinto di morte, quella terrificante esperienza ove il bambino cerca continuamente di espellere dal suo interno il bombardamento di questi elementi disgreganti ma che non sarebbe in grado di reggere senza l’Io ausiliario della madre. Il neonato senza l’appoggio empatico della relazione con la madre rimarrebbe sempre sull’orlo del caos, dell’invasione incontrollata degli elementi beta.
Mi sembra pertanto ovvio che anche il terapeuta, come la madre dotata di funzione alfa, dovrà essere particolarmente attento e presente in tali circostanze per aiutare il paziente a sopportare e accettare l’esperienza emotiva che attraversa, a stare con la sua paura di sgretolamento per cercare di chiarirla e definirla meglio. Dovrà aiutare il suo paziente a sviluppare anche la capacità di raccontarla a chi vorrà e di sostenerla nella sua mente senza la paura di precipitare in un pozzo senza fondo.
Dice Mollon: “L’antidoto a frammentazione, vergogna, rabbia, terrore e alienazione, ciò che fa nascere individualità e autonomia, è l’esperienza dell’empatia data da un altro. Questa è l’eredità terapeutica data da Kohut”
E’ molto probabile che, condizionati, come spesso siamo, dalla moltitudine di persone che vivono nel cosiddetto “stato ordinario di coscienza”, alle volte viene davvero difficile, e magari altrettanto comodo, prestare attenzione ai nostri più sottili meccanismi di autoinganno, di eccessiva compiacenza verso i nostri limiti, di cronico evitamento verso ciò che ci procura difficoltà. Sovente si è arroccati in una posizione depressivo-egotistica che ci interrompe dall’esplorazione del nostro mondo interno e da quelli che Perls chiamava i nostri “giochi di adattamento” (fitting games). Si dà per scontato che non si può cambiare o che non ne vale la pena e ci si accontenta del piccolo territorio che si è conquistato. Rispondeva Ken Wilber a chi gli chiedeva cosa fosse l’Io: “Là dove metti il confine”.
INTERIORIZZAZIONE TRASMUTANTE
La psicoterapia della Gestalt ha rivoluzionato l’approccio terapeutico soprattutto per la sua impostazione relazionale, per la novità dell’atteggiamento rispetto ad altri approcci che il terapeuta assume nei confronti del suo paziente. Certo è anche “figlia” della psicoanalisi, come peraltro molti altri orientamenti psicologici, ma a differenza di quest’ultima, da cui mi sembra arricchente trarne insegnamento dal punto di vista della ricerca e dell’osservazione clinica, superando l’antico dualismo terapeuta-paziente, per cui il primo è il “sano” che osserva in modo distaccato e non partecipativo e il secondo è il “malato” che deve essere osservato, l’enfasi nel rapporto è andata a collocarsi sulla consapevolezza della verità e sulla comunicazione dell’esperienza “così com’è”, sulla natura del confine del contatto e cioè su ciò che accade davvero tra “me e te”.
Per me, il campo della psicoterapia, nei limiti del possibile, deve offrire a entrambi i suoi protagonisti, il terapeuta e il suo paziente, uno spazio totale per l’espressione della propria verità vissuta ed è ovvio che la sua direzione implicita dovrà essere orientata alla creazione e allo sviluppo di una co-costruzione dialogica, per dirla nell’accezione costruttivista. D’altra parte, identificandosi nel paziente pur rimanendone ovviamente differenziati, poiché paura e vergogna sono esperienze veramente delicate, credo che in tali circostanze di estrema fragilità e vulnerabilità, un “sorriso” sostenente del terapeuta, quando vissuto autentico ed empatico dal paziente nei confronti delle sue difficoltà, quando viene sentito come rispecchiamento del suo valore, meritato dal suo affrontare i propri mostri e draghi interni, sia molto auspicabile per rendere più coeso un sé tendente alla frammentazione e allo smarrimento. In tal modo il paziente potrebbe finalmente sperimentare un’energia che gli proviene dal sentirsi compreso e sostenuto che forse non ha mai davvero vissuto prima.
A mio avviso, solo interiorizzando l’apprezzamento e il riconoscimento di un autorevoleoggetto-sé esterno, come può essere vissuto il terapeuta, si ha davvero la possibilità di accettare nuove esperienze e dimensioni di consapevolezza e realizzare un cambiamento stabile nella propria vita colmando un antico “buco psichico” che Kohut chiamava “struttura psichica mancante”. Lo sviluppo della capacità di prendere contatto, accettare e lavorare con queste antiche emozioni è, infatti, una conseguenza dell’interiorizzazione della funzione calmante dell’oggetto-sé buono interiorizzato (madre/terapeuta). E, come dice il detto, se“lassù qualcuno mi ama”, allora la mia vita ha un senso.
Per Kohut la semplice consapevolezza e la sua successiva elaborazione e interpretazione cognitiva di cause ed effetti delle proprie esperienze interne non sono sufficienti per realizzare una vera e propria “guarigione” del sé del paziente. In modo particolare egli sosteneva tale convinzione riferendosi ai disturbi narcisistici e alle problematiche di perversione. Perché ciò possa avvenire, è piuttosto necessario che il paziente viva nel suo interno quella che ha chiamato “interiorizzazione trasmutante”, incorporando l’oggetto-sé empatico del terapeuta. Per lui tali disturbi come altri avevano la funzione di colmare un deficit strutturale. Il deficit è un buco psichico, una parte mancante che può essere fornita da un’altra persona. è come se in definitiva quest’oggetto-sé si dovesse installare in modo inconfutabile nel sé del paziente per modificare stabilmente la sua condizione di “deficit strutturale primario” e come conseguenza di tale interiorizzazione, il proprio valore di essere umano e la propria potenzialità di relazione nei rapporti interpersonali potrebbero essere finalmente vissuti non più esclusivamente conflittuali o problematici.
In conclusione vorrei comunque dire che l’atteggiamento empatico non va visto come una sorta di tecnica, un “qualcosa che si fa per …”, un metodo “a orientamento umanistico” che si applica quando si ha a che fare con un “poveraccio” che si trova in difficoltà. è piuttosto un’esperienza che si deve sentire veramente, perché si prova davvero e non credo che possa essere confuso con una sorta di posizione genitoriale che vuole nutrire un bambino deprivato (il che mi sembrerebbe quasi offensivo nei confronti del paziente), come una sorta di compensazione per ciò che gli è mancato. Penso piuttosto che l’atteggiamento empatico del terapeuta debba esprimere semplicemente e autenticamente il suo, “essere una persona” profondamente umana, dotata di tenerezza e compassione, capace di emozionarsi, intristirsi o dispiacersi (come peraltro di arrabbiarsi) se e quando un altro essere umano che gli chiede aiuto si trova ad annaspare nelle fangose paludi del suo mondo di dolore, paura e smarrimento.
Naturalmente è comunque sempre necessario vigilare sul rischio dell’essere eccessivamente protettivo e stare attenti a non commettere l’errore di passare da un esagerato e inumano distacco alla troppa compassione che non permetterebbe lo sviluppo delle potenzialità del paziente. Inoltre, benché l’identificazione con il paziente rappresenti una via diretta per la comprensione del suo modo d’essere e della sua visione delle cose, ciò non significa che, al di là della solidarietà e comprensione per le sue difficoltà, non bisogni tener presente la propria soggettività e fare del proprio meglio per modificarne le fissità e rigidità percettive ed interpretative.
Polster E., “Psicoterapia del quotidiano. Migliorare la vita della persona e della comunità “,Centro Studi Erickson, Trento
Commenti recenti