Tra confluenza e distanza abitabile – Il contatto del terapeuta con se stesso

di Anna Rita Ravenna

Didatta-supervisore,

Direttrice – Istituto Gestalt Firenze – sede di Roma

INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, n°4 novembre – dicembre 2004, pagg. 8-13, Roma

 

Spesso, riflettendo sulla psicoterapia, mi sono interrogata su cosa possa essere realmente utile per il cliente, su come poter aiutare la persona nella sua ricerca di benessere.

Molto più raramente questi interrogativi hanno avuto come oggetto di riflessione la persona dello psicoterapeuta.

Quando questo tema è apparso ”in figura”, anche nel confronto con i colleghi, è stato frettolosamente chiuso suggerendo la necessità di una costante supervisione e la buona qualità di vita personale del terapeuta quali unici e generici strumenti del benessere professionale. Raramente ho sentito parlare della consapevolezza del terapeuta, consapevolezza intesa non come sinonimo di coscienza, ma come fluidità della dinamica figura-sfondo.

Parafrasando Erving e Miriam Polster[1], osserviamo come, ad esempio, la persona ossessiva sia abilmente coscienteanche dei minimi dettagli del suo comportamento e delle reazioni che evoca negli altri e come concentri su questo tutta l’attenzione per salvarsi dalla possibilità che emergano le proprie profonde paure; dovendo mantenere queste paure sotto controllo la persona ossessiva non può mai esprimersi attraverso comportamenti che emergano liberamente dalla relazione con la situazione attuale. Lo psicoterapeuta, al contrario, conosce l’importanza di esprimersi nel qui ed ora in armonia con il proprio sentire, avendo sperimentato il proprio mondo emotivo, essendo entrato in contatto con parti di sé intime e vulnerabili, avendo attraversato territori che le esperienze vissute hanno dimostrato densi di pericoli e minacce. Il terapeuta conosce il benessere che deriva dall’ampliamento della coscienza fenomenologica, della capacità, cioè,  di sostenere il vissuto relato all’esperienza di “essere la persona che si è”. Questo vissuto è in continuo divenire, tanto più ricco quanto più alimentato da una fluida dinamica figura-sfondo, dalla capacità del terapeuta di essere trasparente a sé stesso. Trasparente, non nel senso di invisibile a sé e all’altro (come nello schermo bianco di freudiana memoria), ma in grado di leggere qualsiasi elemento emergente dal suo mondo interno in termini di sensazioni, emozioni e pensieri, in grado di attraversare e riattraversare territori minacciosi o perché oggi non gli appaiono più tali o perché sa affidarsi  alla saggezza dell’organismo.

Parlare in termini astratti del terapeuta ha, tuttavia, una valenza relativa. Non esiste “il” terapeuta ma tanti terapeuti quante sono le persone che esercitano questa professione, può risultare, quindi, più proficuo parlare di esperienze concrete che, in quanto tali, possono evocare ricordi, interrogativi e riflessioni.

Chi sono io terapeuta? Quali travagli esistenziali mi attraversano nella vita e nella professione?

La domanda “chi sono ?” prima o poi sorge spontanea dal moto di ogni cuore; solo un essere unico può pronunciarla sensatamente. La sua risposta non è racchiusa in un’unica sintetica definizione, ma piuttosto nella regola classica di “raccontare una storia”.  E’ possibile rispondere a questo interrogativo solo attraverso la narrazione, unica modalità per rivelare il “finito” nella sua fragile unicità e per permettere al narratore di comprendere il significato e all’altro che ascolta di vedere la complessità del disegno esistenziale.

Ogni narrazione si da solo in presenza di un ascoltatore.

“C’è un’etica del dono nel piacere del narratore”[2]. Scrivo nella speranza che la mia esperienza possa essere di una qualche utilità per alcuni, non certo perché ho raggiunto conoscenze generalizzabili e, tanto meno, verità assolute. Scrivo a partire da un’esperienza, lunga nel tempo, di gestaltista, donna, psicoterapeuta e didatta che ha sempre desiderato muoversi, dentro e fuori la vita professionale, con rigore etico, intendendo la parola etica come misura di valore delle relazioni interpersonali. E’ un’esperienza che ha generato tanti doni per me e, credo, anche alcuni per le persone che ho incontrato in questi anni.

Occorre essere consapevoli che l’epistemologia del terapeuta influenza significativamente l’incontro con la persona con cui è in relazione.

Credo che le riflessioni su alcuni interrogativi possano essere utili a chiarire quale è la mia posizione rispetto a quel particolare tipo di conoscenza di sé e dell’altro che, a mio avviso, si dà nell’incontro psicoterapeutico.

Come possiamo rappresentare l’ incontro psicoterapeutico?

Come un sistema di convalida reciproca dei partecipanti, convalida della convinzione personale di ciascuno di loro relativa a ciò che sta accadendo nella situazione.

Come possiamo rappresentare lo psicoterapeuta?

Come un sistema naturale autopoietico che osserva partecipando, come un sistema disponibile a lasciarsi turbare da quanto osserva mantenendo fluida la dinamica figura-sfondo.

Come possiamo rappresentare le concezioni dello psicoterapeuta?

Come strumenti di conoscenza che contribuiscono ad alimentare un sistema di conoscenze in continuo divenire.

Come possiamo rappresentare la relazione psicoterapeutica?

Come l’incontro, in uno spazio-tempo condiviso, di due sistemi autopoietici in un reciproco processo di conoscenza.

“I processi di conoscenza sono radicati nell’essere vivente, nella sua totalità e non solo nel suo sistema nervoso.

Ogni conoscenza è un’azione di colui che conosce e in quanto tale dipende dalla struttura di colui che conosce.”[3]

Quale è l’obiettivo della seduta psicoterapeutica?

Dar luogo ad una nuova possibilità di incontro in un mondo aperto/creato dalla intenzionalità delle due persone in relazione per potenziare la loro individualità intesa come ricerca sempre in atto, tensione risolta che si riattiva continuamente, non come tappa circoscritta del processo evolutivo.

Quali sono gli strumenti del lavoro psicoterapeutico?

–          Etica, intesa come misura di valore del comportamento.

–   Comportamento etico,  inteso come comportamento che alimenta

continuamente l’interesse dell’interlocutore,

che lo sveglia, lo apre, gli fa venire voglia di

partecipare e rispondere, in una parola , comportamento che

produce ispirazione. [4]

–          Empatia,  intesa come capacità di immedesimarsi nell’altra persona

                  senza perdere la consapevolezza di se stessi, com-prendere

l’altro nel proprio mondo e costruire con lui un mondo

comune, essere sotto lo stesso “orizzonte degli eventi”. [5]

    –  Dialogo, inteso come comunicazione esistenziale, incontro tra  l’io e il tu, possibilità di una realizzazione creativa che potenzia ciascuna individualità [6].

Quali competenze sono richieste allo psicoterapeuta?

Capacità di mantenere l’originaria apertura all’esserci, “presenza“, soprattutto di fronte a:

–          l’ignoto,

–          la possibilità di lasciarsi attraversare dal nuovo e dall’imprevisto, dall’affiorare del segreto e del nascosto,

–          la perdita di ogni certezza evitando di rifugiarsi nel razionale rassicurante,

–          la tentazione di “conformarsi” percorrendo traiettorie ingessate del senso comune e sentieri già battuti.

Capacità di dar valore a:

–          epoché[7] , ascoltare in sospensione di giudizio,

–          equanimità[8], ascoltare senza desiderio,

–          passione dell’ignoranza[9], ascoltare senza memoria.

Capacità di saper:

–          ricevere ed ascoltare le parole dell’altro senza ricorrere agli schemi reificati della teoria e della prassi standard (praxis = azione),

–          entrare ed uscire dal dubbio, oscillare tra dubbio e certezza,

–                      usare l’empatia per rendere pensabile ciò che altrimenti sarebbe impensabile, per sé e per l’altro.

Per radicare nel concreto queste riflessioni riporto ora una breve sintesi di una seduta psicoterapeutica.

Sono le otto e venti di un giovedì mattina sto aspettando una giovane cliente che chiamerò Giovanna.

Ho dormito male, è un periodo difficile nella mia vita privata, vago per lo studio con aria spersa ed un profondo sentimento di tristezza nell’anima che accompagna il riaffiorare, alla mente ed al cuore, di  scene della mia vita.

Lentamente i miei occhi si posano su oggetti familiari: le piante, il tappeto, un bellissimo scorcio di Roma fuori dalla finestra,

Noto che è una mattinata piena di nebbia e questo corrisponde pienamente al mio stato d’animo.

Mi sorprendo di sentirmi rassicurata da questa osservazione, nell’anima e sulle labbra inizia ad affiorare un sorriso. Il pensiero si ferma su Giovanna e, dallo sfondo, emerge una sensazione di piacere: sono contenta di iniziare la giornata di lavoro incontrandomi con lei.

Anche il suo percorso psicoterapeutico è giovane e lei è piena di dolore e di curiosità, ad un tempo; ragiona tanto, si sperde nelle emozioni, non sa dar loro nome, è in contatto con le sensazioni somatiche e  ne è profondamente spaventata.

Ha finito l’ultima seduta commentando: “Ho pianto tanto, mi sento proprio bene!”.

Giovanna arriva puntuale, con l’aria ancora un po’ assonnata e con il desiderio di entrare subito nello studio. Io l’accompagno. E’ evidente la convalida reciproca sull’implicito relazionale: entrambe, seppur in veste diversa, siamo qui per una seduta psicoterapeutica.

Siamo sedute sulle poltrone, l’una di fronte all’altra; lei, con un gesto che mi appare grazioso, raccoglie i suoi lunghi capelli neri in un fermaglio, io aggiusto la mia posizione mettendomi comoda.

Scrivendo, rivivo questi passaggi. Mi ritorna nitida l’impressione che, sedute l’una di fronte all’altra, siamo noi stesse, lei ed io, impegnate a co-costruire e condividere uno spazio comune, la cui tessitura attuale è iniziata, per me, da quando il mio pensiero si è rivolto a lei, qualche minuto prima del suo arrivo. Siamo due sistemi autopoietici in un reciproco processo di conoscenza.

In un morbido e attento silenzio osservo lei e me; sono in attesa che Giovanna inizi a parlare svelando così, attraverso la narrazione, l’intenzione dell’odierno lavoro psicoterapeutico; ho chiara la percezione di me come sistema che osserva partecipando.

Lei inizia a parlare sfogando la sua rabbia verso un fidanzato, quasi ex, che, dopo averla tradita, la tormenta volendo restare insieme a lei… e all’altra sparla di lei con gli amici comuni.

Aggiunge che si tratta di un fidanzato, si rende conto ora, di cui non può assolutamente fidarsi visto che le ha anche taciuto un aspetto importantissimo della sua esistenza di cui Giovanna mi parla brevemente. Questo aspetto riguarda la vita personale del ragazzo e, solo indirettamente, anche se inevitabilmente, la vita di Giovanna. Conosco molte situazioni come quelle del fidanzato di Giovanna, sento molta compassione e comprensione per la sua situazione, mi è chiara la dinamica del suo comportamento. Man mano che Giovanna si esprime, sento emergere lentamente in me la rabbia, mi attraversa un fugace sentimento di odio per questo uomo, sento, in quanto madre,  un profondo dispiacere per il dolore di questa ragazza che ha l’età di mia figlia.

Dopo qualche istante esco dal processo identificativo e posso ascoltarla empaticamente in sospensione di giudizio, “senza desiderio e senza memoria”. Incontro gli occhi di Giovanna pieni di rabbia, io sono disposta ad accogliere le sue emozioni,  le sue parole nell’intento di rendere pensabile ciò che altrimenti rimarrebbe impensabile, per lei e per me.

“Ho paura” mi dice “sento nuovamente di non potermi mai fidare di nessuno; come posso amarlo se non mi fido di lui?”.

Lavoriamo sul tema della fiducia, non come un attributo generico, ma come sentimento che ciascuna persona può ispirare o meno ad un’altra, in un contesto dato.

Emergono da entrambe differenze significative: affidare a qualcuno i propri risparmi per un investimento, affidare un bambino alle cure di qualcuno e così via. L’aiuto a chiarirsi la sottilissima differenza che passa tra tacere alcune informazioni per un certo tempo e l’intenzione di ingannare. Pian piano Giovanna riesce a mettersi nei panni del suo fidanzato, sente il suo terrore, la sua difficoltà, il suo imbarazzo, saggia i possibili motivi del suo agire, del suo tacere, sperimenta l’effetto che tutto questo fa su di lei. Questa parte del lavoro si svolge utilizzando la tecnica della sedia vuota. Giovanna elabora, così, la situazione vivendo un’ampia gamma di emozioni dalla paura alla tenerezza, dall’imbarazzo al piacere della complicità.

“Lo posso comprendere ora, non sono più arrabbiata con lui” dice ”ma non mi posso fidare ugualmente.” “E cosa vuoi fare?” le chiedo. “Tenerlo a distanza fino a quando mi sarà chiaro quali sono le aree in cui mi posso fidare di lui e quali quelle in cui non mi posso fidare.”

“Tu sai quali sono i temi su cui per te è assolutamente importante poterti fidare del tuo compagno?” le chiedo. “No, fino ad ora mi sembrava che la fiducia in una persona fosse qualcosa di assoluto: o tutto o niente. La seduta ha fatto sbriciolare questo preconcetto. Ora mi sento più leggera, intravedo qualche possibilità, ma non è assolutamente chiaro cosa per me è imprescindibile in questo campo.” “Dai tempo al tempo” le dico io, con un lieve sorriso sulle labbra che nasce dalla consapevolezza della giovane età di Giovanna e della ‘saggezza’ legata alla mia non più giovane età!

“Cosa vuole dire per te tenerlo la distanza?”, le domando, “Come farai a farlo praticamente?” “Intanto, ho cambiato l’orario della mia lezione di ballo latino-americano ora non siamo più nello stesso gruppo. Questa sera, poi, quando andremo a ballare in un locale, lui sicuramente verrà ad invitarmi ed io gli dirò che non ho voglia di ballare con lui.” “Quale è lo stato d’animo che accompagna queste tue scelte?” le domando. “Non so, non riesco a capirlo, mi sento confusa. Da una parte mi sembra di volerlo tenere a distanza da me, dall’altra mi sembra di volergli rendere pan per focaccia facendolo soffrire come lui ha fatto con me.” Lavoriamo su questa polarità e Giovanna chiude la seduta con animo rasserenato e perplesso, non si sente più una bambina che non si può fidare di nessuno,  insicura e dispettosa, ma una giovane donna che sta imparando a proteggersi per quanto possibile, dal dolore delle frustrazioni vivendole anche come esperienze, come momenti di  riflessione, come occasioni per esplorare i suoi bisogni ed i suoi valori, per sperimentare nel tempo la flessibilità delle sue scelte permettendosi di accettare momenti di confusione, di ansia, di paura e di dolore.

Giovanna va via dando un’occhiata fuori dalla finestra e dicendo “la nebbia si è diradata da questa mattina”, io ho alcuni minuti per riflettere sulla seduta.

Quello che mi è rimasto più impresso è l’odio che ho provato per qualche istante per il fidanzato di Giovanna. L’intensità del sentimento, pur nella sua brevità, è sicuramente dovuto alla proiezione del difficile periodo che sto attraversando strettamente collegato con la figura maschile. I temi della fiducia nell’altro, e soprattutto nella persona amata, il tradimento e la richiesta di restare insieme malgrado tutto, sono sicuramente temi che appartengono al qui ed ora della mia esistenza. Rifletto sulla  fluidità con cui sono entrata ed uscita da questo stato d’animo così doloroso per me. Mi è chiaro che questo processo mi ha reso possibile incontrare Giovanna su un piano di com-prensione del suo stato d’animo permettendomi, nello stesso tempo, di creare una distanza tra l’io e il tu, di evitare la confluenza e lasciare che lei narrasse la sua storia offrendole una presenza attenta, empaticamente interessata, rispettosa dei suoi valori e delle sue scelte ed aperta al reciproco processo di cambiamento.

Cosa è cambiato in me dopo la seduta? Giovanna mi ha accompagnato verso la consapevolezza dell’ovvio: la nebbia lentamente si dirada.

 

[1] Terapia della Gestalt integrata, ed. Giuffrè, Milano, 1973, pag. 202

[2] A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, ed. Feltrinelli, Milano, 1997, p. 10

[3] H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, ed.  Garzanti, Milano, 1984, p. 50

[4] G. P. Quattrini, Il comportamento e l’etica, p. 10, Rivista di “IN fomazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, n. 2 sett.-ott. 2003

[5] P.A. Rovatti, Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio, ed. Feltrinelli, Milano

[6] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Torino, 1994

[7] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, ed. Einaudi, Torino, 1965

[8] F. Perls,, R. F. Hefferline, P. Goodmann, Teoria e pratica della terapia della Gestalt, ed. Astrolabio, Roma, 1971

[9] J. Lacan, Scritti, ed. Einaudi, Torino, 1974

Please cite this article as: Redazione (2004) Tra confluenza e distanza abitabile – Il contatto del terapeuta con se stesso. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/numero-4/tra-confluenza-e-distanza-abitabile-il-contatto-del-terapeuta-con-se-stesso/

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