LA RELAZIONE D’AIUTO NEL PROCESSO DEL MORIRE (1)
di ANNA RITA RAVENNA – Psicoterapeuta Gestalt, Supervisore
(1) Relazione presentata al convegno FIAP – città del capo – luglio 2012
Pubblicato sul numero 21 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Abstract: Se si vuole accompagnare le persone nel cammino che conduce alla morte è necessaria la consapevolezza che questo evento dà significato ad ogni esistenza umana. L’esperienza dell’esplorazione del nuovo è possibile per tutti gli esseri umani attraverso la pratica del lasciarsi andare, imparando a contenere l’angoscia del vuoto, o meglio l’esperienza dell’emergere del nulla.
Abstract: If we want to accompany people on the path that leads to death, we need the awareness that this event gives meaning to every human existence. The experience of exploring the new is possible for all human beings through the practice of letting go, learning to contain the anguish of the void, or rather the experience of the emergence of nothingness.
Keywords: Relazione d’aiuto, morire, angoscia, vuoto
Molto ho “compreso” del processo del morire accompagnando persone che hanno richiesto la mia presenza professionale in questa fase così delicata della loro vita. Uso la parola “compreso” non nel senso di una conoscenza razionale, piuttosto nel senso di aver “preso con me”, per me di aver assimilato esperienze intime e personali. Il modo di sparire agli occhi delle altre esistenze ha un rapporto specifico con la filosofia della vita e della morte che ogni persona possiede, anche se in maniera implicita.
Queste esperienze così particolari mi hanno aiutato ad aprire orizzonti nella mia visione della vita e della morte.
Mi accingo a parlare di questo tema a voi professionisti della relazione d’aiuto, a voi psicologi, con l’intenzione di far “comprendere” quanto io “ho compreso”, ma anche con un qualche tremore, e non solo per la lingua inglese!
In un congresso, l’uso del linguaggio verbale rischia di portare una “cattiva comprensione” e questo rischio è tanto più presente trattando del tema della morte. Cercherò di aiutarmi con l’uso di esemplificazioni ed analogie.
Una delle peculiarità che distingue l’uomo dalle altre specie viventi è la capacità di affermare il concetto di una morte futura ed inevitabile. Ben prima di giungere, la morte è una “presenza assente” che pone l’essere umano di fronte al mistero. Da questa condizione nascono sistemi religiosi e filosofici con conseguenze pratiche che investono l’etica, la politica, l’economia.
In ambito psicologico Freud parla di un inconscio desiderio di morte, Melanie Klein pone la morte a fondamento di ogni tipo di angoscia, Jung ritiene che la seconda parte della vita sia connotata dall’atteggiamento dell’uomo verso la morte e che questo ne riveli la concezione filosofica della vita.
Qualsiasi sia l’ambito nel quale lo psicologo operi è opportuno che sia consapevole che vivere conduce inevitabilmente alla morte e, in questa ottica, la professione richiede di approfondire la comprensione delle reazioni adattative e disadattative allo stress da malattia grave ed al processo di invecchiamento.
Formarsi a questa specifica competenza permette agli psicologi non solo di accompagnare le persone verso la morte ma di aiutare coloro che devono affrontare severe minacce alla qualità della vita, non solo alla vita stessa (diagnosi di cancro, sclerosi laterale amiotrofica-SLA, Acquired Immune Deficiency Syndrome-AIDS, trapianti d’organo, ma anche perdita di identità per emigrazioni, guerre, disastri naturali …).
Ma non è tutto qui. Se è vero che il tema della morte riguarda ogni essere vivente in ogni momento della sua esistenza, è anche vero che lo riguarda in modo assolutamente peculiare ed unico. I nostri progenitori greci e latini narrano come la morte fosse indifferente per Socrate, terribile per Cicerone, desiderabile per Catone.
Nel XX secolo l’Esistenzialismo, così come espresso nelle filosofie di Scheller, Jaspers, Heidegger ha reso la morte un focus fondamentale nell’analisi della condizione umana. Si afferma, ancora una volta, che solo la consapevolezza e l’accettazione della temporalità della vita (nel suo divenire e nel suo essere a termine) consentono di dare senso alla parola libertà nel contesto esistenziale umano. Già Montaigne affermava “solo l’uomo che non teme più la morte cessa di essere uno schiavo” (De Montaigne M.1993).
Diverse ricerche mostrano come l’atteggiamento emotivo davanti alla morte sia piuttosto indipendente dalla visione che la persona ne ha. La dicotomia più evidente è costituita dalla appartenenza ad una religione che fa vivere la morte come evento che apre alla “vera vita” o l’ateismo che vede la morte come evento inevitabile che pone fine alla vita.
A volte la stessa religione appare simile agli atteggiamenti contro fobici verso la morte: un antidoto, una difesa contro l’angoscia di morte di fronte alla quale la paura del giudizio divino non è meno sconvolgente del non essere, del nulla, come sottolineava il teologo Paul Tillich .
La morte è l’unico evento cui l’essere umano partecipi senza poterne fare esperienza, è l’unico evento che richiami il nulla. Scrive J. P. Sartre “non si può concepire il nulla al di fuori dell’essere” (Sartre J.P. 1956 pag 19) e continuando s’interroga “da dove viene il nulla?” e afferma “il nulla non è, il nulla è stato” (ibidem pag. 22). Non voglio soffermarmi qui su un tema pertinente l’ambito filosofico e rimando, per questo, al sempre attuale testo di Sartre. Quello che ho sempre notato nel processo di accompagnamento delle persone morenti è la estrema difficoltà, direi l’impossibilità, ad immaginare, ad entrare in contatto con il nulla, a porre in essere quel “processo psichico” nullificante che implica una frattura tra passato psichico immediato e il presente. Questa frattura è precisamente il “nulla” (ibidem pag 63).
Per gli esseri umani sembra più facile rappresentarsi la morte come un continuum con l’esistenza, come una esistenza in assenza di mondo, o in presenza di un mondo “altro”. E’ il mondo, così come lo si conosce, a ricoprire i ruolo di ”grande assente”. La vita dopo la morte, a volte, è vista come un contenitore vuoto, rappresentabile come negazione del pieno, visione che richiama il concetto di totalità fortemente tranquillizzante rispetto alla ricerca di certezze evocate dall’angoscia di morte, dal nulla.
La parola “vuoto” evoca esperienze quali assenza, non esserci. L’espressione “confezione sotto vuoto” sottintende l’assenza d’aria, l’espressione “portamonete vuoto” sottintende che non c’è dentro neanche un centesimo, l’espressione “posto vuoto a tavola” sottintende il non esserci di un commensale. Anche della morte si dice che lascia un gran vuoto, ma non è questo l’aspetto emotivamente più difficile da gestire. Nella nostra esperienza, nella cultura occidentale, queste stesse parole sono connesse con immagini e sensazioni di buio, freddo, paura, desiderio di prendere le distanze. Ogni individuo sembra avere una personale strategia di fronte al dilagare dello spazio/tempo vuoto, alcuni parlano, altri agiscono per riempirlo, la nostra vita, le nostre case sono piene di oggetti.
Nella nostra cultura, il valore è dato dalle cose, il vuoto è considerato uno spreco quando non addirittura temuto, evitato, combattuto. Nella mia sia pur limitata esperienza, ho potuto verificare quanto nelle pratiche orientali, nella meditazione, per esempio, si insegni a sperimentare il “vuoto” attraverso la disciplina del lasciarsi andare alla corrente dei pensieri, delle emozioni, delle sensazioni senza opporre resistenza, sino a raggiungere quella concentrazione nell’essere, profondamente rispettosa della vita così come si manifesta. Questa concentrazione lascia l’individuo esistere in quanto tale, indipendentemente dai suoi prodotti, dai suoi “oggetti”. Lo spazio vuoto tanto minaccioso diventa allora un vuoto reso fertile dalla intenzionalità, nella meditazione dall’intenzionalità della presenza a se stessi, al proprio silenzio interno, al senso di attualità che creando una frattura tra il “passato psichico immediato” e il presente fa sorgere il nulla dall’essere. Entrare in questo processo richiede il contenimento delle paure che trattengono dall’affrontare il nuovo, inteso come vuoto privo di significati, non occorre eliminarle ma ridurne l’intensità in modo tale che le paure stesse non siano paralizzanti, ma svolgono la loro funzione protettiva agevolando un prudente ingresso nel vuoto, in ciò che al momento risulta privo di significato. Le paure, infatti, possono essere esplorate e, una volta conosciute, perdono d’intensità, ci si sente meno impotenti, più fiduciosi e il vuoto spaventa di meno. In questo terreno la curiosità riacquista tutto il suo peso e l’intenzionalità umana può dirigersi verso l’esperienza del vuoto, del nulla lasciandone fiorire tutte le potenzialità.
La curiosità è naturale tanto quanto è naturale e preziosa la paura dell’ignoto, dello sconosciuto, il terrore di una mancanza dilagante di senso, di quel senso personale che si da agli eventi per rassicurarci di fronte a fatti e sentimenti dei quali spesso spaventa la stessa ombra.
Questo processo ha bisogno di essere agevolato da una relazione rassicurante in quelle condizioni umane di maggior fragilità quali possono essere l’infanzia, un intenso malessere psichico, l’ultima fase del processo del morire.
Cosa aiuta le persone a vivere l’angoscia dell’attesa, il dolore della separazione, la paura della morte? La condivisione dei sentimenti, le risonanze di senso e di rispetto di ciascuna individualità sono sempre stati valori significativi nell’accompagnamento del morente all’interno del contesto familiare. Il nodo fondamentale della formazione degli operatori sanitari in questo campo, non è l’acquisizione di teorie e tecniche in ambito psicologico, né la conoscenza dei processi fisiopatologici che accompagnano la malattia e la terapia e poi, di nuovo, la malattia sino alla fase che precede la morte. Il nodo cruciale della formazione riguarda la modalità con la quale l’operatore si presenta e si relazione, modalità che trova fondamento nella sua personale sensibilità così come si è andata plasmando attraverso l’esperienza, nella sua formazione culturale e professionale e nella sua disponibilità verso qualunque declinazione dell’esistenza umana. Nell’incontro con la persona sofferente gli operatori, qualsiasi sia il campo di applicazione della loro professionalità, non possono non portare se stessi e questo fa sì che, secondo il modello della Psicoterapia della Gestalt, ogni formazione alla relazione d’aiuto non possa che essere una formazione personale mirata allo sviluppo della coscienza fenomenologica, intesa come capacità di sentire quello che “si prova ad essere se stessi”, la persona che si è nel qui ed ora del contesto dato (Callieri B., 2002)
Sin dall’inizio del XX secolo, nella cultura cosiddetta occidentale, sono stati messi in atto meccanismi di negazione della morte in un’orgia narcisistica fondata sul principio dell’avere (Fromm E.,1976) e dell’apparire alla ricerca e alla medicina è stato affidato il compito di trovare la cura per ogni malattia quasi a proteggere l’essere umano dalla sua mortalità.
Solo negli ultimi anni inizia a farsi strada il principio che compito dei curanti non sia solo il prolungamento della vita quanto la ricerca ed il sostegno della miglior qualità di esistenza possibile per quella specifica persona, nella situazione data, sino all’ultimo giorno di vita.
Questa visione comporta un profondo cambiamento nell’etica della relazione nella fase terminale di vita, riportando in primo piano i concetti di intenzione e responsabilità della persona morente e di discrezione e rispetto da parte degli operatori. E’ importante, infatti, che quest’ultimi tengano costantemente a mente che la morte ed il processo del morire sono eventi naturali non sconfitte, parti della vita non della malattia. In quanto tale una morte può considerarsi “buona” solo se intesa come punto finale di un’esistenza individuale senza soluzione di continuità e ricca di senso, per la persona che muore e per le persone che la amano. Questo evento, infatti, non riguarda solo la persona morente ma ogni persona a qualsiasi titolo coinvolta nella relazione con lei. Il tempo che precede la morte è un tempo di vita e di relazioni, la cui qualità, a seconda del modo con il quale si è aiutati a viverlo, può essere più o meno soddisfacente. Nella fase cosiddetta terminale della malattia ai bisogni fisiologici (qualità dell’alimentazione e del sonno, controllo del dolore, cura del corpo) si sommano bisogni cognitivi, emotivi e relazionali (informazione adeguata, rassicurazione, qualità del tempo di vita, vicinanza emotiva e spirituale).
Ma se “curare”, far fronte alla malattia, è un agire che può essere immaginato e, quindi, attuato, anche nel caso non sia stato mai sperimentato, “accompagnare nel percorso del morire” non è un agire facile da immaginare, in quanto fortemente connesso con il nulla del quale non è possibile avere esperienza, come già detto. E’ certo importante che l’operatore alla relazione d’aiuto impari a distinguere il proprio dolore dal dolore dell’altro, le proprie paure dalle paure della persone morente per evitare quel gioco infinito di proiezioni che può avvenire nella relazione, gioco paragonabile a due specchi che, trovandosi uno di fronte all’altro, rimandano all’infinito le rispettive immagini. Essere presi in questo gioco vuol dire non vedere realmente la persona che si ha di fronte, ma solo il proprio riflesso in lei, vuol dire, come direbbero gli addetti ai lavori, identificarsi anziché porsi in una relazione empatica.
Occorre che lo psicologo sia in grado di interrogarsi, sperimentarsi e rischiare, consapevole dei propri limiti umani (personali e professionali), dei propri sentimenti (angoscia dell’ignoto, dell’inesplicabile), delle proprie emozioni (dolore per la perdita, senso di impotenza) e dei propri valori (visione e senso della vita).
Occorre che ogni psicologo sia addestrato a sospendere l’adesione a schemi conoscitivi precostituiti (precognizioni), a vivere i fenomeni psichici propri ed altrui come rivelazioni soggettive irriducibili ed originarie, a sentire e vivere riflessivamente su di sé gli accadimenti, senza pretendere di dominarli tecnicamente attraverso prassi terapeutiche che escludono ogni intenzionalità ed ogni autenticità della relazione.
Questa esperienza relazionale, è bene ripeterlo, non può essere data a priori, non può avere un significato compiuto, assoluto, precostituito, ma acquista senso nel momento stesso della sua espressione resa possibile dall’autenticità della relazione nel qui ed ora, una relazione intessuta di presenza, ascolto e condivisione portatrice di benessere tanto quanto o, forse di più, di ogni altro atto “curativo”.
Per sostenere l’esperienza di essere compagno di strada di una persona che sta vivendo il processo del morire come esperienza totalizzante, non è necessario avere un’analoga visione della vita e della morte, occorre saper rispettare la visione dell’altro.
In qualsiasi contesto, essere presenti all’altro” possiamo considerarlo un’ arte, un’arte che non si insegna, ma, pur tuttavia, si impara attraverso percorsi di “iniziazione” che implicano una costante riflessione critica sull’esperienza, sulla condivisione, sul confronto e, soprattutto, sulla compassione per sé e per l’altro.
Volendo accompagnare le persone in questo cammino, sarà necessaria una presenza consapevole del fatto che la morte , questo evento inevitabile, ultimo ed irripetibile è quello che da significato ad ogni esistenza umana.
Nella nostra cultura è più facile immaginare che solo poeti, pittori e scienziati possano lasciarsi andare al flusso della vita sino a perdere il senso dell’orientamento, ad azzerare la mente, a non pensare più a nulla vagolando nel buio delle sensazioni ed emozioni primarie dalle quali lasciare emergere un’idea, un’opera d’arte, una formula. Ma questo esperienza è possibile per tutti gli essere umani data la loro potenziale disposizione all’esplorazione ed al nuovo, potenzialità che diventa attuale esclusivamente attraverso la pratica del lasciarsi andare, imparando a contenere l’angoscia del vuoto, o meglio l’esperienza dell’emergere del nulla.
ENGLISH VERSION
PSYCHOLOGICAL COUNSELLING FOR THE DYING PROCESS (1)
By Anna Rita Ravenna – Gestalt Psychoterapist and Supervisor
(1) Lecture at the FIAP Meeting – Cape Town – July 2012
I came to a greater “understanding” of the dying process by accompanying the journey of those who requested my professional presence in such a delicate stage of their life. I use the word “understanding” not in the sense of rational comprehension, but rather in that of having “taken with me”, of my having assimilated intimate and personal experiences. The way of disappearing from the sight of other existences is specifically – albeit implicitly – connected to one’s own philosophy of life and death. Such particular experiences have helped me open new horizons and expand my personal vision of life and death.
I am about to talk to you psychologists about the dying process with the aim of making you understand what “I have understood”, but also with a little apprehension, and not just that associated with English!!
Using verbal language during conferences entails the risk of generating possible “misunderstandings” and this risk is even higher when dealing with the theme of death. I will try to facilitate my task by using exemplifications and analogies.
One of the peculiarities that sets apart human beings from the other living species is the ability to grasp the concept of a future and inevitable death. Long before its arrival, death is an “absent presence” that brings us to the encounter with mystery. This condition gives rise to religious and philosophical systems and thus has practical consequences in the ethical, political and economic spheres of life.
In psychology, Freud talks about an unconscious death wish, Melanie Klein places fear of death at the root of all anxiety, Jung believes that the second half of life is shaped by the individuals’ attitudes towards death and that this reveals their philosophic conception of life.
Whatever the setting in which they work, psychologists should be aware that living leads inevitably to death. In this perspective, the profession requires them to deepen their understanding of adaptive and maladaptive reactions to serious illness and to the aging process, even if the latter are just imaginary. In fact, the anxiety and the stress connected to these images constitute the implicit or explicit framework of many other human problems and limit people’s choices.
Moreover, the development of this particular expertise enables psychologists not only to accompany individuals to their death but also to help those who have to deal with severe threats to their life, as well as to their quality of life (cancer diagnosis, ALS – Amyotrophic Lateral Sclerosis, HIV/AIDS, organ transplants, but also identity loss caused by migration, war, natural calamities …).
But that’s not all. If it’s true that the theme of death applies to all living beings in every moment of their lives, it is also true that it will apply to them in an absolutely peculiar and unique way. Our Greek and Latin ancestors tell us that death was indifferent to Socrates, terrible for Cicero, desirable for Cato.
In the 20th century, in Europe, Existentialism, as expressed in the philosophies of Jaspers and Heidegger, has made death a particularly crucial focus of the analysis of the human condition by emphasizing, once again, that only the awareness and the acceptance of the temporality of life (indeed, human beings are in a constant process of becoming and life is finite) enable us to assign meaning to the word freedom in the context of human existence. Michel de Montaigne has stated that “he who has learned to die, has unlearned how to be a slave” (The Complete Essays, Chapter 20, To philosophize is to learn to die, Penguin Classics, 1993, pag. 96).
There are studies that show that the emotional attitude of individuals towards their imminent death is quite independent of their own personal points of view on death.
Sometimes, you could say that religion itself seems to resemble counterphobic attitudes: an antidote, a defense against the anxiety of death in the face of which the fear of divine judgment is no less devastating than non-being, than nothingness, a recurrent theme in the work of theologian Paul Tillich.
Death is the only event in which human beings participate without having the chance of experiencing it, is the only event that inevitably evokes nothingness. J. P. Sartre writes “nothingness cannot be conceived outside of being” (Being and Nothingness, Taylor & Francis, 1956, p. 19) and then asks himself “where does Nothingness come from?”… and states that “Nothingness is not, Nothingness has been” (ibid., p. 22). It is not my intention here to focus on a topic that belongs to the domain of philosophy and, thus, I will refer you to Sartre’s book, which is still very relevant today. One thing I have always noticed during the process of accompanying the dying is that it is extremely hard, I would say impossible, to imagine ourselves making contact with nothingness, to enact that “psychic process” of nihilation that implies a cleavage between the immediate psychic past and the present. This cleavage is precisely what Sartre called “nothingness” (ibid., p. 63).
Human beings seem to find it easier to picture life and death as part of a single continuum, where death is life in the absence of the world, or in the presence of “another” world. The world, as we know it, is playing the role of the “most notable absentee”. Sometimes, the afterlife is seen as an empty container, as the negation of fullness, and this vision points to the limitations, to the edges of the container and to the concept of totality, which is very reassuring when compared to the search for certainties evoked by death anxiety, by nothingness.
The words “empty”, “void”, “vacuum”, evoke experiences such as absence and “being missing”. The expression “vacuum-sealed” implies the absence of air, the expression “empty wallet” refers to the money that is not there, the expression “empty chair at the table” implies that a table companion is missing. In our experience, in Western culture, these words are connected to images and feelings of darkness, fear, desire to distance ourselves from something. Every individual seems to have a personal strategy to cope with the rampant spread of empty space/time, some people talk, others act to fill it, our life, our homes are full of objects. Value is dictated by things, emptiness is seen as a waste, if not even feared, avoided, fought against. Also death is said to leave a major void, however this is not the most difficult aspect to be managed on an emotional level. In my, albeit limited, experience, I had the opportunity to see the extent to which oriental practices, meditation, for instance, teach to experience “emptiness” through the practice of surrendering to the flow of thoughts, emotions and feelings, giving up resistance until one reaches that concentration on being that is deeply respectful of life as it is. This concentration allows individuals to exist as human beings, regardless of their products, of their “objects”. Then, that empty space, once so menacing, becomes emptiness that is rendered fruitful by being intentionally present with oneself, with one’s own internal silence, with the sense of currentness that creates a cleavage between the “immediate psychic past” and the present, thus making nothingness emerge from being. In order to enter into such process, we need to contain the fears that hold individuals back and don’t allow them to embrace novelty which is perceived as emptiness devoid of meaning. Meditation does not mandate to eradicate fears, but to reduce their intensity to the point that their paralyzing effect will end. Hence, fears will be able to perform their protective function allowing for a prudent entry into emptiness, into what is devoid of meaning at the moment. Indeed, fears can be explored and, once their object has become known, they lose intensity, people feel less helpless, more confident and emptiness becomes less frightening. This is the ground where curiosity regains its relevance and from where human intentionality may start to move towards the experience of emptiness and allow its full potential to bloom. By facilitating the experience of letting themselves go through guided fantasies but also through silence and meditation, the psychologist helps individuals approach and move towards the inexplicable experience of nothingness where any language, even the analog one, is inadequate.
Curiosity is natural as natural and precious for survival is the fear of the unknown, the terror in confronting a rampant lack of meaning, of that personal meaning we assign to events to reassure ourselves when faced with events and feelings whose shadows are often enough to scare us.
This process need to be facilitated by a reassuring relationship, especially in the frailest human conditions, such as childhood, serious psychological malaise ot the last stage of the dying process.
What helps people live through the anguish over the wait, the pain of the separation and the fear of death? The sharing of feelings, the resonances of meaning and of respect for each individuality have always been valued concepts that have played significant roles for families in the journey of accompanying the dying. When training psychologists, but also any healthcare professional to this task, the main focus is not on the acquisition of psychological theories and techniques or on the knowledge of the physiopathological processes that accompany the disease and therapy and then, again, the disease until the phase that precedes death. The crucial part of their training concerns the way in which they present themselves to and relate with the dying persons and their families. Indeed, it depends on the personal sensitivity they have acquired through experience, on their cultural and professional background and on their openness to any expression of human existence. In the encounter with a suffering person, healthcare professionals, and even more so psychologists can’t avoid bringing themselves and their own awareness and relational style to the relationship. Therefore, according to the Gestalt Psychotherapy model, any training aimed at improving their helping skills will necessarily involve training aimed at enhancing their personal phenomenological consciousness, i.e. the capability of feeling “what does it feel to be ourselves”, the person we are in the “here and now” of a given contextual setting (B. Callieri, 2002).
Since the start of the 20th century, in the so-called Western culture, there have been many attempts to deny death in a narcissistic orgy grounded on the principle of having (Erich Fromm, To Have or to Be, Harper & Row, 1976) and appearing; medicine and research were entrusted with the task of finding a cure for every disease, almost as if to protect human beings from their mortality.
However, a new idea has started gaining momentum in the last few years. Indeed, today the task of healthcare professionals is not only to prolong life but also to help each individual achieve and maintain the best quality of life possible until the last day of his/her life.
This vision entails a profound change in the ethical dimension of the relationship in the terminal stage of life because it brings to the foreground the concepts of intentionality and responsibility of the dying person, together with the importance of preserving their dignity and respect. Indeed, it’s crucial for helping professionals to keep constantly in mind that death and the dying process are natural events and not defeats, that they are parts of life and not of the disease. Hence, a “death” can be considered “good” only if it is considered as the endpoint of a seamless individual existence and also as en event full of meaning for those who are dying and the people who love them. Indeed, this event impacts not only the dying persons, but also their family and community. The time that precedes death is a time of life and relationships whose quality may be more or less fulfilling, depending on the way one is helped to live it. In the so-called terminal stage of the disease, alongside the physiological needs (sleep and nutrition quality, pain control and management, personal care and grooming) there are also cognitive, emotional and relational needs (adequate information, reassurances, quality of the remaining life span, emotional and spiritual closeness).
But if “curing”, confronting disease can be an action and can be imagined and therefore performed, even without any prior experience, “accompanying individuals on their journey towards death” is not an action, it is a process that is not easy to imagine because it is strongly connected to the actual relationship and to nothingness, to this impossible experience, as already pointed out. It is certainly important for professional helpers to learn to get in touch with their emotions instead of just conceptualizing (mentally conceiving) them. They need to learn how to distinguish their pain from that of the Other and their fears from those of the dying person. They need to learn to use countertransfer through experience in order to effectively manage the projections and introjections that occur in the relationship. Otherwise, it becomes an infinite game in which two mirrors facing each other are forever reflecting their respective images. When caught in this game, we don’t really see the person in front of us, but only our own reflection in that person. It means that, as the experts in the field would say, we are identifying with that person instead of engaging in an empathic relationship.
Psychologists need to be able to question themselves, to experiment and challenge themselves and take risks, being aware of their own human (personal and professional) limitations, of their feelings (anxiety of the unknown, of the inexplicable), of their emotions (grief related to loss, sense of helplessness) and of their values (life vision and meaning of life).
They all need to be trained to detach from pre-constituted knowledge schemes and to experience their and the other individuals’ mental phenomena as irreducible and original subjective revelations. They need to feel and reflexively experience events without expecting to technically dominate them through therapy practices that will not leave room for intentionality and authentic relationships.
It is worth stressing that this relational experience cannot be pre-assumed, it cannot have a complete, absolute, pre-constituted meaning, but acquires meaning the moment it is expressed. This expression is made possible by the authenticity of the relationship in the “here and now”, a relationship that is built on presence, listening and sharing, and that will enhance well-being as much as, or maybe more than, any other “curative” act.
In order to be the travelling companion of someone who is living the dying process as an all-absorbing experience, you don’t necessarily have to share their vision of life and death, you need be able to respect the vision of the other person, to be there and to be with, to accompany without pretending to “lead”.
In any setting, we can consider being present with the other person an art, an art that you cannot teach, but that is, nevertheless, learned through an “initiation” process that implies a constant critical reflection on experience, on sharing, on exchange and, especially, on compassion for ourselves and for the Other.
Those who wish to accompany someone in this journey will need to be present with themselves and with the Other and aware that this inevitable, final and unrepeatable event called death is the one that gives meaning to each human existence.
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