LA VIDEOTERAPIA NELLA RELAZIONE D’AIUTO
di Oliviero Rossi
Psicologo Psicoterapeuta
Pubblicato sulla rivista “Informazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia” n° 2, settembre – ottobre 2003, pagg. 30-35, ed. IGF. Roma
La videoterapia è diversa dalla terapia filmata o da un’esperienza filmata. Diversa è infatti l’interazione con il mezzo, il video, e con le immagini rivelatrici del modo di relazionarsi con se stessi e con il mondo.
E’ importante distinguere la videoterapia vera e propria dalla terapia filmata o dalle discussioni in gruppo che seguono la visione di un film (film terapia). La videoterapia, almeno nell’accezione che propongo, è il momento culminante di un percorso di crescita che porta e sostiene la persona nell’incontro e nella re-visione di se stesso. La videoterapia dà vita a un’interazione dell’io con il me: l’immagine diventa l’interlocutore del soggetto in un processo di facilitazione del confronto con se stessi.
La videoterapia si distingue anche dal guardarsi allo specchio poiché, quando mi guardo allo specchio, le sensazioni propriocettive sono direttamente collegate con l’immagine che vedo: se muovo una mano percepisco la sensazione fisica della mano che si muove e contemporaneamente ne vedo l’immagine. In videoterapia l’immagine che vedo non è direttamente collegata alle sensazioni propriocettive. Il lavoro videoterapeutico si sviluppa quando l’immagine diventa autonoma, quando cioè è possibile una distanza\disidentificazione da essa che possa permettere l’operazione di confronto con se stessi.
L’immagine diventa autonoma, in un certo senso sganciata dalle caratteristiche che confermano il senso d’identità, nel momento in cui il cliente inizia a rilevare delle discrepanze:
- tra l’immagine mentale di sé e l’immagine di sé e della propria condotta[1] visibili nella registrazione (cosa riconosco e cosa mi stupisce del me stesso che vedo agire sullo schermo; cosa fa quel me, lì sullo schermo, di visibile e udibile che posso riconoscere come mio);
- temporali, dovute alla differenza di tempo tra il momento dell’acquisizione e il momento della visione del materiale registrato.
La rilevazione di queste discrepanze viene facilitata dal terapeuta attraverso delle operazioni di moviola che permettono al soggetto di accorgersi di microespressioni inconsapevoli, nascoste all’interno dei propri pattern espressivi abituali, difficili da notare in quanto incongrue con l’immagine mentale che ha di sé.
In questa operazione di stravolgimento[2] delle sequenze ufficiali della condotta del soggetto/immagine, registrate nell’audiovisivo, diamo vita a una “narrazione di sé” che si appoggia su particolari fisionomici, fonetici o comportamentali che diventano una sorta disottotesto narrativo con il quale possiamo lavorare terapeuticamente per promuovere la riorganizzazione emotiva e cognitiva del copione di vita del cliente.
L’immagine di sé diventa dunque evocatrice di differenza, assume vita narrativa propria, così la persona che l’ha prodotta può confrontarsi con essa. È però necessario favorire una situazione che consenta l’incontro dialogico con l’immagine di se stesso registrata. È necessario, cioè, che l’immagine sia vissuta dal cliente come una parte di sé e nello stesso tempo portatrice di diversità[3].
La possibilità del nuovo compare in quello che vivo come vuoto, come confusione, nel momento iniziale in cui vedo la mia immagine. Questo vuoto, questa distanza, diventa qualcosa di simile a ciò che Perls intendeva come vuoto fertile, trasposto, però, dall’area della consapevolezza a quella dell’interazione.
Il vuoto è lo spazio creato dalla discrepanza cioè dalla distanza tra l’io/spettatore e ilme/immagine. E’ la differenza tra il me stesso di un minuto fa proposto dal video e quello di adesso: “non sono io… o meglio non sono io adesso, ma sicuramente lo ero”. Sono importanti tutte le discrepanze che si notano fra l’immagine mentale che abbiamo di noi e l’immagine “reale” che vediamo nel video. Se l’immagine fosse completamente estranea (“non sono io”), non ci si riconoscerebbe e il lavoro non avrebbe effetto terapeutico. Ciò che crea la possibilità terapeutica dialogica è la somiglianza che ospita le diversità, in quanto permette di prendere in considerazione, una volta accettate, possibilità esistenziali diverse. Accettando il contatto con quello che ero/credevo di essere, sono/potrei essere, giocando con le diverse possibilità di esistere, nascono nuove opportunità emotive/cognitive di conduzione della propria vita.
Discrepanza temporale
La discrepanza temporale avviene nella videoconfrontazione in differita. Per ottenerla viene svolto un lavoro di acquisizione di immagini parallelo allo svolgimento del lavoro di gruppo psicoterapeutico: si registrano eventi che si lasciano “decantare” e con i quali ci si confronta il giorno dopo (o anche minuti dopo). Ciò fornisce la base per mettere in scena un dialogo in cui il cliente e il se stesso/immagine possano scambiarsi consigli e osservazioni, mobilitando personali risorse e capacità di autosostegno.
Questa fase, nel lavoro di videoterapia, è quella del rivedere ciò che è stato fatto, rivedere(nel senso di vedersi di nuovo) e rivedersi (nel senso di riesaminarsi, correggersi). Qui il gruppo diventa pubblico ma in un modo del tutto diverso da quanto accade al cinema o a teatro. Il pubblico normalmente osserva, poi casomai discute, ma non interagisce con quello che avviene sullo schermo o sul palcoscenico. Nella videoterapia invece succede proprio questo, si interagisce.
Vale la pena notare il gioco paradossale dei ruoli che il cliente si trova ad assumere: autore della storia che racconta al gruppo, soggetto del lavoro terapeutico che lo riguarda, attore e regista del filmato e infine pubblico di se stesso.
Soffermarsi sul divenire pubblico di noi stessi permette di prendere in considerazione il fatto che ogni volta che siamo insieme ad altri si attua una sorta di presentazione di noi stessi, più o meno fluida, costruita o naturale. Scegliamo cosa mostrare di noi, selezioniamo espressioni, discorsi e inflessioni a seconda del nostro pubblico (gli altri con i quali siamo in relazione). Più o meno consapevolmente, operiamo un’attività di monitoraggio di noi stessi nella relazione con gli altri che ci rende contemporaneamente attori e pubblico della performance sociale cui diamo vita.
E’ importante esplicitare la scelta di farsi vedere in un certo modo o di dire certe cose, perché questo rimanda a quel grosso elemento terapeutico che la Gestalt Therapy chiama responsabilità. L’immagine proiettata diventa “la registrazione della responsabilità di essere me nel mondo”, evidente e leggibile nelle scelte che faccio in ogni momento: scelgo di pormi in relazione con gli altri, di essere visibile, di entrare in dialogo, di esprimere qualcosa, sia esso parola silenzio o gesto.
Non è possibile non esprimere. Anche il vuoto, il mio niente, una volta reso visibile è comunque espressione – di vuoto, di niente – , appartiene a un dialogo, fa parte di una relazione. La responsabilità è questa: non posso non essere in relazione col mondo, con gli altri, con gli oggetti, con me stesso.
Il rivedersi avviene in un cambiamento di setting: mentre all’inizio il lavoro del gruppo è in un cerchio, alla fine il cerchio del gruppo si scioglie in un semicerchio davanti al televisore. Questo spostamento di attenzione dal soggetto fisico al soggetto immagine permette al cliente di avere quello spazio intimamente elastico tra la distanza e l’identificazione/immedesimazione che tutti quelli che assistono a un film conoscono bene, cui si aggiunge il confronto attivo con l’evento proiettato.
Tra il televisore e il semicerchio del gruppo c’è il terapeuta con un telecomando che serve ad andare avanti e indietro con le immagini. A questo punto il dialogo è con l’immagine di sé proiettata, filtrata dall’interazione dinamica con il terapeuta. Il terapeuta si confronta con il cliente facendo perno su una traccia della sua condotta, un frammento del suo essere nel mondo. E’ possibile tornare indietro, riandare avanti, chiedere che effetto fa vedersi e rivedersi ancora, come cambia il senso delle parole quando vengono ascoltate o riascoltate.
Il cliente, mentre vede se stesso, può assumere la responsabilità di essere la persona che vede nel monitor o, comunque, accettare di esserlo stato. Ciò significa anche: mi è possibile assumere ora quelle responsabilità che il me immagine non poteva/voleva assumersi.
La videoterapia può essere considerata in questo caso come evoluzione dello psicodramma. Nello psicodramma la drammatizzazione fornisce delle occasioni per l’insight che si esauriscono nel momento in cui si producono (la performance terapeutica lavora nel ricordo, viene rivissuta nella memoria o nei sogni, diventa argomento di discussione ma l’evento in se stesso svanisce); in videoterapia, nel momento in cui registriamo i segmenti di condotta del paziente (ad es. proprio filmando un’azione psicodrammatica o altro), possiamo lavorare sul copione di vita. Quest’ultimo diventa una sorta di film-dramma in cui posso vedermi, rivedermi e rivedere inserendo dei cambiamenti e delle nuove possibilità.
Dopo qualche tempo può accadere che si provi simpatia per la propria immagine, la stessa che mesi prima aveva procurato sensazioni spiacevoli. L’immagine di me depositata, in qualche modo decanta e permette che il mio rivedermi sia quello di persona più esperta di vita e perciò capace di maggiore tenerezza: il processo di crescita porta all’accettazione e al perdono, di sé e degli altri.
Copione di vita e copione posturale
In videoterapia lavoriamo sia con il copione di vita, con un livello di interazione video-relazionale, sia con il copione posturale[4], con un livello di interazione video-vissuto corporeo.
Anche durante una seduta di psicoterapia si lavora sul copione di vita, ma la videoterapia offre una possibilità in più: il copione di vita diventa una reale sceneggiatura che muove dalla vita del soggetto, con dei momenti più o meno grandi di improvvisazione. La sceneggiatura può essere “operante”, ossia si improvvisano delle azioni durante le riprese e il copione nasce nel corso del lavoro; oppure il copione viene scritto in precedenza. In ogni caso, la videoterapia permette di vedere e rivedere il copione. I segmenti, le inquadrature, le scene, le sequenze possono essere montate, smontate e rimontate, in una continua analisi e sperimentazione di modificazioni della relazione e della condotta.
Lavorando sul copione posturale e sulle parti del viso si lavora anche sugli apprendimenti primari. Le espressioni, gli atteggiamenti di una persona sono anche apprese affettivamente. Lavorare con la visione del proprio volto è anche lavorare con gli apprendimenti che il volto rivela. Se la pupilla che si allarga o si restringe è una risposta innata alla quantità di luce che la colpisce, il modo di aggrottare le sopracciglia non è solo una possibilità innata ma può albergare qualcosa di appreso. Per questo motivo vedere i tratti del proprio volto da diverse angolazioni di ripresa può far notare qualcosa di familiare, nel senso di “appreso affettivamente”, che con il tempo è diventato un modo di comunicare, un linguaggio condiviso in una cerchia intima. Il viso ospita i modi relazionali-affettivi di una persona. Nel guardarsi ritornano ricordi contenuti nella memoria del vissuto corporeo. Forse una certa espressione è nata come protezione funzionale, e non è detto che lo sia ancora; in ogni caso è impossibile lavorare con la propria immagine senza lavorare con il clima in cui si è formata.
Un’ altra caratteristica importante della videoterapia è l’interazione diretta ed esplicita con l’occhio della telecamera. La telecamera appartiene a pieno titolo alla situazione terapeutica. Che venga utilizzata dal terapeuta o da un suo collaboratore, essa rappresenta un prolungamento dell’occhio di chi sta inquadrando, è un interlocutore che può essere invitato a dire la sua: “tu che inquadri, cosa stai guardando di quella persona, cosa ti colpisce di quella persona”. Con questo interlocutore il cliente può intrecciare un dialogo, confrontandosi con un altro punto di vista.
In una seduta di psicoterapia il terapeuta mette in risalto verbalmente alcuni particolari, porta l’attenzione, ad esempio, su una parola, un gesto o una sensazione. In una seduta di videoterapia questo avviene attraverso l’uso delle immagini. Il terapeuta seleziona immagini e crea una relazione mediata da inquadrature.
La selezione visiva mediata dall’attenzione del terapeuta viene a combinarsi con le possibilità di selezione del soggetto stesso. Può essere il cliente, infatti, a essere particolarmente colpito da una immagine, un momento, un particolare che il terapeuta provvederà a ingrandire o a mettere in evidenza.
EVOLUZIONE DI UNA TECNICA: CON PERLS OLTRE LA SEDIA VUOTA
Alcune tecniche di intervento.
Tecniche ed esercizi usati nella Gestalt non sono strumenti terapeutici ideati esclusivamente per le persone affette da disturbi psichici e non sono quindi paragonabili alle tecniche psicoterapeutiche che hanno lo scopo di trattare i sintomi e le condizioni patologiche (in concorrenza con farmaci e altri possibili rimedi). Quelle usate dalla Gestalt sono tecniche già in se stesse espressione per quanto semplificata e schematizzata, di un funzionamento sano della persona.
Le tecniche e gli esperimenti possono essere utili o no secondo la capacità del terapista di entrare in contatto con il presente consapevolmente vissuto che contiene il rapporto terapeutico. Essi danno forma, a volte, ad alcuni momenti della terapia ma non sono mai sostituiti al rapporto “Io e Tu, qui ed ora” del processo terapeutico della Gestalt.
Glossario ragionato
Percezione visiva: nella sedia vuota abbiamo un aspetto immaginativo e propriocettivo; nella videoterapia viene stimolato e amplificato un aspetto in più, quello visivo.
Identificazione e proiezione: nella sedia vuota c’è un alternarsi di identificazione e proiezione; nella videoconfrontazione in diretta, l’identificazione è una proiezione.
Nella tecnica della sedia vuota il terapeuta favorisce la proiezione di una parte di sé e poi l’identificazione con quella parte. La parte di sé emerge come una polarità con la quale poter dialogare e infine il dialogo si risolve in un recupero integrativo delle parti scisse di sé.
Nella videoterapia il momento della videoconfrontazione assomiglia, in un certo senso, a un lavoro con la sedia vuota e può essere gestito più o meno come tale. La differenza sta nel fatto che la proiezione non è qualcosa che avviene solo in un dato momento dentro di me, nella mia immaginazione ma è qualcosa che ha assunto consistenza oggettiva, esiste fuori di me, si muove su uno schermo. In questo caso il terapeuta non deve incoraggiare più di tanto la proiezione, perché basta premere un bottone per fare il lavoro che in genere si fa con la sedia vuota. Basta di premere il bottone e senti cosa dice l’altra parte di te, quella di 12 ore fa. Puoi parlarci, affrontare un dialogo che può portarti a una integrazione o risolversi in una impasse …“mi vedo lì e continuo a cercare di non riconoscermi, mi vedo lì e non voglio vedermi lì”
“ che proiezione stai mettendo tu addosso a quella fotografia di te, in che modo tratti te stesso come se fosse un’altra persona, cosa ospita quella immagine lì (ti ricorda tua madre, tuo padre, ti ricorda qualcuno), perché ci stai appiccicando questo”….
Tutto ciò non è molto diverso da quello che avviene in una seduta di sedia vuota, solo che sulla sedia c’è un monitor che continua a metterti di fronte al ripetersi di quel copione lì, di quelle frasi lì, con quelle intonazioni, con quella espressione. Fino a che non ci vieni a patti, non riprendi quello che hai buttato o non riconosci qualcosa di nuovo. Fino a che qualcosa non emerge nella tua consapevolezza.
Figura sfondo: nella sedia vuota ci si muove sempre in un alternarsi e in un confronto tra figura e sfondo; nella videoterapia le possibilità si ampliano perché il confronto tra figura e sfondo avviene sia nell’immagine video sia nel “qui e ora” del soggetto che si guarda.
Discrepanza: nella sedia vuota, mettendo un’immagine mentale di se stessi di fronte a sé, si genera un se stesso diverso, quindi è la polarità che ospita la discrepanza; in videoterapia è la discrepanza che ospita la polarità. In entrambi i casi si crea una disidentificazione per poi arrivare a una nuova integrazione.
[1] La condotta è definita come l’insieme e la successione delle operazioni (fisiologiche, motorie, verbali, mentali) attraverso le quali un organismo in situazione riduce le tensioni che lo motivano e realizza le sue possibilità. Ci si vuole in tal modo riferire al quadro unitario e multidimensionale, in cui la sinergia delle operazioni che compongono la condotta realizza una articolata unità, espressa dall’obiettivo fondamentale dell’organismo vivente, che è quello di conservare la propria esistenza come sistema unitario e di esprimere le proprie potenzialità» Venturini R.,“Coscienza e cambiamento”, Cittadella Editrice, Assisi, 1995, pag.69.
[2] eseguita mandando avanti e dietro il nastro, accelerando o rallentando il movimento dell’immagine, fermandola, ripetendo un’inflessione della voce, mettendo in evidenza una sequenza comportamentale ecc.
[3] Nel lavoro gestaltico è fondamentale la definizione delle parti del sé e il loro processo di elaborazione (per es. il dialogo gestaltico nell’immaginazione guidata o nel role-playing), sempre nella reciproca relazione. In un certo senso l’intervento gestaltico si svolge lungo un processo di identificazione e disidentificazione con le polarità affettive/cognitive che lottano in modo esplicito o negato/rimosso. È da precisare che questa modalità di intervento non è da considerare una semplice tecnica in quanto è l’applicazione pratica del “principio dialogico” secondo cui sia le parti intrapsichiche sia l’individuo in relazione all’ambiente si determinano reciprocamente nel contatto e nel confronto. Questa operazione rende manifesta la struttura relazionale che fa da sfondo all’Io inteso come figura emergente.
[4] Con il termine intendiamo le ricorrenze di atteggiamenti posturali ed espressivi che sono appresi e/o si sviluppano nell’ambito familiare e sociale e diventano una sorta di schermo/interfaccia con il mondo.
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