La terapia DEL gruppo

Abstract

Abstract: Al contrario di quanto normalmente si faccia in Gestalt, cioè parlare di terapia IN gruppo, sottolineando quanto l’approccio sia focal- izzato sull’individuo senza spostare l’attenzione sulle dinamiche di gruppo, in questo articolo invece Quattrini mette in evidenza quali siano le risorse del campo (inteso nel senso di Lewin) e le tecniche final- izzate a creare e sviluppare i processi di crescita dell’individuo all’interno di un contesto gruppale.

Direttore G. Paolo Quattrini

Istituto Gestalt Firenze

di G. Paolo Quattrini

Direttore Scientifico Istituto Gestalt Firenze

 

Pubblicato sul Numero 38-39 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

Introduzione

Un gruppo (umano) consiste di componenti che occupano uno spazio determinato, concreto o metaforico.

Le domande allora sono:

– cosa sono, cioè in che modo esistono, queste componenti;

– come rispondono queste componenti alla legge dell’entropia;

– cosa è lo spazio;

– come sono relazionate le componenti fra loro;

– come trascendono come insieme la loro somma;

– cosa osserva la psicoterapia a questo proposito;

– come si orienta politicamente il gruppo.

Da un punto di vista esistenziale….

Gli esseri umani sono insiemi viventi, che dispongono di vari software per la sopravvivenza e a differenza di qualunque assemblaggio meccanico, dispongono di libero arbitrio. L’arbitrio è libero non in senso assoluto: se fra due opzioni si può fare una scelta (che non sia random), allora è in funzione una capacità di arbitrio libero. Data questa possibilità di arbitrio nasce la storiella di Schopenhauer:

“Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.”

L’etologia individua nel caso degli esseri umani quattro software di base per la sopravvivenza dell’individuo e della specie: fame, fuga, territorio e sesso. Il tema delle spine, gestito ordinariamente con la nota espressione mors tua vita mea, spostato in contesto umano non cambia sostanzialmente, ma passando da una logica della non contraddizione a una logica dialettica le soluzioni possono diventare molto più differenziate.

La vita, è naturale?

Nel campo della termodinamica da più di un secolo gli scienziati osservavano un’apparente contraddizione tra due leggi naturali: la seconda legge della termodinamica dichiara che il grado di disordine, di casualità o di caos, chiamato entropia, cresce costantemente nell’universo, d’altro canto si osserva però che molti aspetti della vita crescono e diventano sempre più ordinati, meno casuali.

Prigogine definì “aperti“ quei sistemi che hanno la capacità di scambiare energia e materia con il loro ambiente. Qualsiasi sistema vivente, o in crescita, nell’universo può essere considerato tale: un fiore che spunta, un’organizzazione che si arricchisce, una società che si struttura, un ecosistema che si sviluppa, o un essere umano che si evolve attraverso i continui scambi a vari livelli con il suo ambiente.

Una caratteristica comune di questi sistemi “aperti” è che sono in grado di mantenere la loro struttura e persino di crescere e di evolversi in sistemi ancora più complessi perché sono capaci di scambiare con l’ambiente, il quale assorbe il loro disordine. In altri termini, ciò significa che hanno la capacità di dissipare la loro entropia nell’ambiente1. In questo modo la quantità globale di entropia effettivamente cresce, rispettando la seconda legge della termodinamica2, mentre questi sistemi mantengono il loro ordine e addirittura lo accrescono, a spese, entropicamente parlando, del loro ambiente. Perché ciò accada i sistemi aperti devono possedere qualità come flessibilità, fluidità e capacità di adattarsi alle fluttuazioni dell’ambiente.

La capacità di adattamento ha i suoi limiti: esiste una soglia oltre la quale il sistema non è più in grado di adattarsi, cioè di dissipare l’entropia per mantenere il proprio equilibrio e la propria crescita. Questo limite dipende dalla complessità del sistema e dalla flessibilità della sua organizzazione interna. Quando l’impatto esterno diventa troppo forte e viene superato il limite di adattamento, il sistema, al suo interno, diventa instabile e caotico: se l’impatto continua ad essere troppo forte, il sistema registra una tale instabilità che si ritrova in uno stato estremamente delicato. In quel momento il sistema diventa imprevedibile nelle sue reazioni: alla fine, in queste condizioni particolari il sistema, secondo l’espressione usata da Prigogine, giunge a un “punto di biforcazione”. Si presentano allora due possibilità:

o collassa e scompare, dissolvendosi nell’ambiente;

o si riorganizza, ma a un livello superiore.

La caratteristica sorprendente di questa nuova organizzazione è che non ne costituisce affatto un miglioramento o una continuazione dotata di maggior capacità di adattamento: viene ricreata su princìpi diversi, che non hanno legame con quelli precedenti, perché funzionano all’interno di un’altra realtà.

Per far passare un elettrone dalla sua abituale orbita a un’altra, gli si deve fornire una gran quantità di energia e aumentare così la sua velocità, il che permette la sua espulsione dalla vecchia orbita per raggiungere la nuova: è ciò che viene chiamato salto quantico.

La stessa cosa avviene se si desidera fare un salto quantico di coscienza. Gurdjieff diceva: «Anche nel caso in cui l’uomo comprendesse, nella maniera più chiara, le sue possibilità, ciò non potrebbe farlo avanzare di un solo passo verso la realizzazione di esse. Per essere in grado di realizzare il proprio potenziale, egli deve possedere un desiderio di liberazione molto ardente, dev’essere pronto a sacrificare tutto, a rischiare tutto per la propria liberazione» (Uspenskij).

Se l’“accelerazione” diventa abbastanza grande può proiettarci sull’orbita successiva, là dove la realtà non ha più a che vedere con quello che abbiamo conosciuto prima: ma occorre molta energia. Per quanto riguarda l’essere umano, tale energia può provenire solo da una potente intenzione, con cui spesso è in grado di entrare in contatto solo a causa della sua sofferenza e della sua disperazione. Come si sa, “è poco prima dell’alba che la notte è più nera”: i grandi mistici hanno parlato della “buia notte dell’anima”, e la scienza ne dà una conferma. Questo salto quantico non è un processo dolce e delicato: eppure, arrivati in fondo all’abisso, nel momento in cui più niente ha importanza, arrivati al punto di biforcazione, allora può accadere qualcosa di incredibile.

Cos’è lo spazio?

Le fondamentali concezioni moderne dello spazio sono due:

– una è quella newtoniana di spazio come contenitore di oggetti concreti,

– l’altra è quella leibniziana di spazio come rapporto fra questi oggetti.

Se per il mondo meccanico il concetto newtoniano di spazio è tanto funzionale da essere indiscutibile, già nel mondo della fisica quantistica non è così evidente, e pensarlo in termini di relazione energetica fra le particelle risolve vari problemi: in campo psichico basta pensare all’espressione essere vicino come metafora di campo energetico affettivo, per capire che qui il concetto leibniziano di spazio ha parecchie chances di poter essere funzionale.

Per Leibnitz l’essenza dei corpi non può essere l’estensione, perché questa non basta da sola a spiegare tutte le proprietà corporee. Questo significa che c’è qualcosa che è al di là dell’estensione e del movimento, che non è di natura puramente geometrico-meccanica e quindi fisica, ma è di natura metafisica: è la “forza“, da cui derivano sia il movimento che l’estensione.

Lo “spazio” diventa, per Leibniz, un “phaenomenon”, ossia un modo di apparire a noi della realtà, anche se non si tratta di mera illusione, bensì di” phaenomenon bene fundatum”. Lo spazio altro non è che l’ordine delle cose che coesistono nello stesso tempo, ossia qualcosa che nasce dalla relazione delle cose fra loro. Non è, dunque, una entità o una proprietà ontologica delle cose, ma una risultanza del rapporto che noi cogliamo fra le cose. Pertanto, è phaenomenon bene fundatum, perché si basa su effettive relazioni fra le cose; ma è phaenomenon perché non è di per sé un ente. In conclusione: lo spazio è un modo di apparire soggettivo delle cose, pur con fondamento oggettivo (le relazioni fra le cose). Analoghe conclusioni valgono, mutatis mutandis per il tempo.

Ma come può una sostanza semplice contenere in sé una molteplicità infinita come la somma di tutti gli avvenimenti della vita e, riferirsi anche all’intero universo? La risposta del Leibniz è questa: la sostanza semplice ha la stessa natura del nostro spirito, capace di contenere nella sua semplicità infiniti pensieri. Ciò significa che l’universo è contenuto nelle sostanze in forma di “rappresentazione“. L’essere della sostanza è un rappresentare: è percezione, ed è passaggio da una percezione all’altra in virtù di un’appetizione (una in-tensione), per cui il presente della sostanza tende verso il futuro.

La piega per Deleuze

Deleuze trova un esempio dello spazio leibniziano nella piega dell’architettura barocca: piuttosto che decorazioni, quello che abita le facciate barocche sono un infinito susseguirsi di pieghe che alterano la percezione e mostrano forme differenti a seconda dell’inclinazione del punto di vista, e moltiplicano le superfici creando un mondo grande in uno spazio ristretto attraverso una forza che differenzia la percezione e la in-tende in ogni direzione. Il risultato è una molteplicità contenuta in uno spazio limitato, che metaforizza bene la molteplicità psichica del mondo intrapsichico.

‹‹il Barocco non rimanda a un’essenza, ma piuttosto a una funzione: nonsmette mai di fare pieghe, avvolge e riavvolge le pieghe, le spinge all’infinito, piega su piega, piega secondo piega››

A differenza che nello spazio newtoniano, contrato sulla discontinuità degli oggetti contenuti, importante qui è la continuità delle forme: ad esempio, spostando all’infinito uno dei fuochi di un’ellisse si forma una parabola. In un mondo apertoall’infinito, come quellobarocco, le coniche hanno un’estrema importanza: si fa perdere d’importanza ogni centralità e ci si misura con diverse visioni, fondando così un oggetto chenon esiste se non nelle sue trasformazioni, nella sua variabilità, secondo leggi di prospettivismo, fondanti non una relatività della verità (a ognuno il suo) ma, come dirà Deleuze,una ”verità della relatività”.

Un tessuto, un foglio di carta, il linguaggio: la piega lacera i luoghi che attraversa e, conseguentemente, la difficoltà di una sua fenomenologia consiste proprio in questo movimento di individuazione che non conduce mai alla nascita di una forma assoluta.

Come nelle pieghe del barocco, il mondo intrapsichico si articola all’infinito senza discontinuità, e le forme qui non sono oggetti, ma relazioni fra chi guarda e quello che è guardato. La forza della stabilità e del cambiamento risiede nell’in-tensione del soggetto, e l’attenzione va rivolta a questa se si vuole trasformare una situazione problematica. Se le pieghe provengono da un continum, presentano comunque un’apparente discontinuità, e su questa si può basare una logica dialettica, in quanto, come afferma Merleau-Ponty, la sintesi non è necessariamente un terzo oggetto, ma qualcosa che sta nel campo di forze dei due di partenza. La dialettica fra due pieghe può essere uno stato d’animo di chi osserva.

E’ un punto di vista diverso da quello usuale, che tende a considerare tutto come oggetti, e a cercare di gestirli razionalmente: il cambio di teoria dello spazio è fisiologico a un cambio di modalità di intervento terapeutico, che si rivolga all’interlocutore come soggetto non controllabile.

Realtà oggettuale e realtà relazionale

Quando si parla di realtà, nell’ambito psicologico in particolare bisogna distinguere fra quella degli oggetti e quella delle relazioni fra gli oggetti in questione: se per definizione esistono (cioè sono nel tempo) gli oggetti, esistono (cioè sono nel tempo) anche le relazioni. Anche se, secondo la fisica quantistica, perché queste possano venire a esistere concretamente deve esserci qualcuno che le osserva e ne trae delle conseguenze, altrimenti, come nel caso del gatto di Schroedinger3, esistono e non esistono allo stesso tempo4 in una sovrapposizione di stati.

A questo proposito Prigogine considera che chi vede si limita a ricevere sulla retina i fotoni che dalla sorgente luminosa rimbalzano sull’oggetto, e che allora non si può dire che è l’osservatore a fare esistere concretamente la situazione, ma piuttosto che sono le particelle subatomiche in continuo movimento nell’universo a ottenere questo effetto. Se sono queste ultime che fanno precipitare gli eventi, l’irreversibilità è causata dal fatto che nel mondo non esistono isolanti adiabatici, che tutto è in collegamento con tutto, e che la possibilità deve comunque precipitare, prima o poi (in tempi cosmici naturalmente), nell’irreversibilità di una delle possibili opzioni. Tutto tende a precipitare verso eventi che non possono tornare indietro, come per esempio la morte: un organismo che ha un incidente potrebbe morire o potrebbe sopravvivere, ma una volta morto la potenzialità della sopravvivenza si annulla e morto resta, a prescindere dalla presenza di eventuali osservatori5.

Se in fisica questa discrepanza fra Schroedinger e Prigogine non permette di localizzare con chiarezza se e quando il possibile precipita in atto, nel campo della psicologia appare abbastanza evidente che le potenzialità relazionali diventano reali quando precipitano in una azione6.

Il concetto di realtà assume da questo punto di vista un aspetto peculiare: si riferisce a qualcosa che c’è e insieme a qualcosa che si annuncia in modo sfumato, nel quadro di una vera e propria “fuzzy logic7, una logica cioè in cui gli eventi hanno un andamento “a percentuale” e non rispondono ad alternative drastiche come si o no: come per il gatto di Schroedinger, l’eventualità esistenziale che si situa nel mondo interno della persona (in una sovrapposizione di stati o almeno in un miscuglio statistico) diventa atto solo al momento che un osservatore viene coinvolto e reagisce personalmente alla situazione.

La realtà psichica è discontinua, come direbbe Newton, o piegata, come direbbe Deleuze, come quella fisica: come l’unità degli oggetti materiali è data da una particolare posizione degli atomi che li compongono, così l’unità psichica è data dalla reciproca distanza delle componenti. Le stesse componenti, distribuite in modi diversi danno risultati diversi, e così la distribuzione dei nuclei di senso comporta configurazioni e funzionalità diverse. Elaborando per esempio col metodo delle costellazioni le distanze fra i membri di un gruppo o anche fra le parti interne della persona, si possono ottenere risultati molto differenti da un punto di vista funzionale, estetico ed etico. Nelle costellazioni si trasforma lo spazio newtoniano in spazio leibniziano, e le distanze diventano personali, cioè dipendono dal legame affettivo, energetico, fra le parti e non dalla posizione fisica che queste contingentemente assumono.

Le relazioni fra gli oggetti sono dunque realtà potenziali fino a che non collassano in fatti attraverso l’interazione col mondo circostante: a questo punto le potenzialità delle relazioni diventano fatti irreversibili, irreversibili perlomeno senza ricorrere a grandi dispendi di energie, o a volte anche malgrado questo. Il concetto di irreversibilità è fondamentale nella gestione dell’esistenza umana: a parte il tema della morte, se per esempio molto banalmente un’automobile sbatte e si accartoccia, non può tornare come prima senza che si debba spendere molti soldi da un meccanico.

Si tratta di una legge universale, la cosiddetta entropia positiva, le legge del decadimento dell’energia8: a questa si oppone l’entropia negativa, un fatto di cui la vita è un esempio evidente. Qui la tendenza naturale della materia a stati di aggregazione destrutturati viene contrastata in direzione dell’ordine attraverso lo sfruttamento dell’energia del mondo esterno al sistema in questione, come per esempio una persona che si scaldi a un fuoco bruciando la legna, e che da questo calore ottenga l’energia necessaria per mantenere in vita il suo organismo, contrastando in questo modo la tendenza naturale a un raffreddamento che si concluderebbe con la morte e la destrutturazione della sua organizzazione cellulare.

Per capire come la relazione in sé sia una potenzialità, basta considerare un esempio: Giuseppe odia Antonio è una relazione, e in sé non significa nulla riguardo a quello che accadrà fra loro, perché da lì mille strade si dipanano in tutte le direzioni possibili che solo le scelte delle persone coinvolte possono trasformare irreversibilmente in realtà concrete. La potenzialità comunque annuncia il futuro: se è l’inizio di molte possibilità, non lo è di tutte, e gli eventi si svolgono a partire da quelle potenzialità. In questa maniera realtà oggettuale e realtà relazionale sono ineluttabilmente connesse fra loro, e formano insieme quella che in ambito psicologico chiamiamo tout court realtà.

Se la realtà in senso psichico è dunque in parte in atto e in parte in potenza, il senso della realtà degli eventi cambia a seconda delle persone coinvolte e delle loro capacità di vedere l’invisibile, cioè le potenzialità non ancora precipitate in atto: la previsione della potenzialità si chiama generalmente immaginazione, ed è poi questa che può modificare nelle persone il loro senso della realtà. L’immaginazione è sia passiva che attiva9, e in questa seconda versione si può sviluppare volontariamente oltre il limite delle proprie dotazioni naturali: imparare a immaginare significa riuscire a vedere una realtà più vasta10, un mondo più ricco di spazi di movimento.

Qui entra in ballo la percezione gestaltica11: le Gestalt infatti sono insiemi di oggetti e relazioni, percettibili come unità attraverso quella specie di calcolo su grandi numeri che è l’intuizione. Per intuire bisogna immaginare, cosa che in matematica corrisponde all’incirca al concetto di interpolazione e di estrapolazione: se da tre punti si può individuare una curva, questo implica che la si può “vedere” anche fuori dai tre punti dati, e quindi oltre il visibile. La percezione sensoriale è limitata agli oggetti, ma per i bisogni che l’esistenza umana comporta è necessario accorgersi anche delle relazioni che questi hanno fra loro e proiettare le situazioni nel futuro, vale a dire entrare attraverso l’immaginazione nel mondo della realtà potenziale: oggetti e relazioni possono creare questi insiemi di senso che sono le Gestalt attraverso un lavoro di costruzione graduale, che per le difficoltà intrinseche e le vicissitudini della quotidianità non di rado rimane però incompleto.

Se nella tradizione psicoterapeutica una pratica importante è quella della chiusura delle Gestalt incompiute, che assorbendo un’attenzione continua anche se non necessariamente consapevole nel tentativo di concludersi, comportano un grande spreco di energia per la persona, Shraga Serok 12, un gestaltista israeliano, propose alcuni anni fa che il vero problema nella psicoterapia sia piuttosto incrementare l’apertura di nuove Gestalt, che allarghino l’orizzonte esistenziale della persona tirandolo fuori da panorami ristretti e ripetitivi, e incamminandolo possibilmente in una via di trascendenza.

Cosa significa trascendere

Il termine trascendere ha molti usi nella storia delle lingue, ma forse il più interessante è anche il meno conosciuto: la sintesi trascende tesi e antitesi, e il principio di pregnanza si applica anche alla realtà meccanica. Che l’insieme trascenda la somma delle parti implica che per esempio una macchina montata adeguatamente è più della stessa macchina smontata: in questo caso infatti non può svolgere le funzioni per cui è stata progettata. Per trascendenza si può intendere dunque quel più della somma delle parti, che nel caso degli esseri umani sarebbe il più di tutte le strutture, gli istinti, le capacità che ha l’organismo, e che orientandosi sul senso del valore è in grado di fare scelte creative aldilà di una conoscenza razionale della realtà.

Conoscere è fondamentalmente un’operazione concettuale, perlomeno per quello che riguarda le correlazioni fra ciò che è conosciuto, e la filosofia è quella che dalla notte dei tempi se ne occupa. La filosofia occidentale è orientata su due tronconi fondamentali, iniziati da Hegel e da Kant: Hegel è il filosofo della scoperta, Kant è il filosofo dell’invenzione. Hegel pensa in termini di totalità, Kant pensa in termini di infinito. Queste due direzioni non sono più o meno giuste, sono due punti di vista che danno risposte diverse alle domande che gli esseri umani si pongono: per esempio il senso c’è e si scopre, oppure si inventa?

Anche la fenomenologia pensa in termini di infinito: l’infinito è un posto dove il senso c’è e non c’è, se ti dai da fare lo trovi, altrimenti rimani seduto sulle discariche. In un’ottica di totalità, invece, non importa se siedi sulle discariche, tanto il senso c’è comunque: le basi filosofiche non sono vere o false, ma sono relative. Una base filosofica è una mappa, e una mappa è qualunque cosa sia non è il territorio. Questo significa che non c’è una verità sola: per conoscere si deve ragionare in termini di differenza fra mappe e territorio, cioè deve stare con un occhio sulla mappa e uno sul territorio.

La base invece del pensiero filosofico greco, da cui deriva il mondo occidentale, sono gli oracoli. Prima di Socrate c’erano i presocratici e questi erano strettamente in contatto con il mondo degli oracoli. Il mondo degli oracoli era qualcosa di assolutamente non indagabile. Il mondo oracolare è una forma mediterranea del mondo sciamanico, un mondo di conoscenze profondissime e straordinarie, in parte utilizzabili anche nel nostro mondo: un mondo della trascendenza, cioè dello spirito.

Lo spirito non si conosce, lo spirito si vive e basta: non ha regole, non ha struttura, non ha cose che si ripetono e quindi non può essere maneggiato in maniera conoscitiva. Diceva Adorno: ”Indagare l’anima sarebbe a rigore cercare a tastoni qualche cosa che non c’è”. Non perché l’anima non esiste, ma perché è qualcosa che si presenta senza necessità, trascendendo le sue basi biologiche. Non c’è modo di indagare meccanicamente i livelli della trascendenza: vanno vissuti direttamente, e l’umanità ha imparato a fare tesoro dell’esperienza degli altri quindi quando qualcuno decide di entrare in questi mondo, se può di solito ci va con qualcuno che ci è già stato.

Istinti e sublimazione

Il linguaggio comportamentale, come tutti i linguaggi, per definizione non è a senso unico: non è fatto per essere un monologo ma un dialogo, cioè la persona mentre parla sta in relazione con la risposta dell’interlocutore, e co-costruisce l’interazione in funzione dei suoi bisogni esistenziali. Ora, se si pensa che un essere umano è un organismo, bisogna ammettere allora che questi sono i bisogni dell’organismo. Una legge basilare dell’organismo è il fatto che nell’uomo ci sono quattro famiglie di istinti, cioè quattro famiglie di spinte base: fame, fuga, territorio e sesso: tutto il mondo psichico conosciuto è composto da queste quattro parole base e dalle interazioni fra loro.

Le quattro famiglie di istinti e emozioni (le percezioni cioè soggettive degli istinti) che connettono la persona con il mondo esterno, connettono la persona anche con il “di più” delle componenti del mondo. Questo “di più” lo si chiama in tante maniere, cultura, spirito, trascendenza, eccetera: Freud lo indicò come l’oggetto del processo di sublimazione. La fame di cose da mangiare è un fenomeno che dipende dall’istinto di nutrizione, indispensabile per la sopravvivenza, ma la fame può essere sublimata, cioè rivolgersi a un oggetto che non è il cibo ma per esempio la conoscenza: l’istinto di base è biologico, ma l’oggetto di investimento è culturale, cioè si riferisce a un “di più” delle parti che compongono l’organismo. Il comportamento connette a oggetti e persone, e a tutto questo mondo invisibile che è l’interazione fra le persone, fra le persone e gli oggetti, fra il passato, il presente e il futuro: se la situazione è infinitamente più larga e complicata del suo sostrato biologico, è comunque appoggiata sulle stesse parole base, che si articolano in discorsi variamente complessi.

L’esistenza della sublimazione dipende dal principio di pregnanza, dal fatto cioè che l’intero è più della somma delle parti, cosa che non è semplicemente un’affermazione ideologica, ma pura matematica: nella teoria degli insiemi si dimostra infatti che l’insieme è più della somma delle parti: Per sublimazione si intende lo spostamento da un piano concreto, nella fattispecie quello degli oggetti biologici delle pulsioni, a un piano superiore, cioè culturale, per così dire “spirituale”. Il procedimento è quello dialettico, tesi antitesi e sintesi: l’istanza biologica si scontra con un impedimento di qualche tipo e per non essere schiacciata è costretta a raggiungere un livello energeticamente superiore dove c’è spazio per tutti e due, cioè la sintesi. Che questa sia più della somma delle parti non è semplicemente un’affermazione ideologica, ma pura matematica: è la teoria degli insiemi che dimostra come l’insieme sia più della somma delle parti.

Un esempio: un frullatore è fatto di varie componenti, ma lo strumento frullatore è la somma di quelle parti più la capacità di frullare, che non è una delle parti, ma dipende dall’effetto composizione, cioè dai rapporti fra le parti. Spostando una componente, il frullatore non frulla più: questo comporta che esiste qualcosa d’altro oltre alle parti, diciamo così, materiali, qualcosa che con gli occhi non si vede. Un altro esempio. Una coppia non è fatta solo della somma di due persone, è fatta della loro somma più tutto quello che passa fra loro: questo non si vede direttamente, però si vede dagli effetti, ed è di importanza fondamentale. C’è una grande differenza fra due persone che non si conoscono messe insieme in una stanza e due persone che hanno rapporti da tempo, perché quelli che già si conoscono hanno fra di loro un mondo più o meno complesso.

Problemi della trascendenza.

E’ la matematica insiemistica che afferma che l’insieme trascende la somma delle parti. Il di più ha a che fare con l’effetto composizione, dipende cioè da come sono connesse fra loro le parti e da cosa questo produce: il di più è invisibile, come è invisibile l’insieme orologio, che si può vedere solo con gli occhi dell’immaginazione. Vanamente cercheremo di far riconoscere un orologio come tale a un gatto. In altre parole, se le parti di un essere umano sono visibili, è invisibile l’insieme, ed è per questo che in genere l’ottica cognitivista lo ignora. Il problema è come confrontarsi con l’invisibile, dato che è allo stesso tempo fondamentale e non si vede.

Dall’inizio dei tempi gli esseri umani immaginano divinità e vita dopo la morte, e questo è appunto un modo di sporgersi fuori del mondo degli oggetti concreti in quello della realtà potenziale. Da questo punto di vista si può considerare che non ci sono divinità vere e divinità false, tutte sono potenzialità che vengono ad esistere al momento che gli esseri umani le intuiscono e le fanno diventare la prospettiva del loro agire13: “Dio è nel cuore degli uomini” si dice spesso, cioè le religioni sono appoggiate su percezioni gestaltiche, naturalmente di spessore molto differente l’una dall’altra. E’ comprensibile da questo punto di vista che gli esseri umani arrivino fino a farsi uccidere per i propri Dei, cioè per il senso della vita che questi supportano, e si capisce così anche il titolo di quell’opera di Wagner che è “il crepuscolo degli Dei”: come nascono, infatti, gli Dei anche tramontano, quando nessuno li intuisce più e nessuno vive più in funzione della loro realtà, e allora diventano solo ricordi del passato.

Ora, è importante rendersi conto che se tutto quello che trascende è, almeno potenzialmente, reale, non è necessariamente anche buono: ci sono state divinità perfide nella storia dell’umanità, e trascendenze senza Dei mostruose come il nazismo. Se consideriamo la trascendenza, cioè l’insieme, come qualcosa che è più ma non necessariamente meglio14 della somma delle parti, bisogna sviluppare un approccio critico che permetta di avvicinarcisi con criterio: non basta infatti semplicemente che qualcosa trascenda i suoi componenti per esserne migliore.

Se la trascendenza non è da sola un criterio preferenziale, sembra evidente che bisogna allora tenere conto del problema del valore15, che secondo la tradizione classica è articolabile in etica estetica e logica: dovremo sempre chiederci cioè come la trascendenza in esame si situi rispetto a questi tre piani di esperienza. Le religioni insomma non possono sottrarsi con la presunzione dell’assolutezza al vaglio etico, come ce ne sono di buone ce ne sono anche di cattive: una religione che apprezza il massacro degli avversari si può dire per lo meno che non ha un respiro universale16. Naturalmente le religioni organizzate sono vere e proprie culture, pervase inevitabilmente da molte componenti, oltre che dalla dimensione spirituale anche per esempio da un banale afflato nazionalista: è questo che può spiegare l’assurdità dei preti che benedicono gli eserciti in marcia, magari verso una nazione che professa la stessa religione.

Ogni specifica trascendenza insomma esiste in senso potenziale, e diventa evento nel momento che precipita nell’irreversibilità attraverso gli atti di qualcuno che agisce appunto in base a questa, vale a dire in definitiva in base all’intuizione previe di questa: una ideologia per esempio diventa realtà concreta quando qualcuno ne fa una pratica di vita. All’area delle trascendenze appartengono infatti anche le ideologie, che come sappiamo nascono e muoiono continuamente nella storia umana: non si tratta mai di posizioni definibili in base a un criterio di verità, si tratta sempre di basi teoriche di possibilità concrete, più o meno dotate di valore e valutabili in base a questo.

Per quanto riguarda la psicoterapia, che è un sistema di idee che trascendono il concreto e cioè insomma è un’ideologia, appare chiara la necessità che le persone, in merito ai comportamenti da tenere nella relazione col mondo, allarghino le proprie considerazioni a un orizzonte, cioè al punto estremo verso dove si orienta la loro vita. E’ altrettanto chiaro quanto sia importante che questo orizzonte diventi consapevole per la persona stessa, in modo che lo possa riferire al senso del valore articolandolo secondo scelte che possono più o meno differire dall’orizzonte ereditato dal contesto culturale di provenienza. Che questo orizzonte abbia l’aspetto di religione o di ideologia è meno importante rispetto invece al fatto che sia scelto responsabilmente in base al senso del valore, il quale è congruo all’insieme ed è percepibile dunque solo con l’intuizione, ma è verificabile con l’immaginazione dei suoi effetti e con la pratica dell’empatia, cioè del mettersi nei panni delle persone che coinvolge.

Il significato del termine empatia, cioè di come si possa percepire cosa sente qualcun altro, fu ben illustrato con un escamotage teorico da Heinz Kohut, uno psicoanalista americano: Kohut affermò che la psicologia è un campo definito dall’empatia, cioè affermò ex catedra che la psicologia non esisterebbe senza l’empatia, la quale è, in parole povere, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, e che è dimostrata appunto dall’esistenza dalla psicologia, e ben prima, dal teatro. Chiunque ha un po’ di pratica di teatro sa che il bello non è quando un attore fa una sedia e quella sedia sembra l’attore, ma quando quell’attore sembra miracolosamente la sedia che mette in scena: in altre parole l’attore si mette veramente nei panni dell’altro non quando fa diventare il personaggio simile a se, ma quando diventa simile al personaggio.

Come ci si possa riuscire, pur tenendo conto dei neuroni specchio e dello sviluppo dell’immaginazione è per la verità piuttosto un mistero, un mistero alla fine da contemplare piuttosto che da svelare: è questo comunque che permette di sviluppare un gusto etico, dato che per sapere qualcosa del contesto in cui si sta operando bisogna vivere l’insieme, e pervivere l’insieme bisogna percepire le persone che ci sono implicate, e per di più dal loro punto di vista, altrimenti c’è un protagonista e il resto sono solo figure disegnate sui fondali.

Perché nella percezione dell’insieme l’altro risulti come individuo, bisogna avere visto il mondo con i suoi occhi, bisogna cioè averlo percepito empaticamente. L’empatia è fondamentale per capire qualcosa degli esseri umani, cioè per capire chi è il soggetto che si ha davanti, e mettersi nei panni degli altri è l’unica possibilità per stare dentro un contesto vivo, non unidirezionale come se si fosse la lampadina e tutto il resto fossero ombre: gli altri sono in realtà altre lampadine.

Riuscire a percepire empaticamente l’altro dipende da molte variabili, una delle quali è l’espressione: è più facile intuirne il mondo interno se una persona si esprime piuttosto che se non lo fa. Per capire la logica dell’espressione, aiuta il concetto di spazio transizionale elaborato da Winnicott, che oltre allo spazio interno e a quello esterno individua uno spazio mediano che non è del tutto interno né del tutto esterno, ed è il luogo che viene abitato dagli oggetti transizionali, come sono per esempio i giocattoli, il cui senso non è autonomo ma riposa in un investimento particolarmente intenso da parte della persona che ci gioca. Oggetti altrettanti transizionali sono le parole, le quali per esempio non sono comprensibili per chi non parla la lingua a cui appartengono: l’espressione verbale è appunto il prodotto del parlare, che, situandosi in uno spazio che non è più interno ma non è ancora esterno, espone ai rischi meno dell’azione.

Se consideriamo che le potenzialità diventano realtà nel momento che vengono messe in atto, e che l’espressione è un tipo di atto a basso tasso di rischio, si può allora capire l’importanza centrale dell’espressione nella psicoterapia, sia perché qui si possono mettere in atto cose estreme su un livello di relativa non pericolosità, sia perché le espressioni sono correggibili e quindi parzialmente reversibili, e per questo possono rappresentare un piano di sperimentazione che si muove verso atti verificabili e indirizzabili verso mete scelte dal libero arbitrio, quindi suscettibili di considerazioni responsabili di valore etico estetico e logico, che non di rado sono impedite dall’esigenza di rapidità di scelta che gli eventi della vita quotidiana comportano.

All’area delle espressioni appartiene anche il feed back, che fa parte integrante della pratica psicoterapeutica, in particolare di quella di indirizzo fenomenologico esistenziale: comunicare i propri feed back durante il trattamento è essenziale, se si vuole che il mondo degli avvenimenti interni diventi parte dell’esistenza concreta delle persone, e per questo è una modalità fondamentale di questo orientamento psicoterapeutico. Lo sarebbe naturalmente altrettanto anche in ambito quotidiano e sociale: nessuno ha permesso a suo tempo alle streghe che venivano bruciate sul rogo di manifestare cosa sentivano e cosa pensavano di quelli che ce le mandavano. Può darsi che in quel caso non sarebbe servito a molto, ma certamente sarebbe molto utile, per esempio nel contesto familiare, che i componenti del gruppo comunicassero l’effetto che gli altri gli fanno invece di reagire difensivamente o aggressivamente: nella terapia della famiglia di orientamento fenomenologico esistenziale manifestare agli altri il proprio vissuto invece di agirlo risulta infatti uno strumento centrale per operare cambiamenti nella direzione della qualità della vita delle persone.

Se insomma la realtà comporta l’atto ma anche la potenzialità, sia in ambito politico che in quello intrapsichico un orizzonte fondamentale è l’ideologia della democrazia, che contempla la diversità non come inimicizia ma come contrapposizione dialettica, e dove l’orizzonte si apre in una direzione solo immaginabile, ma tuttavia verificabile responsabilmente in un’ottica di valore, e dove la realtà è abitata da parti diverse e incommensurabili, non riducibili cioè a un denominatore comune, ma che possono dirigersi verso sintesi che le accolgano tutte quante.

A questo proposito è inevitabile riflettere sul tema della logica: se nel sentire comune questa si identifica generalmente con la logica formale, basata sul principio aristotelico di non contraddizione, cioè di esclusione degli opposti, questa però non è l’unica logica possibile e conosciuta nella cultura occidentale. Bisogna tenere presente che siccome qualunque costrutto teorico si basa necessariamente su presupposti che stanno fuori del costrutto stesso17, anche le logiche hanno dei presupposti: molto tempo dopo Aristotele, Hegel sistematizzò nel pensiero occidentale la logica del processo dialettico, dove gli opposti invece di contrapporsi ed essere considerati secondo il principio di non contraddizione, possono coesistere in modo funzionale ed essere indispensabili per la formazione di una terza realtà: tesi e antitesi, gli opposti per antonomasia, che si fondono in una sintesi. Si tratta evidentemente di una vera e propria trascendenza, in quanto per avere spazio per ambedue gli opposti, rispetto a quello in cui questi si contrappongono deve esserci un livello di realtà più largo, più ricco energeticamente, metaforicamente parlando superiore, e da qui il termine trascendente, per significare qualcosa che “è come se salisse sopra”.

Se Hegel lo vedeva un cammino verso l’assoluto, con Merleau Ponty la fenomenologia introduce una variante alla metafora: la sintesi non è qui un terzo oggetto, ma un accadimento all’interno del campo di forze fra gli opposti, i poli, come si chiamano nella PTG. Se per esempio sentire e pensare sono realtà incommensurabili, non riducibili cioè una all’altra, il campo di forze che questa irriducibilità comporta è lo spazio dove si manifesta l’azione, che senza essere un oggetto, è una realtà di ordine differente che sintetizza sentire e pensare in qualcosa che non può fare a meno né dell’uno né dell’altro.

La dialettica hegeliana implica l’idea di uno spazio infinito che contenga oggetti, potenzialità e avvenimenti, un infinito in grado di accogliere qualsiasi cosa, che fa per questo da prospettiva illimitata dove potenzialmente si possono collocare i prodotti della creatività. Si tratta di un’idea, di una rappresentazione del mondo, ma al momento che si propone come pratica diventa anche un’ideologia e una via di trascendenza, e su questa si basa quell’altra trascendenza che è la democrazia, sistematizzata teoricamente sulla logica dialettica18. La democrazia, politica e intrapsichica, è una scommessa sul futuro, un’aspettativa di poter creare a partire da forze contrastanti una realtà nuova e trascendente dove c’è più posto per tutto e per tutti: in questo senso coincide con le prospettive etiche della psicoterapia a orientamento fenomenologico esistenziale, e per questo ne è l’orizzonte sul piano della pratica psicoterapeutica.

Ora, la psicoterapia in realtà non si applica primariamente ai disturbi mentali: la richiesta fondamentale riguarda piuttosto il miglioramento della qualità della vita. Le persone dichiarano spesso di avere una qualità di vita scadente, e non è la morale che la può migliorare: utilizzare la morale in questo caso sarebbe come entrare in una casa, spazzare, pulire e mettere tutto a posto: se la casa è uno schifo resta uno schifo, magari uno schifo pulito invece che sporco. Il fatto è che le interazioni fra gli esseri umani spesso sono sentite prive di vita, come se, sul piano artistico, fossero scarabocchi invece di quadri: sono in realtà cose fatte in un senso funzionale, ma la funzionalità da sola non fa la qualità della vita, che è data dalla qualità dell’interazione con gli altri, dalla qualità dello scambio, la quale è misurabile solo col metro etico19.

C’è una differenza teorica fondamentale fra il concetto di morale e il concetto di etica, che invece spesso vengono confusi fra loro: la morale è la valutazione astratta di un singolo comportamento, mentre l’etica è la valutazione dell’insieme dei comportamenti che fanno una situazione. Un singolo comportamento astratto da un contesto, nella realtà non esiste: la vita è fatta di tanti comportamenti articolati fra loro all’interno di contesti sempre differenti. Per esempio, moralmente parlando è proibito uccidere, però dipende dalle situazioni: se qualcuno ci aggredisce, per legittima difesa si può uccidere. La situazione della legittima difesa, più larga dell’atto stesso, fa sì che uccidere un aggressore può diventare anche apprezzabile eticamente: la persona in questo caso può essere vista addirittura come eroica.

In realtà è impossibile dire dove comincia e dove finisce una situazione, cosa dà i contorni della situazione. Ognuno percepisce l’insieme a modo suo: a seconda di dove comincia e di dove finisce la situazione è diversa, e quindi la valutazione etica cambia secondo il contesto in cui è collocata.

L’etica insomma non può prescindere dallo stare dentro l’orizzonte degli eventi.

Contemporaneamente ha anche bisogno di un campo lungo che situi l’evento in un contesto tendenzialmente universale: solo a questo prezzo si raggiunge credibilmente la dimensione di valore. Non esiste un’etica oggettiva, una ricetta cioè per fare qualcosa di valore etico. L’etica è un’esperienza personale e intersoggettiva, è quello che si può chiamare l’esperienza del buono: qualcosa che ha un valore etico lo si riconosce nella percezione delle persone implicate nel contesto: kalós kai agathós, bello e buono, così nella tradizione greca classica si indicava il segno della qualità20.

Se il metro estetico è il metro di ciò che è bello, quello etico è dunque il metro di ciò che è buono, Non di rado si pensa che una cosa etica sia noiosa e faticosa, e che per farla bisogna reprimersi, altrimenti si farebbe qualcos’altro. Questo è un totale errore di valutazione, perché se la morale è noiosa, perché è astratta e staccata dalla realtà concreta, l’etica è esattamente il contrario. Sarebbe come dire che l’estetica è noiosa: un quadro meraviglioso può costare lacrime e sangue al pittore, ma il risultato è tale che per lui il gioco vale la candela. Per l’etica è lo stesso: l’etica è la misura del buono, e quando succede qualcosa di buono tra le persone è interessante, affascinante, è una meraviglia, ricompensa immediatamente, non serve per raggiungere un paradiso futuro, è qualcosa che soddisfa nel qui e ora.

Il cristianesimo è stato in un certo senso l’inventore dell’etica, e probabilmente la democrazia funziona principalmente nell’area cristiana perché malgrado duemila anni di mostruosità di ogni genere, fra cui l’inquisizione, è come se un sottile rivolo di quello che era il messaggio iniziale sia arrivato fino a noi ed esista tutt’ora, trasformato in mille maniere: si riconosce chiaramente in questa particolare ideologia della libertà e della verità che hanno gli occidentali. La democrazia insomma, che a queste ideologie è legata politicamente, è con tutta probabilità figlia diretta del cristianesimo, ed è comunque concepibile solo pensando che le persone abbiano un gusto etico, che siano cioè non solo in grado di rispettare le proprie leggi, ma anche di scriverle in ottica di libertà e verità.

Al fatto che il cristianesimo è basato sull’etica e non sulla morale è plausibilmente legato il fatto che la democrazia si è allargata a quasi tutta l’area cristiana, e a questo proposito è interessante considerare la differenza fra il cristianesimo e l’ebraismo da cui nasce. Guardando le fonti cristiane si vede che il tema fondamentale di quest’ultimo non è quello di contrapporre una nuova morale a quella esistente, Cristo infatti non ha emanato nessuna legge, e la nascita della nuova religione è relativa piuttosto al passaggio dalla morale (che nella cultura ebraica era articolatissima nei dettagli) all’etica, che sta nell’esperienza. Nello scontro con i Farisei per esempio, che prendevano la legge alla lettera, Cristo si oppose, si potrebbe dire, alla reificazione della legge, e propose appunto il primato del senso etico nel comportamento. Le parole poi “lasciate che i bambini vengano a me”, implicano che quello che lui insegna lo possono imparare anche loro, che è quindi qualcosa di esperibile direttamente e che non richiede elaborazioni teoriche possibili solo agli adulti. Leggendo le parole di Cristo, ci si accorge fra l’altro che, per rivestire valore, non hanno bisogno di nessun tipo di credenza previa: a prescindere da chi le abbia dette, quelle parole hanno di per sé soprattutto valore etico, dimostrano in realtà l’esistenza stessa dell’etica. Le sue parole evocano il superamento dell’attaccamento alle cose del mondo, così limitate nel loro orizzonte, e l’ascesa verso l’alto, elementi fondamentali nel suo insegnamento: non diceva cosa si fa o non si fa, diceva “guardate in alto”, e “chi ha orecchi per intendere intenda”.

Anche nella tradizione buddista si utilizza il cielo come metafora dello spazio interno, e del resto guardata nella sua struttura dinamica, cioè con la differenziazione fra il Karma primario e quello secondario, la dottrina del Karma è abbastanza vicina al tema dell’etica. Il Karma primario consiste nel fatto che io sono qui, in questo momento, in queste condizioni, e questo è la conseguenza di tutte le scelte che ho fatto nel passato e dalle scelte che hanno fatto prima di me i miei genitori, e così via, una linea di conseguenze che inevitabilmente porta qui, e su cui nessuno ci può più fare niente. Ma sul Karma primario si articola quello secondario: qui e ora, in questo spazio-tempo stretto, si danno una quantità innumerevole di scelte possibili. Sulle base di qualunque Karma di partenza si possono fare comunque un numero infinito di scelte, che una volta fatte diventano fatti concreti e irreversibili, cioè Karma primario. Ora, le scelte hanno più o meno valore etico, e l’indicazione che si dà infatti nel mondo buddista è di non creare conseguenze: banalmente parlando vuol dire per esempio “lascia perdere, non ti vendicare, più che vai diritto per la tua strada meno provocherai conseguenze e meno ti legherai con debiti e crediti al limitato mondo materiale”, e in questo senso la scelta etica e l’uscita dal Karma sono analoghe. Nella tradizione buddista però la scelta etica non è necessariamente relazionale: è una scelta verso la libertà, ma qui la libertà è ricercata soprattutto attraverso la meditazione.

Nella tradizione buddista si dice che vale più un attimo di coscienza che anni di genuflessioni, nel senso che se anche le genuflessioni contano, conta di più la consapevolezza. Cosa sono le cose cattive? Intanto sono cose relazionali e non assolute e questo in parole molto semplici significa che non esistono cose cattive al di fuori di una relazione, non esistono cose cattive di per sé, cattivo è fare male a qualcuno, e non è neanche una cosa cattiva farglielo per sbaglio. Fare del male a qualcuno è una cosa cattiva se ci si guadagna qualcosa: quale che sia il guadagno è sempre su base concreta. Il cammino umano è orientato nello spazio e nel tempo dentro la polarità luce-buio, ed è per questo che la tradizione cristiana parla di Spirito Santo, implicando con questo che esiste anche lo spirito dannato.

Sia nelle religioni che nelle ideologie, la trascendenza è comunque invisibile: va immaginata, intuita e detta, altrimenti non diventa esistente. La sua invisibilità è detta anche ineffabilità, e ciò significa che la trascendenza non può essere detta, o piuttosto che non può essere detta una volta sola e definitiva: la trascendenza mantiene quella potenzialità che si può realizzare in innumerevoli atti diversi, cioè per ineffabile si può anche intendere inesauribile, ed è a questo che è indirizzata l’iconoclasia di tutte le tradizioni come protezione dalle reificazioni.

Il libero arbitrio si orienta fra due polarità possibili: si può scegliere la luce, come si può scegliere le tenebre. La luce esiste come polarità, non come assoluto, esiste perché esiste il buio e il buio esiste perché esiste la luce. Il cammino dello spirito ha senso fra queste due polarità, e non si muove in senso lineare, ma piuttosto contorto: a volte di qua, a volte di là, a volte nella luce, a volte nelle tenebre, a volte nel bene, a volte nel male. Non si può scegliere la luce senza conoscere il buio, e quindi non si può scegliere il bene senza conoscere il male: se una persona va verso la luce senza aver mai conosciuto il buio, questa non è veramente una scelta.

Il gruppo nel pensiero bioniano

Essendo un insieme di vari componenti, un gruppo può limitarsi a risultare una somma delle sue parti o trascendere in un insieme che la supera, in qualcosa insomma di spirituale: essendo l’insieme una creazione e non una deduzione non si può prevedere in anticipo in cosa riesca a trascendere. Come somma delle parti risulta fondamentalmente riconoscibile nei suoi componenti biologici, nei quattro istinti di base, fame fuga territorio e sesso, come ha osservato Bion.

Secondo Bion, l’individuo che cerca la propria identità è alla ricerca della verità cui sente di poter corrispondere: tutta la sua esistenza è tesa ad entrare in contatto con la verità, a conoscerla e comunicarla ad altri. L’analista dispiegherà la propria sensibilità al fine di entrare in contatto con la verità dell’analizzando escludendo durante il proprio lavoro le attività psichiche che possono distrarlo, in particolare la memoria e il desiderio.

La memoria è ciò che è già conosciuto e regolato in sistema, il desiderio è quello che stabilisce il fine e organizza la ricerca: escludendo tali processi, l’analista può rendersi più sensibile alla verità che l’analizzando cerca inconsciamente e non riesce a definire. Questo effetto si evidenzia nel gruppo con l’emergere dell'”idea nuova”, particolarmente in contatto con la verità, che prospetta una trasformazione del gruppo stesso. Tale trasformazione può avvenire se l'”idea nuova” è accolta e assimilata dal gruppo in analisi; e può avvenire nel mondo se un’altra forma composita, come la coppia, la famiglia o la società (un partito, un movimento, un sodalizio, ecc..), lo promuove legittimandone la pensabilità.

Bion definisce il gruppo come sistema composito integrato dalle distinte dinamiche dei componenti che sinergicamente contribuiscono alla costituzione in apparato psichico sovraordinato all’individuale. I gruppi dotati di un leader sono gruppi di lavoro: persone che si mettono insieme per uno scopo comune. Il gruppo di Bion è senza leader, senza un compito preciso da svolgere, senza uno scopo definito. In tali condizioni esso permette la rappresentazione esterna e la drammatizzazione della “gruppalità” interna di ciascun componente che così può dare espressione a parti della sua personalità in conflitto con i compromessi necessari alle relazioni inter-individuali, di coppia, familiari, gruppali e sociali. Può così emergere, nei gruppi senza leader, lo spaccato profondo della mente con la vita affettiva delle persone stesse. Il conflitto individuo-società, per Bion, è in primo luogo intrapsichico e come tale può essere rivelato e risolto nel lavoro del gruppo.

Bion indica gli assunti di base come importanti organizzatori della vita di relazione e delle forme sociali:

– l’assunto di base di accoppiamento, che si ritrova nelle formalità esteriori dell’aristocrazia, nel cerimoniale rappresentativo delle istituzioni e nella ricerca del consenso,

– l’assunto di base di attacco-fuga, che organizza le forme e i comportamenti finalizzati ad aggredire e a difendersi, dell’organizzazione armata e dell’esercizio diretto dell’azione da parte di un aggregato di individui,

– l’assunto di base di dipendenza, che riguarda l’attesa che i bisogni siano soddisfatti per un potere esterno al gruppo, attraverso la delega, con la rinuncia all’esercizio di un diritto o per passività verso un ente superiore reale (ad es. lo Stato) o immaginario (ad es. attraverso la Fede).
La combinazione di questi tre fenomeni estremi dà luogo a forme più equilibrate osservabili nella normalità, il prevaleredi uno di essi è sintomo di una condizione di disturbo, disadattamento o alienazione e consente all’analista di formulare pensieri sul lavoro che il gruppo va svolgendo.

Il gruppo come insieme non si può vedere con gli occhi, concretamente si vedono solo le persone che lo compongono: per vederlo nel suo trascendere la somma dei partecipanti bisogna sentire l’effetto che fa, e a questo scopo bisogna ascoltare il proprio vissuto a riguardo e chiedere alle persone di ascoltare che effetto gli fa stare nel gruppo. Oltre agli oggetti concreti, cioè i fenomeni primari21, anche quelli trascendenti esistono, gli insiemi appunto che sono più della somma delle loro parti e sono invisibili. Il gruppo umano, nel suo essere più della somma dei suoi membri non si vede in senso stretto ma ha una sua esistenza reale, che è luogo di atmosfera e di possibili correnti, quelle che in gergo si chiamano dinamiche di gruppo.

Bion è stato il grande interprete dell’argomento, ed è a lui che normalmente ci si riferisce a questo proposito. Nell’ottica psicodinamica un gruppo si considera in genere come il corrispondente esterno del mondo interno di una persona, e la terapia qui viene condotta come se tutto il gruppo fosse un solo individuo. La grande differenza fra individuo e gruppo è che quest’ultimo non ha un io, e se non esprime un’istanza direttiva, un leader o un’organizzazione democratica che persegue uno scopo, cade necessariamente sul piano degli istinti fondamentali, fame fuga territorio sesso: esprimere una organizzazione mirata a uno scopo è una trascendenza, e richiede uno sforzo..

Bion fa un richiamo a Freud, volto a mostrare una similarità tra le caratteristiche del «gruppo di lavoro» e quelle che «Freud attribuisce all’Io quando parla dell’individuo» (1961, p. 153). La partecipazione al gruppo di lavoro implica funzioni quali attenzione, subordinazione del principio di piacere al principio di realtà, attività di pensiero quale azione di prova, sviluppo e uso dei processi secondari, capacità di rappresentazione verbale e di simbolizzazione (cfr. S. Freud, 1911, p. 455 e segg.).

Come per un individuo la coesione della persona è gestita da un io più o meno centrale e dal suo corredo narcisistico, così la coesione del gruppo dipende da un principio coesivo, che non potendo essere un io, che non c’è, deve essere necessariamente un fatto politico, cioè un leader stabile come in una monarchia, oppure una intenzione sufficientemente condivisa dai membri del gruppo, come in una repubblica. Il fattore unificante deve essere necessariamente presente: un paese, monarchico o repubblicano che sia, deve avere delle istituzioni e una struttura investita di senso che le garantisce. Come è evidente all’osservazione degli eventi storici, gli esseri umani sono tendenzialmente monarchici, mentre la repubblica, malgrado i suoi vantaggi in termini di libertà e autodeterminazione, richiede uno sforzo di investimento di senso che spesso non sono disposti a fare. In questa ottica è chiaro come in un gruppo di terapia o di addestramento, spesso il trainer acquisisce in maniera indebita la posizione di leader: questo porta a una concezione della terapia come un’esperienza in cui il trainer, come un buon monarca, offre un tipo di organizzazione più apprezzabile, da cui ogni membro prende i vantaggi di cui ha bisogno. Per realizzare un cammino terapeutico bisogna uscire da questo impasse.

La necessità emotiva di darsi un capo è una delle costanti riscontrate con maggiore frequenza da Bion nei gruppi da lui condotti: egli ha notato come il gruppo basico si organizza cercando un leader, che adempia la funzione di provvedere alle necessità del gruppo e che sia in possesso di quelle caratteristiche che meglio corrispondono. Nei gruppi terapeutici questo ruolo onnipotente è dapprima attribuito al terapeuta: l’idea di ricevere un trattamento convoglia una sproporzionata carica di aspettativa ed il gruppo si comporta nei confronti del terapeuta come se fosse convinto che tutto il lavoro dovrà essere compiuto da lui. Se l’analista propone ai membri di attivare un livello più maturo e razionale di funzionamento, il gruppo percepisce ciò come un rifiuto — da parte dell’analista — di assumere il ruolo che gli è stato attribuito, e reagisce quindi trasferendo l’investimento emotivo su un’altra persona. L’atto del conoscere è — Bion lo ha costantemente sottolineato — doloroso, e ciò tanto più per quei gruppi che si propongono di promuovere uno sviluppo delle capacità dì introspezione.

Se prendiamo in considerazione un’organizzazione democratica del gruppo, che è unito dall’accordo dei suoi membri verso un obiettivo comune e si rompe là dove questo accordo finisce, la posizione del trainer, invece che di partecipante in qualità di leader, risulta quella di interlocutore del gruppo in quanto insieme, in un certo senso come una persona di fronte a un’altra persona. In questo caso il trainer non può gestire gli eventi ma, in un’ottica di circolo ermeneutico, può solo metterci il dito sopra manifestando le sue reazioni e riferirle alla responsabilità dei suoi membri, che possono elaborare cambiamenti o rimanere nella situazione in corso infischiandosene dell’interlocutore o catalogandolo come avversario22.

Il problema è che per esserci collaborazione in un gruppo ci deve essere stata espressione, mentre nei gruppi gran parte delle opinioni delle persone sono sconosciute agli altri, e se non si sa cosa gli altri sentono e pensano è difficile affidarsi al flusso degli eventi in una aspettativa creativa. Per “dinamiche di gruppo” in psicoterapia si intende in genere solo quelle correnti che girano automaticamente intorno a se stesse, mentre la cooperazione per un obbiettivo, pur essendo a suo modo una dinamica, si rivolge a un orizzonte lontano e come ogni creazione ha davanti l’infinito delle possibilità. Si tratta comunque di una corrente, ma radicalmente diversa dalle altre in quanto diretta a un obbiettivo sublimato, la direzione appunto dell’elaborazione psicoterapeutica: la differenza fondamentale è che questa ultima non si muove per automatismi, e ha bisogno dell’accorgersi e del decidere consapevolmente delle persone implicate.

Bion giustifica il termine «gruppo di lavoro» perché sembra esprimere più compiutamente aspetti importanti del livello della vita mentale del gruppo a cui esso si riferisce: la capacità di consapevolezza e gli sforzi di cooperazione volontaria messi in atto dai membri, al fine di portare a termine i compiti programmati, attraverso un approccio che utilizzi metodi scientifici ed evoluti, implicanti tolleranza della frustrazione e controllo delle emozioni (cfr. W. R. Bion, 1961, p. 153).

Bion ipotizza che il «gruppo di lavoro» sia sempre attivamente presente all’interno del gruppo, anche se talvolta può non essere subito facilmente individuabile.

La democrazia richiede coscienza e responsabilità: la cultura occidentale riconosce queste due caratteristiche come capacità di chiunque, e a ogni cittadino riconosce per questo il diritto di voto. Ugualmente, in un gruppo organizzato democraticamente bisogna riconoscere a chiunque il diritto al suo particolare mondo interno, cosa che si ottiene concretamente differenziando l’agire dall’esprimere: ognuno ha diritto di sentire e di pensare quello che vuole, limiti e relativi accordi sono situati nell’agire. Questa è una regola che viene prima della formazione del gruppo: come non sarebbe accettabile un mondo dove fosse permesso l’omicidio, così non è concepibile un gruppo di terapia o di training dove sia permesso ai membri di agire invece che esprimere, in quanto i più forti ridurrebbero gli altri al silenzio.

Si tratta di esplicitare che il gruppo appartiene ai suoi membri, e che se ci sono regole richieste dalla situazione terapeutica o didattica, ci sono regole richieste dal gruppo ai suoi membri, delle regole per così dire, democratiche, che di solito invece non vengono né espresse, né contattate. Il trainer, come interlocutore, non fa parte del gruppo: questo va dichiarato e discusso con il gruppo, che, date le inclinazioni monarchiche degli esseri umani riguardo agli investimenti narcisistici, può eventualmente tentare di vanificare questo punto. Il trainer può solo dichiarare e difendere le regole che la terapia richiede (esprimere e non agire, rispettare la privacy non parlando fuori, dal gruppo di fatti che lo riguardano ecc.), ma non può sanzionare le regole interne del gruppo (bisogna star zitti quando qualcuno lavora, non si può entrare in competizione, ecc.), altrimenti diventa parte del gruppo in funzione di leader, cosa che lo toglie dalla posizione di interlocutore e snatura l’organizzazione democratica del gruppo.

Il problema è come essere concretamente interlocutore invece che membro del gruppo, cosa che nella pratica psicoterapeutica è essenziale, altrimenti si vanifica il circolo ermeneutico tra terapeuta e gruppo, e in più lavorare con le eventuali dinamiche diventa impossibile. Nella terapia della famiglia la tecnica che viene utilizzata è quella di tenere uno dei terapeuti dietro uno specchio, fuori della visibilità dei membri del gruppo, e in relazione diretta solo con l’altro terapeuta: questo gli assicura una possibilità di non essere risucchiato dalle dinamiche in quanto rimane sconosciuto e irraggiungibile dai commenti. In vari approcci psicodinamici uno dei terapeuti interloquisce con il gruppo e l’altro commenta solo alla fine della seduta, e parla del gruppo al gruppo, senza mai essere interlocutore di specifici individui. In ambedue questi casi si vede un’attenzione rivolta all’insieme e non ai singoli: questo procedimento non può invece essere adottato in un approccio fenomenologico esistenziale, dove il terapeuta entra in circolo ermeneutico sia con il gruppo che con i singoli membri.

Un problema essenziale nella gestione delle dinamiche di gruppo è riconoscere l’esistenza di qualcosa che è più della somma dei suoi membri, in quanto questo non è visibile di per sé e appare agli occhi dell’osservante solo quando ne guarda gli effetti, non diversamente di come un orologio appare nella sua orologità solo quando l’osservante cerca l’ora segnata: a chi per assurdo non dovesse essere interessato a qualcosa che indica lo scorrere del tempo, sarebbe ben difficile vedere l’orologio come insieme che trascende le sue componenti. Come per vedere l’orologità bisogna guardare al prodotto dell’insieme orologio, per vedere il gruppo come insieme bisogna guardare a quello che il gruppo produce, che si può vedere solo al momento che lo si cerca perché se ne ha bisogno, e che quindi si sa che necessariamente esiste e che può avere molte forme diverse: si tratta dell’atmosfera che nel gruppo si respira, che a seconda di come è elicita avvenimenti fra i membri che possono essere molto diversi.

Se i partecipanti si rendono conto che il gruppo come territorio è loro e che devono accordarsi su una costituzione e sul rispetto di questa, il trainer smette di occupare un posto centrale, e può diventare più facilmente un titolare di aspettative personali che il gruppo può accettare o contestare attraverso trattative e accordi (si tratta questo o quest’altro tema, spiega perché questo dovrebbe essere importante, ecc.: il circolo ermeneutico insomma). Questo è possibile nella misura in cui i membri del gruppo sono d’accordo ad acquisire realtà complesse che vanno anche contro ai loro bisogni narcisistici, sono in relazione personale, cioè in un circolo ermeneutico, con il trainer, e sono solidali nel sostenere il prezzo del relativo sacrificio narcisistico con un apprezzamento gruppale che lo compensi. Se gli altri sono pronti a criticare e a deridere, nessuno ovviamente si sporge fuori dai limiti della propria immagine di sé, e la repressione del disprezzo da parte del trainer semplicemente non ha effetto, come si sa bene da tutte le esperienze scolastiche: il risultato è che comunque i membri del gruppo non fanno libere associazioni, e il lavoro non procede.

Caratteristica dell’uomo e, in misura ancora maggiore, degli uomini riuniti in un gruppo, è un innato desiderio di sicurezza che porta a evitare le sofferenze connesse con l’apprendere dall’esperienza. In “Esperienze nei gruppi” Bion si dimostra fiducioso circa la forza e l’influenza che il gruppo di lavoro può avere sulla possibilità di far prevalere il metodo scientifico su tali pregiudizi: «Secondo me uno degli aspetti più sorprendenti di un gruppo — egli scrive — è il fatto che, nonostante l’influenza degli assunti di base, il gruppo razionale o di lavoro alla fine riesce a trionfare» (1961, p. 145).

Per riconoscere uno stato di accordo bisogna esprimersi: se nessuno dice cosa si aspetta, nessuno saprà cosa si aspettano gli altri, e difficilmente ci sarà qualcosa a cui appoggiarsi che moderi i rischi della trasformazione dell’immagine di sé. La prima operazione per gestire le dinamiche di un gruppo è quindi quella di chiedere ai membri di esplicitare le regole che si aspettano che ci siano: naturalmente questo da solo non basta per arrivare a un accordo fra tutti, ma perlomeno si sa cosa aspettarsi e da chi eventualmente guardarsi le spalle, invece di rimanere in uno stato di strisciante circospezione o di chiusura pregiudiziale. In più le regole, come tutte le leggi, possono essere emendate, e con gli emendamenti diventano più articolate e ottengono più larghi consensi. Naturalmente non si tratta di un’operazione una tantum, le regole si trasformano col tempo e le alleanze si fanno e si disfano, e esplicitarlo aiuta a fidarsi di più e ad affrontare la diversità. Malgrado questo lavoro di esplicitazione e di riconoscimento di accodi e disaccordi, i gruppi perdono facilmente l’istanza trascendente, e cadono nelle posizioni regressive della fame fuga territorio e sesso. La spiegazione probabile è che si tratta di posizioni più facili da gestire da un punto di vista narcisistico: non ci sono rischi da prendere, c’è solo da difendere una posizione, con il poco sforzo di defilarsi dalle responsabilità delle istanze dell’apprendimento, se si tratta di un gruppo classe.

Quando la prevenzione non ottiene risultato, elaborare le dinamiche in corso è molto complicato. Il primo ostacolo è una coesione campanilistica del gruppo, che si presenta narcisisticamente compatto (siamo una classe di buona qualità), e si difende da qualunque insinuazione di “qualcosa che non funziona”: il gruppo come entità non viene in genere riconosciuto dai suoi membri e qualunque cosa si dica a questo proposito è in genere presa personalmente e confutata. In primo luogo le dinamiche bisogna almeno riconoscerle, cosa resa difficile dal fatto che non è il visibile che bisogna guardare, ma l’invisibile. In genere i gruppi di dipendenza, secondo la dizione di Bion, presentano forme disparate di dipendenza, di cui una frequente e facilmente riconoscibile è quella di fare domande disparatissime e di accogliere le risposte col silenzio e altre domande. I gruppi di attacco e fuga sono invece percorsi da continue correnti di ipersensibilità aggressiva, che non arriva a nessun risultato. Quelli di accoppiamento invece, sempre secondo la dizione di Bion, sembrano presi da un centro gravitazionale narcisistico intero al gruppo, a cui gli interessi conoscitivi rimangono periferici.

Sulla base della descrizione fornita da Bion è possibile differenziare se è attivo l’uno o l’altro assunto di base (dipendenza, attacco-fuga, accoppiamento). Bion indica come elemento distintivo una connotazione o qualità degli stati emotivi (ad es. ansia, paura, amore) diversa a seconda dell’assunto di base attivo: «le modificazioni che presentano i vari sentimenti, variamente combinati nell’uno o nell’altro assunto di base, possono dipendere per così dire dal cemento che li unisce e che è costituito dalla colpa e dalla depressione nel gruppo di dipendenza, dalla speranza messianica nel gruppo di accoppiamento, dall’ira e dall’odio nel gruppo di attacco e fuga» (W. R. Bion, 1961, p. 176).

In tutti e tre i casi, se il trainer non è il leader, è il rappresentante del mondo esterno in veste di fonte di soddisfazione, minaccia o confronto narcisistico, qualcuno cioè da controllare in un modo o in un altro. Importante a questo proposito il concetto di autopoiesi, di Maturana: si agisce per continuare ad avere le proprie istanze interne, non per soddisfarle, si mangia cioè per poter continuare ad aver fame (se non si mangia invece si muore). Così in una dinamica di dipendenza, i membri del gruppo per esempio domandano non per soddisfare la loro curiosità, ma per continuare a fare domande, in un abisso senza fondo di richiesta che non ha luoghi di possibile arrivo. Non diversamente, nei gruppi di attacco e fuga non c’è modo di raggiungere un porto sicuro dove non ci sia più bisogno di combattere, e nei gruppi di accoppiamento, ribattezzati folkloristicamente come gruppi “mulino bianco”, lo sforzo verso una dimensione di piena soddisfazione narcisistica è senza riposo.

In questo senso quello che caratterizza le dinamiche di gruppo è il loro automatismo senza scopo, che non si placa in nessun modo: lo spazio concesso qui per cose come sperimentare, capire, sviluppare nuovi punti di vista, cambiare idea eccetera, è evidentemente marginale, e in un gruppo classe o di terapia sono impedimenti importanti che non conviene ignorare, per quanto sia difficile risolverli.

Secondo Bion, nelle dinamiche di gruppo il sapere è in realtà un «sapere ripetitivo», che viene raggiunto attraverso un sistema primitivo di premi e punizioni. L’obbedienza cieca è essa stessa una virtù. Come nota Meltzer, «il grande terrore è l’espulsione, e il grande premio è un posto nell’establishment»(1982, p. 10). I membri, in quanto compartecipi di un gruppo, subiscono una perdita della loro individualità, si trovano cioè in una condizione fenomenologicamente non distinguibile dalla depersonalizzazione. Essi fanno un uso particolare del linguaggio: questo è utilizzato più per veicolare sensazioni ed emozioni che per comunicare significati precisi.

Parlare analogico, per l’indirizzo fenomenologico esistenziale è un vantaggio, in quanto senso è qualcosa che si sente e si articola per metafore, mentre i significati non hanno necessariamente un influsso determinante su questo. Esprimere dunque quello che le persone del gruppo e il trainer sentono è una modalità essenziale in questo indirizzo per rompere l’automatismo delle dinamiche: messi di fronte al sentire degli altri, i membri del gruppo difficilmente possono non rendersi conto delle loro reazioni in proposito, e della loro posizione nell’insieme gruppo. La stessa istanza narcisistica che tende a mantenere le dinamiche, può essere utilizzata invece come spinta personale a costruire una gruppalità di valore, in cui stabilire legami di solidarietà, scambiare affetto e ottenere i prodotti di una creatività condivisa, che ha almeno quella componente di eros che tinge la vita di colore.

Un aspetto universale della vita mentale è la tendenza dell’individuo a combinarsi istantaneamente e involontariamente con un altro (o più altri) per condividere un assunto di base ed agire in accordo con esso; la descrizione fenomenologica accompagna l’aggregarsi di diversi singoli in un collettivo e conferisce senso a molti dei comportamenti in tale collettivo considerato come totalità.

Considerando per finire il gruppo come una entità con cui avere a che fare in via autonoma rispetto alla relazione con i singoli membri, e considerando il trainer come un interlocutore, in un ottica fenomenologica esistenziale, dove la relazione e lo scambio fra interlocutori avviene tramite circolo ermeneutico e non tramite elaborazioni digitali tese a condividere una verità oggettiva, risulta che il rapporto fra trainer e entità gruppo si deve configurare come circolo ermeneutico, deve cioè esserci da parte del trainer una comunicazione del proprio vissuto in diretta relazione con questa entità collettiva, e le risposte delle singole persone devono essere considerate la voce del gruppo che si relaziona direttamente con lui. In questo senso tutto risulta difficile da definire, ma aperto all’esperienza, e gruppo diventa una realtà inafferrabile ma con cui si può interagire continuamente, senza arrivare mai a un punto definitivo.

Narcisismo e appartenenza

Un necessario piacersi, il narcisismo23, è fisiologico all’organismo: i bambini si piacciono naturalmente, se non vengono disturbati in questo da forti disapprovazioni. Piacersi è naturale, ma ha anche bisogno di essere coltivato dal feed back del mondo esterno: l’organismo si deve adattare continuamente all’ambiente, pena la sopravvivenza. I feed back orientano il narcisismo, e i genitori esercitano esplicitamente la funzione dell’orientamento: un lavoro necessario, che porta spesso a illudersi che il piacersi dipenda da un valore estetico.

Se il valore estetico apre gli orizzonti, il narcisismo li chiude: Freud imputava la psicosi a un narcisismo primario da cui la persona non era riuscita a svincolarsi, un investimento cioè della libido su se stessi invece che sul mondo, e una immobilità relazionale per assenza di prospettive.

Per questo è essenziale distinguere l‘estetica dal narcisismo, in quanto avendo questo ha un ruolo importante nella sopravvivenza, richiede una sua specifica e ben diversa educazione. Piacersi è fondamentale per la felicità, che in sostanza è lo stato in cui la persona è d’accordo con se stessa sul piano sia psichico che fisico. Riguardo a questo, un problema serissimo si presenta per esempio quando l’evoluzione del costume è così rapida che i genitori non rappresentano più il mondo in cui dovranno vivere da adulti i figli, e i loro feed back diventano confusivi invece che orientanti: gli investimenti narcisistici diventano allora contingenti e di poca consistenza, e lasciano le persone in balia del destino.

Una delle manifestazioni narcisistiche più frequenti, a prescindere dalle differenze culturali, è il vincere. Coltivare il piacersi vincenti ha però molti impliciti: uno è che la vita di solito non permette di vincere spesso, un altro è che più si invecchia e meno strumenti si hanno per vincere24. In realtà, investire narcisisticamente nelle vittorie, dato la frequenza inevitabile delle sconfitte, sarebbe una autentica debacle, se non ci fosse una strana capacità dell’anima umana, che è quella di potersi identificare con gli altri: su questo si basa per esempio il fenomeno del tifo (per una squadra, per un partito, per la propria famiglia, per la propria nazione, ecc.), a cui è delegato il narcisismo di chi non vince personalmente. Il narcisismo si sposta dalla vittoria all’appartenenza alla parte vincente.

La tendenza ad alimentare il narcisismo della vittoria è fisiologica alla cultura capitalista, dove viene valorizzato tutto quello che si può produrre, vendere e comprare: il mondo occidentale tende a trasformare i suoi cittadini in un’orda di tifosi che investono il proprio narcisismo in gare fine a se stesse25 e in cui l’appartenenza, non più garantita dalla debolezza della famiglia, si rivolge a una qualsiasi squadra, con la quale non si ha nemmeno un contatto diretto.

Tutti vogliono essere qualcuno, cioè conquistare spazio nella vita sociale, per i benefici che questo comporta per la sopravvivenza. Lo spazio in natura si ottiene con la violenza, che nel contesto sociale è però raramente esplicita, a parte le guerre e le azioni delinquenziali: generalmente da tempi antichissimi viene agita attraverso modalità ritualizzate. Lo sport è una di queste modalità rituali, attraverso cui si vince e si perde senza effetti collaterali distruttivi: questi sono limitati ai tifosi, che non avendo partecipato in prima persona alla lotta hanno ancora da spendere la loro aggressività. Come diceva invece De Culbertain, l’inventore delle Olimpiadi moderne, l’importante è partecipare.

Proprio il tifo porta in scena un tema interessante dell’essere qualcuno. I tifosi sono fieri della loro squadra: appartengonoa una squadra e la squadra appartiene a loro, in modo che quando vince in un certo senso vincono anche loro. Nel passato varie persone, non potendo essere signori, andavano fiere di portare la livrea di un determinato signore, e anche oggi per esempio è diffusa in giappone la fierezza per essere impiegati in una ditta grande e economicamente potente. Vista così sembra pura pazzia, e certo di questa gli esseri umani non mancano: eppure guardando meglio si vede che le cose sono più complesse di come sembrano.

Un essere umano vive grazie ai suoi continui scambi con gli altri, ma come si sa bene il commercio non è fatto solo di scambi puntuali: dalla casa, alla macchina, agli elettrodomestici, tutto si compra a rate, cioè con promessa di pagare. Le promesse si appoggiano su qualcosa, su come la persona si presenta, cioè sull’immagine che dà di sé. L’immagine di sé è l’interfaccia col mondo, è lo strumento con cui si chiede credito, si chiede cioè di farsi dare qualcosa senza pagare subito: l’immagine è talmente importante che può decretare il successo o la rovina di un uomo di affari, a cui le banche non fanno prestiti se non ha credito sul mercato. L’apparire è tanto importante da spingere le persone a fare qualsiasi cosa pur di non perdere la faccia26: lo scandalo rovina, come sanno bene gli anglosassoni, che tradizionalmente ne hanno uno speciale orrore.

Un’appartenenza che dia importanza sociale comporta i benefici potenziali del credito, con il quale si fanno gli affari: essere qualcuno dà credito, e non è considerabile una semplice opzione, perché il credito influisce sulla sopravvivenza. Ma essere qualcuno comporta che altri siano nessuno, perché non si è qualcuno in assoluto ma solo in relazione, cioè si è qualcuno più di altri.

In tempi di monarchia assoluta il problema era risolto istituzionalmente: il re, che era tale per volontà divina, sceglieva d’autorità chi fare nobile, dandogli in questo modo denaro e una appartenenza di prestigio, mentre gli altri rimanevano nessuno. In tempi democratici la faccenda è ben diversa, e si risolve in genere personalmente: tutti hanno la possibilità di essere qualcuno, posto che ci riescano. E così c’è chi per essere qualcuno sale in cima a un palazzo e spara sulla folla, preferendo marcire in galera per il resto della vita che rimanere sconosciuto al pubblico. Per chi è riuscito ad essere qualcuno questo appare pazzesco, ma bisogna ricordare quello che diceva Bakunin a suo tempo, quando ammoniva la borghesia rispetto al sottoproletariato: chi non ha nulla da perdere, diceva, è capace di metter a ferro e fuoco il mondo.

Il mondo occidentale tende ad assicurare ai suoi cittadini il minimo per la sopravvivenza, e cerca di assicurare anche il minimo di fabbisogno narcisistico attraverso l’uso della cortesia e l’abitudine di chiamare tutti signori: anche un mendicante oggi ha diritto di essere chiamato signore, e di essere trattato cortesemente. Essere tutti di diritto signori non assicura però una importanza sociale: se chiunque è un signore, un signore è chiunque, e siamo di nuovo al punto zero. E quelli che non riescono ad essere qualcuno, oltre ovviamente a tifare per una squadra, che fanno? Un’attività molte diffusa è quella di raccontarsi storie sulla propria importanza: o si sogna di essere importanti, oppure ci si racconta di esserlo, in modo da piacersi in qualche maniera. Per supportare questi racconti qualunque cosa è utile, dall’aver ragione, ad avere una giusta posizione politica, ad avere un gusto superiore, ad essere vittima di grandi soprusi, appartenendo con questi escamotage a un gruppo importante. Qualunque cosa pur di non sparire nell’invisibilità sociale, che, come gli extracomunitari sanno, è un pericolo mortale.

Uno strumento realistico per riuscire ad essere qualcuno è la famiglia, dove ognuno ha un posto specifico e l’appartenenza gli assicura un minimo di visibilità. La famiglia è il luogo dove l’immagine della persona prende forma, si educa e si sviluppa, cresce forte e sana o si ammala portandogli disastri di ogni tipo sul piano esistenziale. Qui appartenere e avere un narcisismo in buone condizioni è la stessa cosa, sempre tenendo presente che il narcisismo è come il sale nell’acqua della pasta, il punto giusto è quando non si sente né per eccesso né per difetto. Quando essere qualcuno non significa stare sopra gli altri, allora è essere insostituibile, essere un partner di scambi che non è intercambiabile con un altro.

Moda e modelli vincenti non sono valori estetici, ma fenomeni narcisistici che piacciono senza per questo essere belli. La bellezza è semplicemente esperienza del bello: bello non solletica la vanità, è qualcosa che trasporta oltre le frontiere dell’io in un misterioso apprezzamento a prescindere dal proprio interesse. Paradossalmente ciò che è molto bello, come per esempio un quadro di Leonardo, in genere non si desidera possederlo, ci si accontenta di farne esperienza: l’esperienza è partecipazione.

Appartenenza e partecipazione

Appartenenza e partecipazione sono polarità che offrono un vissuto analogo e molto importante per le necessità umane: in ambedue casi si ha l’impressione di fare parte di qualcosa di più grande di se stessi, e questo solleva dal senso di costrizione per la limitatezza delle cose umane. Il fatto che il vissuto sia analogo non comporta però che siano la stessa cosa: appartenere è legame, partecipare è un’esperienza. Non può esserci un legame senza nessuna partecipazione, né una partecipazione senza nessun legame, ma la percentuale può essere molto variata, dando luogo ad appartenenze senza grande partecipazione, come il tifo nello sport, o partecipazione senza grande appartenenza, come le attività di ordine trascendente: per esempio dipingere un quadro non implica appartenere in modo concreto alla comunità dei pittori, ma semplicemente partecipare a un tipo di esperienza analoga.

Nelle cose umane invece, si presenta continuamente una confusione, perché mentre il gusto dell’assoluto è imperante, riguardo all’appartenenza qualunque affermazione va considerata relativa. Per esempio, nel mondo della psicologia di solito l’indipendenza, cioè il non essere vincolati dai legami, è un must, è indiscutibile e non richiede spiegazioni: indipendente si considera comunque preferibile a dipendente. Se si guarda da un punto di vista relazionale, appare però evidente un errore logico: dato che la sopravvivenza implica scambi fra gli esseri umani, una totale mancanza di appartenenza alla comunità può dare seri problemi a questo proposito.

L’indipendenza di un essere umano è necessariamente relativa, e come tale va considerata: l’importante è essere abbastanza indipendenti, come avrebbe detto Winnicott, e se si vuole esserlo bisogna ridurre l’appartenenza ma allo stesso tempo incrementare la partecipazione, in modo da realizzare qualcosa che abbia metaforicamente il tipo di rapporto che c’è fra la cornice e il quadro: l’appartenenza incornicia quello che è l’essenziale, cioè la partecipazione.

Il problema è particolarmente evidente nei gruppi ristretti, tipo gruppo di amici, o gruppo classe, o gruppo di terapia, dove l’appartenenza assorbe gran parte dell’investimento narcisistico di ognuno, tanto da impedire qualunque partecipazione che la metta a rischio, cioè qualunque condivisione delle differenze personali, che potrebbero costare l’espulsione o comunque l’essere relegati a uno status sociale più basso. Non sporgendosi in fuori, le persone sopravvivono narcisisticamente ma muoiono esistenzialmente, in quanto l’appartenenza diventa una cornice vuota.

Ma, dato che difendersi è legittimo, come si può uscire da questo impasse? Ci sono certamente escamotages che riducono i rischi, come un accordo previo di divieto di agire i propri vissuti e di manifestare quello che si sente invece che quello che si pensa, ma il rischio del disprezzo strisciante non è facile da tenere a bada. Come aprire bocca allora senza l’incubo della débâcle narcisistica, spesso appoggiato sulla consapevolezza della propria ignoranza e dalla probabilità che gli interlocutori la sappiano più lunga?

Il fatto è che anche stare zitti espone a una reazione degli interlocutori, e basterebbe quindi che i membri del gruppo scambiassero continuamente i propri vissuti riguardo agli altri per rimetterli nel circolo dell’esperienza, cosa che generalmente non si fa per rispetto, per la consapevolezza cioè che tutti hanno qualcosa che preferiscono tenere fuori vista, e quindi per una considerazione da una parte di gentilezza, dall’altra di prudenza per evitare ritorsioni.

Qui si capisce che se l’appartenenza richiede poco sforzo, la partecipazione richiede invece un livello di autodisciplina non indifferente, e il problema si sposta allora a questo tema, particolarmente doloroso in una cultura della libertà. La disciplina è un fatto inestricabilmente correlato con la pedagogia a cui si è stati esposti: nella pedagogia repressiva la disciplina implica sottomettersi a considerazioni imposte dall’alto, con cui non si è richiesti di concordare, mentre in quella permissiva la sottomissione è alla ragionevolezza delle richieste, ma in tutte e due si tratta comunque di richieste di tipo impersonale. La paura di ferite narcisistiche è evidentemente molto più potente delle richieste impersonali, e l’alternativa potrebbe allora essere in una pedagogia centrata sulla relazione fra le persone in causa.

Se la mamma invece che “ti devi lavare le mani prima di venire a tavola” dicesse al figlio “voglio che ti lavi le mani prima di venire a tavola”, e sostenesse questo suo volere con le buone o con le cattive, la richiesta non sarebbe più impersonale, ma legata a una specifica persona: il figlio saprebbe che se non si lava le mani la mamma è a dir poco scontenta se non peggio, e lavarsi le mani diventerebbe allora animato dall’emozione che lo lega alla mamma, per quanto ambivalente possa essere. In questa maniera l’appartenenza al legame con la madre si riempirebbe di un contenuto, della partecipazione a un rapporto che è un’avventura con alti e bassi, che lascia spazio all’ambivalenza inevitabile dell’esperienza umana.

Se l’appartenenza delle persone a un gruppo implicasse la consapevolezza che non detto non significa non sentito, che cioè il silenzio non è una protezione sufficiente dalle reazioni degli altri, probabilmente sarebbe più forte la disponibilità a manifestare e difendere le proprie specificità, correndo rischi ma allo stesso tempo imparando a farlo. L’appartenenza insomma può essere così superficiale da lasciare ancora più soli: la frontiera da varcare è quella della partecipazione, per la quale non ci sono autorizzazioni possibili che annientino i rischi.

La ricerca-azione per Lewin

Il concetto base di Lewin è quello di ricerca – azione: esso identifica una sequenza epistemologica composta da pianificazione dell’azione e verifica dei suoi possibili effetti. Tale sequenza, sviluppandosi nel tempo secondo un movimento a spirale, caratterizza il percorso scientifico. Lo stesso concetto indica anche un’impostazione che qualifica “ogni progetto razionale di azione nel sociale” da parte di singoli e di organizzazioni, e che si traduce per chi partecipa a un intervento collettivo in un’integrazione di azione, formazione e ricerca. Dal punto di vista puramente scientifico e anche dal punto di vista sociale, sono necessari “occhi e orecchi sociali nei punti nevralgici e all’interno degli organismi di azione sociale”. Tuttavia a differenza dei fisici, che dispongono di strumenti esterni per percepire i fenomeni (a costo talvolta di alterarli), gli osservatori sociali devono essi stessi essere formati a una percezione sociale attiva, perché si occupano di un campo di fenomeni che non possono essere studiati senza interagire con essi. Compare già qui una delle ambiguità inscritte nel concetto: il termine azione indica un momento della sequenza sperimentale, ma anche e forse ancor di più, il coinvolgimento del ricercatore e dei suoi colleghi nel campo sociale, il loro impegno nel processo, il fatto che essi partecipino alla risoluzione dei problemi sociali e non soltanto ai problemi di conoscenza.

La fedeltà di Lewin al processo sperimentale non gli impedisce di lavorare in situazioni dove la sua traduzione nella pratica è impossibile, per esempio laddove si vuole aiutare una comunità locale ad affrontare i conflitti con (o tra) le sue minoranze. Con Ronald Lippitt, egli riunisce gli attori per realizzare degli studi sul campo e propone il concetto di community self-survey (comunità auto-scrutante). In situazioni di consulenza, la conduzione della ricerca finisce per applicare quelle regole democratiche, conformi ai valori di cui si era voluta dimostrare la pertinenza sociale e psicologica in esperienze divenute celebri. Secondo Lewin stesso, la ricerca-azione è sia un metodo di ricerca teorico-sperimentale, sia una ricerca sull’efficacia relativa di diverse forme d’azione, sia una ricerca diagnostica per preparare una strategia d’azione, sia un’occasione di diffondere, promuovere o democratizzare il processo scientifico attraverso una formazione di vari attori sociali ancorata alla prassi, associandoli a precisi momenti del processo di ricerca.

La “teoria del campo” di Lewin, che connette il comportamento umano con l’ambiente, è sintetizzata con la formula:

C = f (P, A)

in cui si mette in risalto che il comportamento (C) di un individuo è una funzione regolata da fattori interdipendenti costituiti dalla sua personalità (P) e dall’ambiente (A) che lo circonda. Persona, ambiente sono considerati come un insieme interconnesso che va a formare lo spazio vitale di ogni soggetto. Per comprendere o prevedere il comportamento, dice Lewin, la personalità e il suo ambiente devono essere considerati come un’unica costellazione.

Conclusioni

Per affrontare una terapia DEL gruppo bisogna quindi tener presenti vari assunti:

lo spazio può essere considerato un contenitore o una interazione energetica;

la legge dell’universo è l’entropia, e si possono fare operazioni apparentemente contrarie a questa solo utilizzando l’energia del mondo circostante, cioè facendo uno sforzo;

le interazioni energetiche sono invisibili agli occhi e vanno cercate con l’immaginazione attiva;

il gruppo è un insieme, che non trascende la somma dei suoi membri se non va oltre le sue dinamiche interne;

l’essere nel gruppo si situa fra i poli dell’appartenenza e della partecipazione;

la terapia deve essere una ricerca–azione, che deve paradossalmente essere “senza memoria e senza desiderio”.

il principio organizzatore del trascendente può essere autoritario o democratico;

Avendo di fronte un gruppo, che si dispone in cerchio e in modo più o meno simmetrico, bisogna ricordare che questo non mette in luce l’effetto composizione, ma lo nasconde. Qui è il primo problema: perché i membri di un gruppo nascondono le proprie composizioni affettive e energetiche? Il fatto è che manifestarle sarebbe pericoloso, perché ogni composizione è più o meno instabile, e gli altri membri del gruppo potrebbero interagire negativamente: la prima risposta è dunque “per prudenza!” (Si potrebbe rispondere anche che avviene per ragioni entropiche, cioè per la normale direzione del decadimento dell’energia, che si può dire anche la via del minimo sforzo). Il secondo problema è allora come farle venire alla luce senza creare ancora più difficoltà alla vita delle persone. L’esperienza dice che è inutile sperare in una collaborazione spontanea dei membri del gruppo per la manifestazione degli impliciti: Meltzer commenta che in un gruppo “il grande premio è un posto nell’establishment, e il grande terrore è l’espulsione”, e nessuno è disposto a correre questo rischio solo per un bisogno di chiarezza.

Nella tradizione gestaltica si usa un escamotage abbastanza funzionale: si chiede che ognuno dica cosa sente nel gruppo e per ognuno degli altri membri del gruppo. Il fatto che la persona sia richiesta di esprimersi gli diminuisce il peso della responsabilità e facilita la comunicazione, ma naturalmente non assicura che dica cose importanti. Un’altra tradizione è quella di manifestare il proprio sentire in maniera non verbale, e anche questo salva dalla paura della responsabilità. Perché le persone si prendano direttamente la responsabilità di esprimersi sulle relazioni all’interno del gruppo, bisognerebbe che trovassero una ragione per cui la partecipazione giustificasse i rischi di caduta dall’appartenenza: dovrebbe per esempio evocare un’appartenenza di ordine superiore a quella che viene abbandonata, per la quale la partecipazione è un rischio tollerabile. In altre parole, bisognerebbe percorrere una via an-entropica, quello che in linguaggio comune si chiama “fare uno sforzo”.

Se quest’appartenenza superiore non è decisa d’autorità, deve essere il gruppo stesso che a maggioranza la esprime: da qui si vede l’importanza di discutere in gruppo gli scopi della terapia, cosa che di rado viene fatta, ed è importante considerare che i principi che dovrebbero essere sponsorizzati dal terapeuta sono la democrazia e la ricerca, se non si vuole cadere da un autoritarismo di valori, che è la situazione di partenza, a un altro.

Bibliografia

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  • Deleuze g., La piega. Leibniz e il barocco (1988), tr. Davide tarizzo, einaudi, to- rino 2004
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  • Uspenskij p. D., “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, astrolabio 1976
  • Winnicott d.W., Gioco e realtà (armando armando, roma 1974

1 Prigogine le chiamò “strutture dssipative”.

2 Il secondo principio della termodinamica enuncia l’irreversibilità di molti eventi termodinamici, quali ad esempio il passaggio di calore da un corpo caldo a un corpo freddo.

3 Schroedinger, uno dei massimi teorici della fisica quantistica, raccontava una storia paradossale: messo un gatto in una scatola chiusa con un meccanismo a potenziale rilascio di veleno, finchè la scatola rimane chiusa e non può essere osservato quello che succede dentro, il gatto è considerabile vivo e morto allo stesso momento. Solo al momento dell’apertura della scatola in presenza di un osservatore una delle due eventualità precipita in un evento concreto.

4 Qualunque paletto conficcato in terra è un orologio a ombra: eppure questo esiste come tale solo se qualcuno lo utilizza, in quanto la sua orologità sussiste solo retrospettivamente come base di opzioni adoperate come appoggio delle scelte di un osservatore (sono le 11, devo sbrigarmi per l’appuntamento…ecc). E’ in questo modo infatti diventata parte concreta di un avvenimento vero e proprio.

5 La teoria della decoerenza, della sovrapposizione di stati cioè che collassano in una posizione determinata per l’influenza inevitabile del contesto, vale a dire del mondo circostante, descrive una realtà materiale determinata da una funzione d’onda che “salta” dalla descrizione di una sovrapposizione di stati alla descrizione di uno stato determinato, in seguito a una “rete causale”, cioè per una via discontinua dove causa ed effetto non hanno una relazione deterministica, ma piuttosto legata a un sistema quantistico nel suo insieme, cioè a uno dei contesti a cui le particelle in esame partecipano. L’insieme qui sembra poter influenzare le parti, e le opzioni di scelta sembrano quindi potersi orientare nella direzione di un contesto o di un altro. Si tratta ovviamente di una scelta non nel senso della coscienza, che non è certo presente a livello delle particelle, ma di una biforcazione in cui il sistema può prendere e deve prendere una strada o un’altra, data l’impossibilità di essere ubiquo: riportando la situazione a livello macroscopico e in presenza di coscienza, si può allora parlare di libera scelta, e quindi poi di libero arbitrio.

6 O in un’espressione, che è un tipo particolare di azione collocabile in quello che Winnicott chiamò lo spazio transizionale: WINNICOTT D.W., Gioco e realtà (Armando Armando, Roma 1974)

7 La fuzzy logic non procede come la logica aristotelica attraverso il principio di non contraddizione, ma attraverso una percentuale di possibilità: una operazione a rischio per esempio, non è che sia riuscita o non riuscita, ma va considerata parzialmente riuscita fino a prova contraria.

8 L’energia si presenta in natura in varie stati, come radiante, potenziale, calorico, ecc. che sono in ordine gerarchico di forza: tornare da uno stato più decaduto a uno meno decaduto richiede un consumo supplementare di energia.

9 Passiva nei sogni, o quando si presentano spontaneamente fantasie compensative di bisogni insoddisfatti, attiva nel caso per esempio dei progetti.

10 Sempre che non si confonda l’immaginazione con la percezione sensoriale, nel qual caso si entra nel delirio.

11 LORENZ K Gestalt perception as fundamental to scientific knowledge. From: Gestaltwahrnehmung als Quelle Wissenschaftlicher Erkenntnis. Zeitschrift für experimentelle und angewandte Psychologie

12 SHRAGA SEROK, Unfinished business and Unstarted business as a Completion of the Entire Gestalt (comunicazione al vi°congresso internazionale di Gestalt Therapy tenuto in Siena anno 1991)

13 Come diceva sant’Anselmo, passato lamentevolmente alla storia come esempio di ingenuità, “la prova della sua esistenza è che Dio è pensabile”.

14 Un campo di concentramento per esempio è più dei prigionieri e dei secondini coinvolti, ma non è certamente meglio.

15 Alla domanda di cosa sia il valore non ci sono risposte digitali, cioè spiegazioni concettualmente definite, dato che si tratta di un senso, qualcosa cioè di esperibile e quindi non oggettivo: la fenomenologia porta però in opposizione all’oggettività l’idea dell’intersoggettività, che senza congelarlo in un oggetto lo ascrive alla relazioni fra le persone, togliendolo dall’indeterminatezza assoluta della soggettività.

16 In ogni religione ci sono poi casi terribili, anche se non necessariamente significativi: nell’area cristiana per esempio, oltre agli orrori di Torquemada, bisogna ricordare che per l’istigazione all’uccisione era famoso il santo Bernardo di Chiaravalle, patrocinatore delle crociate, il quale sosteneva che per Cristo uccidere non cristiani non era un omicidio, ma un malicidio.

17 Secondo principio di incompletezza di Goedel.

18 La dialettica in senso hegeliano parla della sintesi fra opposti, proprio in quanto opposti, non simili: nella democrazia greca la sintesi era fra uguali per cittadinanza, e non erano incluse né le donne, né gli schiavi, né gli extracomunitari dell’epoca.

19 Per etica si intende qui la misura del valore dell’insieme dei comportamenti che compongono un fatto (intendendo per fatto una sezione arbitraria nel continuum degli avvenimenti che compongono la storia umana), che si realizza solamente nell’esperienza del soggetto che lo esperisce.

20 Un contesto esistenziale è assimilabile un po’ ad un’opera d’arte, e la bussola della vita  non può essere semplicemente un codice morale. Se si vuole dipingere, è poco probabile che si riesca a fare qualcosa di bello semplicemente studiando i testi sull’uso del colore: ugualmente, solo rispettando le regole è poco probabile che quello che si ottiene sia nient’altro che un esercizio, cioè qualcosa di rigido e senza vita. Come si parla digusto estetico, per parallelismo bisogna parlare di gusto etico, che è un fatto relazionale, e che, come il gusto estetico, non è mai astratto dal contesto. Il gusto estetico di un pittore si realizza nel quadro che sta facendo, così il gusto etico lo si può vivere e vedere solo nei propri vissuti, nell’essere dentro la situazione, dentro l’orizzonte degli eventi: è relativo alla percezione dell’insieme dei fatti che costituiscono una situazione, è la percezione del contesto stesso, cioè la percezione dell’insieme di se stessi, delle persone e delle cose implicate nel contesto.

21 Possiamo rileggere le differenze di Brentano fra fenomeni primari e secondari con le definizioni pragmaticamente approssimative di oggetti, con riferimento ai fenomeni primari, fenomeni, con riferimento ai fenomeni secondari. I due tipi di fenomeni sono evidentemente interdipendenti, non esiste fenomeno primario senza il secondario e viceversa. Esiste peraltro una separazione apparente in situazioni patologiche: in caso di delirio abbiamo un effetto apparentemente senza un oggetto, almeno a una visione normale, che non accetta come oggetto quello sbagliato indicato dal paziente: il vicino di casa non è un assassino, quindi la paura del paziente paranoide sembra priva di fonti. In assenza di oggetto plausibile, la psicologia cerca un oggetto fantasmatico, certa della necessità di un oggetto-fonte del fenomeno, e in effetti è chiaro che se la fantasia ha meno peso di un oggetto concreto è più persistente e comunque efficace. Un’altra sindrome che separa oggetti e fenomeni è la depressione: gli oggetti sono là, ma non fanno nessun effetto, cioè non diventano fenomeni per la persona, che vive per questo in un mondo privo di senso.

22 Bion W.R. (1961), Esperienze nei gruppi e altri saggi (trad. it.), Armando, Roma, 1971.

23 Data la sua origine psicanalitica, il termine narcisismo si può erroneamente ritenere un concetto, ma come altre parti del corpus freudiano (vedi il “complesso di Edipo”), è una metafora che sta per è come quello che accadde al personaggio mitico di Narciso, che affogò nel lago in cui contemplava la sua immagine rispecchiata. In quanto metafora è utilizzabile senza necessità di aggiustamenti in un approccio fenomenologico esistenziale: la storia di Narciso è un mezzo di conoscenza narrativo metaforica, che mette in luce i possibili pericoli del piacersi.

24 Un terzo, più importante di tutti, che la mistica della vittoria è fisiologica alla Weltanschaung nazifascista.

25 …che alimentano il razzismo come inevitabile by-product.

26 da qui nasce l’uso dell’estorsione tramite ricatto, che incrementa l’omicidio e la letteratura gialla che di questo si nutre.

Please cite this article as: G. Paolo Quattrini (2019) La terapia DEL gruppo. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/la-terapia-del-gruppo/

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