FINZIONI MULTIPLE: ANTROPOLOGIA TRASFORMAZIONALE TRA CURA E ARTE

di Giuseppe Errico

Pubblicato sulla rivista “Informazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia” n° 2,  settembre – ottobre 2003, ed. IGF. Roma

Roma, 21 aprile 2001
Il gioco del teatro consiste nel “dar corpo” all’immaginazione,
dell’autore e dell’attore, che si tratti di un gioco di pura immaginazione irreale è evidente!
Un attore immagina di essere per esempio Napoleone,
ma sa benissimo di non esserlo. Eppure deve farlo credere.
Vezio Ruggieri

Ma nell’attività trasformazionale, come nella vita, il testo letterario
non è scritto da una sola persona di una singolarità,
bensì da tutte le “persone” che vanno configurandosi come attori:
il testo letterario dell’attività trasformazionale è così un aggregato di copioni personali.
Sergio Piro

Premessa
Il teatro può annoverarsi come campo di studio e di ricerca dello stravolgimento pratico
delle condotte e delle relazioni umane, dello scuotimento (in alcuni casi) spietato delle
esistenze, del superamento della rassegnazione? Insomma quali sono i presupposti
affinché possa viversi una contrattazione didattica/curativa umana o, per meglio dire, una
trasformazione a livello personale e teatrale?
In tema di rapporto fra il teatro e le scienze umane (psicanalisi, psicopatologia, psicologia
e psichiatria in primo luogo) uno degli aspetti più misteriosi e interessanti della ricerca è
rappresentato dalle mutazioni intrapsichiche attoriali dei pazienti, in relazione alle
protenzionali trasformazioni psicoterapiche dei primi attori nei casi di limitazione e danno
personali. Tali mutazioni di tipo attoriale, che ci connettono al campo, attraversano una
condizione provvisoria di disidentità e s’indirizzano, tramite la pratica del mascheramento
(simulazione/dissumulazione), verso una condizione di liberazione da un ambito di
margine. Un limite che pone la persona in un angusto spazio di pensiero, di azione e di
emozione.
«L’attore di cui parlo recita le sue parti mancanti, fino a restituire quella unità di cui sente la
mancanza, non si immedesima nel cosiddetto personaggio, ma realizza che é anche quello…e
quello… e quello. E l’errare nel molteplice per ritrovarsi uno e altro dal molteplice. E il teatro non
é soltanto una metafora del grande palcoscenico del mondo, ma é anche e soprattuto una tecnica
da adottare sul grande palcoscenico del mondo, per sperimentare se stessi come erranti nella
persona, nella propria maschera, in quell’altra grande maschera che pare essere l’universo» (L.
De Berardinis, 1986)
«Il parlare stranissimo e assurdo di certi pazienti schizofrenici non è una loro stabile e definitiva
caratterizzazione, ma è una maschera che può, se variano le condizioni, essere sostituita da una
altra maschera, così come abitualmente fanno le persone poliglotte quando passano da una lingua
all’altra» ( S.Piro, 1993).
Per ciò che mi riguarda il teatro – così come affermava l’amico Franco Carmelo Greco – è
accadimento complesso (per cui ogni sorta di riduzionismo teorico a partire da una
angolatura scientifica risulta una operazione falsa) poiché, oltre ad descrivere l’umano e la
sua storia, comprende verità e finzione, menzogna e simulazione, rivela, capovolgendo
le regole del linguaggio, conducendo lo spettatore (così come l’attore) in un’altra (o
nuova?) dimensione spazio-temporale. Di questa complessità ne era ben consapevole
Cesare Musatti:
«Se riusciamo a superare – attualmente – il preconcetto di una persistente e rigida unità dell’io e a
vedere effettivamente quello che avviene in noi stessi, siamo e restiamo, perpetuamente, a
teatro»(C.Musatti, 1988).
Il campo indagato, tra il teatro (arte attoriale) e la psicologia-psicopatologia, con cui ci si
confronta e si lavora, è in una zona “complessa” dell’universo conosciuto in cui non può
farsi mai a meno né di sperimentare nuovi percorsi espressivi ed inventivi, né di osservare
persone e relazioni umane, di provocare sensazioni e idee, riflettere sull’accaduto storico e
sul fluire degli eventi umani.

Teatri nei contesti di trasformazione/cura/arte
Nel nostro secolo agli operatori della “psiche” (psichiatri, psicologici, pedagogisti, etc.)
occorre una profonda revisione storico-epistemologica sia dei metodi teatrali (il teatro non
può rimanere confinato nei meandri della cura, della didattica e delle tecniche della
sofferenza umana) sia dell’oggetto degli studi teatrali nel campo delle scienze umane
applicate. Una rifondazione epistemologica degli studi teatrali nelle scienze umane può
essere attuata solo con un salto epistemologico che renda più frequenti e sistematiche le
aperture e connessioni conoscitive, già in atto da qualche tempo nei contesti d’azione
psicologica e antropologica.
Non sono pochi coloro che, più che descrivere fenomenologicamente l’imprevedibilità
dell’atto attoriale e l’indeterminatezza dell’accadere espressivo in gruppo, si preoccupano
di stabilire differenze di genere e di campi applicativi (teatro come cura o come arte?),
ribadendo illusorie frontiere scientifiche o espressive. Mentre da un lato, psicologi e
psicoterapeuti lavorano e teorizzano sulla doppia metafora teatrale (vita=teatro;
mente=scena) dall’altro lato, e nello stesso tempo, alcuni artisti, che si sono avvicinati alla
psicologia-psicoterapia, agiscono sulla metafora (teatro= cura).
Insomma si assiste ad un doppio movimento degli scienziati verso il sociale e degli artisti
verso la psicologia:”Da una parte dello specchio, le persone interessate ai generi artistici
spiano la vita. Dall’altro lato, le persone interessate alle scienze umane spiano l’arte” (C.
Schechener, 1983). La metafora del mondo come spettacolo e della mente come scena
teatrale si propongono, spesso implicitamente da parte degli operatori, come modelli
teorici-operativi. La tendenza ad intervenire sulle individualità attraverso il teatro, unita allo
studio della società umana in termini di spettacolo, ha dato avvio a tendenze ed approcci
diversi, a vari modi di descrizione della condizione umana, a proposte epistemologiche
tese a descrivere le condotte/atteggiamenti umani e i modi della presentazione personale
(E. Goffman, 1956). Insomma “le parole trasformazione e teatralità sono modi diversi per
parlare di una stessa fluente caratterizzazione della comunità umana” (S. Piro, 1996).
Ma, al di là di ciò, nella teatralità scenica (relativa ossia ad un incontro di notevole
importanza sul piano personale, basato sulla rappresent-azione recitata di due connessi
ed intrecciati copioni) è possibile rintracciare temi e procedure utili per una trasformazione
intrapsichica. Il teatro può porsi come cura della normalità.
Una teoria generale sul teatro non può essere che una teoria mutevole, come è mutevole
il campo di indagine (accadere dell’accadere umano) e non può essere esclusivo
patrimonio della psicoterapia e/o della psicopatologia.
Ogni sperimentazione nel multiforme campo delle attività teatrali trasformazionali trae la
propria origine dalla considerazione che il singolo attore-utente (paziente, studente,
ricercatore, operatore sociale e culturale) non può o forse non deve essere considerato in
“astratto” come individualità, ma come legato indissolubilmente al suo tempo, al suo
rompersi, al suo incessante scindersi e allargarsi.
“Nella vita di tutti i giorni la conoscenza psicologica dell’altro è anticipazione del futuro, previsione
in senso forte di ciò che l’altro sta per fare o per dire, progetto che si compie” (S. Piro 1997).
L’obiettivo nuovo perseguito si rende concreto nel restituire al teatro la sua natura di
“evento vivente”, di accadimento umano imprevedibile, il suo valore di “cura della
normalità”. Possiamo affermare che il teatro, nel nostro tempo, non appartiene solo
all’arte o alle scienze umane ma al vasto campo antropologico delle mutazioni umane,
delle antropologie trasformazionali.
Il compito dei ricercatori e studiosi del teatro è quello di trattare e mettere in evidenza le
possibili connessioni scientifiche esistenti, a partire dall’esperienza, tra le forme artistiche
ed espressive e le metodiche del campo “psy”, partendo dall’accadere dell’accadere
teatrale.

Teatro come cura della normalità
E’ bene precisare che quando si tratta di analizzare le condizioni di limite (nonché a volte
la “sofferenza” umana) espresse sulla scena e i modi di superarla, non si possono
escludere i seguenti campi di studio e di ricerca operativa:
• limitazione dei talenti creativi ed inventivi espressivi di cui ogni essere è dotato fin dalla
nascita;
• limitazione e danno dell’intelligenza e dei sentimenti;
• limitazione e danno della gioia, della curiosità, della vivacità;
• limitazione e danno negli affetti e nelle relazioni sociali.
Quando si promuove una esperienza teatrale o espressiva basata sul piacere ludico,
sull’intreccio operatore-utente, non si può fare a meno di approfondire tali aspetti
(talento/creatività, intelligenza/sentimenti, curiosità/gioia, affetti/relazioni sociali) cioè di
condurre il partecipante attore verso tali aree di interesse attraverso modalità corporee,
vocali, espressive, prassiche. Nel lavoro teatrale si cerca in primo luogo di impedire che
l’attore sia “bloccato” cognitivamente e emotivamente in una posizione di stallo. L’attore
viene aiutato a rompere la resistenza al mutamento e a divenire, ad inventare, a legarsi al
tempo, a costruire il futuro, a confrontarsi con le proprie difficoltà (salto antropico, G.
Errico, 1993).

Pensando al teatro per pazienti-attori possiamo individuare tre condizioni basilari che,
associate fra loro, sono in grado di provocare un positivo stato di crisi mutazionale:
•1) il verificarsi di un evento imprevisto-previsto attraverso il “salto antropologico” (fase
dell”istigazione);
•2) una connessione fra questo mutevole evento espressivo e precedenti tensioni
identitarie che avevano già determinato una lacerante situazione conflittuale nel soggetto
prima dell’esperienza teatrale stessa (fase del conflitto);
•3) il superamento dell’incapacità della persona di affrontare la crisi in modo adeguato
servendosi dei suoi consueti meccanismi psichici (evitamento, ansia, depressione, mania,
etc.) (fase mutazionale).

ll termine crisi è di origine greca (da crisi, scelgo, scerno, discrimino, separo, decido) ed è
presente già nella medicina ippocratica per indicare un punto decisivo di cambiamento che
si presenta durante una malattia. In ambito psicologico si riferisce a un momento della vita
caratterizzato dalla “rottura” dell’equilibrio acquisito precedentemente e dalla necessità di
trasformare gli schemi consueti di comportamento che si rivelano non più adeguati per far
fronte alla situazione presente. In psicologia clinica si distinguono le crisi evolutive o di
sviluppo legate alla crescita delle persone, come l’adolescenza, la maturità, la menopausa,
la senescenza, etc., e le crisi accidentali, come una grave malattia, la perdita di una
persona cara, un cambiamento repentino nel lavoro, etc. Chiaramente le specifiche tappe
biologiche assumono un valore differente a seconda del contesto culturale in cui si
presentano. L’adolescenza, ad esempio, come passaggio dall’infanzia all’età adulta, dalla
dipendenza alla autonomia, viene vissuta in alcune culture in modo conflittuale e
prolungato. Le crisi accidentali sono quelle situazioni della vita il cui irrompere improvviso
può minacciare l’equilibrio.

Nel lavoro si cerca in primo luogo di:
•a – impedire che l’attore (o paziente, o discente) sia bloccato (molto spesso per mesi, e
forse anni) in una posizione di stallo dal tentativo di “interpretare” (ed effettuare un “salto”,
una modalità di “avventura”, una crisi mutazionale) ciò che deve essere invece vissuto
interiormente;
•b – aiutare l’attore (o paziente, o discente) a rompere la sua resistenza al mutamento (a
divenire, ad inventare, a legarsi al tempo, a costruirsi il futuro, a confrontarsi con le proprie
ombre, con la propria complessità e vastità interiore, etc.)
•c) favorire negli attori (o paziente, o discente) la messa in scena dei multiformi talenti
nascosti e negati.

In realtà l’effettualità trasformazionale di una cura dell’umano non è data dalla scelta delle
operazioni tecniche e degli strumenti che possiede il curatore, bensì dall’estensione, dalla
complessità e dalla tempestosità della metamorfosi personale dell’attore. L’importante è
ciò che la persona sofferente, limitata, emarginata, malata, miserabile, isolata, diviene, ciò
che inventa rispetto al tempo interiore ed epocale (coscienza/storia). Il sogno delle
persone di rimanere sempre uguali a sé stesse è la trappola più atroce che nel nostro
secolo l’umano, volendo e non volendo, si è imposto, ed in cui ha creduto.
E’ necesssario considerare l’evento teatrale come qualcosa che possa rifugiarsi da
parassite forme identitarie della coscienza e della conoscenza:
«ad una domanda di bisogni reali da parte dei partecipanti alle attività, si può rispondere
sviluppando un processo creativo vitale in cui interagiscono naturalmente le diverse istanze. Le
esigenze più importanti, provenienti da chi abita i luoghi del territorio non codificati come spazi per
l’arte, richiedono e motivano l’utilizzo di mezzi espressivi trasversali, la cui invenzione comporta
l’innovazione dei linguaggi. Per prima cosa si tratta di recepire le istanze delle persone a cui ci si
rivolge e con cui si opera» (G. Boccaccini, 1999).

Tutte le arti, in genere, quando vengono utilizzate per fini didattici e terapeutici
consentono soprattutto un’orizzonte ampio di riscatto dalla routine della quotidianità
avvilita e la realizzazione dei multiformi talenti di cui ogni esistenza umana è inizialmente
dotata:
«tutto subisce un cambiamento subitaneo dal quale l’individuo esce trasformato, sia dando origine
ad una nuova risoluzione, sia andando verso la decadenza. La storia della vita non segue il corso
uniforme del tempo, struttura il proprio tempo qualitativamente, spinge lo sviluppo delle esperienze
a quell’estremo che rende inevitabile la decisione» (K. Jaspers, 1964).
Chi si trova imprigionato nella sofferenza e nell’impossibilità di attivare forme espressive,
con fatica si distacca dalla maschera precostituita della sua singolarità, pertanto non
sperimenta la molteplicità intraindividuale: difficilmente utilizza le proprie risorse
fantastiche o percorre un nuovo modo di pensare: è impossibilitato a vagare fra le idee ed
i concettti, ha insomma difficoltà ad incontrare l’altro dentro di sé, ad essere, per dirla con
Pessoa, un sano fingitore.
La creatività attoriale diviene utile alla “cura” quando consente di vivere un’avventura,
quando ci conduce verso sperimentali trasformazioni personali.
«… la cura è una ricerca, fatta da attori che praticano costantemente la ricerca; ha un esito positivo
quando trasforma il “curato”, colui che soffre, in un ricercatore che sa usare la sua sofferenza per
capire, per slargare orizzonti, per sostituire all’odio contro i propri simili la protensione verso il
mondo, verso la vita, verso la specie» (S. Piro, 1997).

Occorre dunque dire che il teatro (in particolare il teatro delle “diversità”) produce
“mutazioni” in chi lo pratica, sia nel primo attore (vale a dire l’operatore sociale, colui che
intraprende l’agire trasformazionale) che nel paziente (colui che usufruisce dell’agire
trasformazionale). Si verificano infatti accadimenti complessi sia a livello intraindividuale
che interpersonale e si prospettano operazioni multivariate e transitive di antagonizzazione
anche del malassere psichico o collettivo :
«… l’interiorità contempla se stessa o contempla un’altra interiorità (ormai a lei inestricabilmente
legata) e, contemplando, parla; o anche contempla un agire che rimanda direttamente a un’altra o
ad altre interiorità. La temporalità, lo si é detto prima, è la fascia che avvolge nelle sue volute
multidimensionali l’accadere dell’accadere» (S. Piro, 1997).
Non prevedere nell’operatore sociale e nell’attore-utente i conflitti e le eventuali
contraddittorie presenze risulta errato:
«Il conflitto non è una caratterizzazione occasionale dell’animo umano, bensì il risultato inevitabile
e perpetuo della contraddittorietà iperdiffusa di tutte le linee, gli abiti, le trasversalità, i sistemi di
valori e di emozioni, etc. che la singolarità o il gruppo umano assumono nel loro divenire e nella
loro transizione nei gradi epocali e nel succedersi delle culture» (S. Piro, 1996).
“Il teatro delimita nel tempo e nello spazio un tessuto relazionale umano, e la sua storia è il
racconto di come vi si attui costantemente, ogni volta che ha luogo il dramma, una assunzione di
coscienza individuale e collettiva dei conflitti e delle passioni umane» (F. C. Greco, 1998).
Non soffermandoci troppo sulle potenzialità curative del teatro, ci siamo chiesti se la
prassi “teatrale” dell’attore possa essere assunta come percorso di
mutazione/trasformazione. Insomma se questa sorta di nuova scienza “teatrale nascente”
che assume, sino ad un certo livello, i connotati di una indagine/studio ai confini dell’arte,
della didattica e della cura psicologia, possa divenire ed assumere i connotati
paradigmatici di una scienza sociale e, nel contempo, contribuire a produrre in chi la
pratica delle trasformazioni umane, spontanee o protensionali (cioè legate a prassi volte
a realizzare una trasformazione antropica).
Oltre a riconoscere nel teatro elementi del vivere quotidiano (“la metafora della vita come
rappresentazione”) si è oggi del parere che la connessione operazionale fra arte, didattica
e cura, non solo sia ineliminabile nelle prassi operative tra gli operatori del campo “psy”,
ma che sia il “caso particolare di un più vasto sistema connessionale inerente le
“trasformazioni umane”. Ed è proprio questa connessione operazionale tra arte, cura e
didattica che può contribuire a portare nel campo delle scienze umane applicate la giusta
valorizzazione mutazionale.

Noi tutti, ricercatori e operatori, riteniamo che sia giunto il momento di praticare
esercitazioni espressive e linguistiche nell’enumerazione delle operazioni
dell’apprendere/insegnare/curare.

Come già detto l’effettualità di una cura non è data dalla scelta delle operazioni tecniche
degli strumenti (teatrali) che possiede l’operatore bensì dall’estensione, dalla complessità
e dalla tempestosità della metamorfosi personale. E’ bene che gli operatori che si
occupano di utilizzare lo strumento teatrale più che immaginare di curare con nuove e
collaudate tecniche prestino attenzione a ciò che la persona sofferente, limitata,
emarginata, malata ed isolata, diviene, su ciò che inventa rispetto al proprio tempo e ai
propri sistemi conoscitivi.
“…è difficile per molti operatori professionali accettare ciò che dovrebbe sembrare subito evidente
ed utile: cioè che la “cura” è, in questo caso, una forma alta e necessaria della contrattazione
umana, da praticare con competenza e serietà, ma non è la sorgente autonoma e privilegiata di
una conoscenza peculiare e codificabile dell’umano” (S.Piro, 1999).
Evidentemente la scena teatrale/trasformazionale può diventare il luogo ideale per
esplorare e studiare i fenomeni di sintelia, di ricerca di scopi comuni, di esercitazione
didattica, di alterità e di trasformazione della coscienza/linguaggio e per esplorare il mondo
dell’attenzione cognitiva e delle percezioni.
La teatralità, che contiene gli aspetti paradossali della verità e allo stesso tempo della
menzogna, della realtà e dell’immaginazione, può dar vita ad un efficace via di
trasformazione?
Come afferma Sergio Piro vi è una forte componente teatrale nell’agire protenzionale:
“La potenza trasformazionale della scena ha il suo correlato diretto nell’ineludibile teatralità di ogni
accadimento umano (didattico, “terapeutico”, istruttivo, etc.), proteso ad ottenere trasformazioni in
altre donne e in altri uomini. Le parole trasformazione e teatralità sono modi diversi per parlare di
una stessa fluente caratterizzazione della comunità umana” (S.Piro, 1996).
Continua lo stesso:
“Così, contro ogni forma di innocenza ideologica e di limitazione d’orizzonte, l’antropologia
trasformazionale postula la fondamentale teatralità degli accadimenti antropici plurali. Essa
variamente e incessantemente si combina con il lirismo, l’oratorietà, la retorica e l’interrogatività
dell’espressione, in uno svolgimento diadronico che non ha fine “ (S. Piro, 1997).
Il vasto campo dell’antropologia trasformazionale da sempre nel campo della cura e della
didattica sperimentale ha dato risalto al teatro, come componente legata al lirismo, alla
retorica, all’oratorietà, all’espressività, all’esercitazione del linguaggio in senso ampio e
riconosce nell’abilità del dire, una componente patica di notevole spessore comunicativo.
Riprendendo uno dei punti di analisi possiamo affermare che in tema di rapporto fra il
teatro e le scienze umane (psicanalisi, psicologia e psichiatria in primo luogo) uno degli
aspetti più misteriosi e interessanti della ricerca è rappresentato dalle mutazioni
intrapsichiche attoriali dei pazienti e degli operatori in relazione alle protenzionali
trasformazioni curative dei primi attori-(psicologi, artisti, antropologici, teatro-terapisti, etc.)
nei casi di limitazione e danno personali.
La più evidente caratterizzazione per chi pratica teatro, sia esso attore o utente, psicologo
o artista, è il fatto che nella “teatralità” succede che si può mostrare, nel fluire del copione,
talora un lato di se stessi e talora l’altro. Ciò appare legato non tanto a qualche metafisica
proprietà dei traversamenti interiori, ma è solo la conseguenza del fatto che, nella finzione
“sentita” a livello teatrale, la coscienza e il linguaggio non riescono in alcun modo a
cogliere la complessità fluente dell’interiorità. E’ solo attraverso la finzione rappresentata
che tale complessità viene appena percepita dalla persona che può così “distaccarsi” dalla
propria percezione. Il continuo rovesciarsi dei sentimenti di unitarietà e di molteplicità
dell’interiorità, dell’immaginazione e della percezione, della verità e della menzogna,
dimostrano come nell’attore la frattura di nessi intermedi dell’afferramento coscienziale, sia
alla base della stessa opera di rappresentazione.
Come già detto altrove non soddisfano le operazioni di connessione tra arte teatrale e
psicologia. La stessa operazione Moreniana è ricca di contraddizioni al suo interno. Siamo
lontani da un meta-modello che possa non identificarsi troppo nel teatro così come nella
sua zona di confine (drammateatro, teatro-terapia,arte terapia).
Le pratiche teatrali ed espressive sviluppatesi negli ultimi anni in Italia ed in Europa hanno
condotto ad una ridefinizione dei confini tra teatro e vita, orientandosi principalmente verso
due direzioni complementari:
Teatro sociale e/o delle diversità, che rappresenta sulla scena frammenti di vita, condizioni
di differenza e di marginalità in un processo mediato da una ricerca creativa di linguaggi e
forme da parte di artisti, persone svantaggiate ed operatori sociali.
Teatro terapeutico, che vede nella natura intrinseca del processo drammatico una
possibilità di cura, di benessere e di crescita della persona sofferente, attraverso la
condivisione di immaginazione e creatività. Pur appartenendo più al mondo dell’arte che a
quello della terapia, queste pratiche espressive e teatrali non necessitano di un testo
“tradizionale”.
Accennare alle mutazioni attoriali e psicoterapiche o, se si vuole, trasformazioni umane
che subentrano in casi di limite/margine può sembrare, a prima vista, cosa ardua e
complessa e, in alcuni casi, impossibile. Eppure compito degli psicologi che si avvicinano
all’arte è proprio quello di assumere un abito scientifico che colga nell’arte le possibilità di
cambiamento nelle traiettorie di esistenza. Divenire “scientificamente artisti” forse non
solo è possibile ma è estremamente necessario per coloro che, proprio partendo dall’arte,
intendono prendersi cura scientificamente degli altri, di coloro che sono al margine.
L’artista, così come il ricercatore delle scienze umane e lo stesso paziente, vivono una
condizione di provvisorietà permanente.
Fare scienza nel campo degli accadimenti teatrali, che si antagonizzano alla sofferenza
psicologica, significa decidere di non separare il mondo dell’arte dalla scienza psicologica,
di considerarle entrambe come un vortice locale del turbinoso, continuo mutare della
natura umana.

 

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