L’espressione plastica nel suo significato pragmatico di comunicazione
di Bruno Callieri
Pubblicato sulla rivista “Informazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia” n° 2, settembre – ottobre 2003, pagg. 2-9, ed. IGF. Roma
Nel 1962 BOBON e MACCAGNANI terminavano la loro relazione ad Anversa affermando che: << la ricerca sistematica delle analogie tra tutte le forme di espressione della personalità può costituire un metodo di studio e di comprensione di notevole importanza in semeiotica psichiatrica e nell’indagine patologica delle diverse sindromi psichiche>>.
Indubbiamente esistono forme diverse di espressione plastica (grafiche, di disegno, pittoriche, di scultura, musicali, di urbanistica, ecc.). L’espressione plastica, pur nelle sue molteplici accezioni, prescinde, a mio parere, da forme riconducibili a segni plastici, cioè a quei segni che, secondo BOBON e MACCAGNANI, << compaiono nelle opere del paziente come delle forme plastiche enon come delle informazioni verbali >>. Questa precisazione è dovuta al fatto che va riconosciuto in ogni espressione plastica un valore informativo, più o meno esplicito. Infatti non tutte le espressioni plastiche hanno un valore esplicito di comunicazione, o per lo meno non lo posseggono sempre in egual misura nei diversi momenti storico-culturali: ad es., certi graffiti paleolitici (sahariani, grotte dei Pirenei, Altamura, raffigurazioni mitologiche) dovevano avere un valore di comunicazione specifico in quella data epoca. A tale valore specifico è andato poi sostituendosi un nostro valore culturale. Donde la giustificazione della plurivocità dell’interpretazione dei miti, delle raffigurazioni, etc. In genere possiamo dire che, anche in ambiti culturali prossimi a quello attuale nostro, la coincidenza esatta tra espressione plastica e valore comunicativo (intenzionale) non è quasi mai attuabile. Da ciò deriva la possibilità di interpretazioni diverse di una stessa espressione plastica. E l’evoluzione delle stesse forme di espressione plastica trova la sua ragione d’essere nelle diverse trasformazioni culturali e nelle diverse esigenze dei livelli di comunicazione. Ecco quindi una prima difficoltà per un tentativo di trovare un codice universale e permanente del significato comunicativo dei diversi tipi di espressione plastica.
Invero, il relativismo culturale, che spesso si è invocato per una comprensione più adeguata di molte malattie mentali e sociopatie, vale anche per il campo dell’espressione. I rapporti tra espressione e cultura ( intendendo col temine << cultura >> l’organizzazione sociale, in un dato momento storico, centrata sull’accettazione di una determinata serie di valori), non possono essere sottovalutati. Qui basti soltanto ricordare che, nella valutazione dei rapporti tra comunicazione ed espressione, non si può oggi prescindere dalle prospettive proprie del relativismo culturale ( cfr. Borowski). L’analisi dei fattori di integrazione tra sistemi culturali e livelli di espressione dovrà costituire un campo di indagine fecondo per una sociopsichiatria dell’espressione.
Debbo per ora limitarmi ad un problema più circoscritto, quello de rapporti tra espressione plastica attuale e criteri di valutazione oggi per noi validi, in un preciso contesto di relazioni sociali e culturali. Non possiamo a priori stabilire se una qualunque espressione plastica abbia, o non, di per sé un significato di comunicazione. Non possiamo infatti prescindere dall’autore di questa espressione plastica, dall’osservatore, e dal fatto della diversità degli osservatori in momenti diversi e in epoche diverse. Si pensi, ad esempio, ai differenti livelli di comprensione di certe opere pittoriche in diverse epoche. La così detta << critica storica >> ha avuto proprio il significato di presa di coscienza di questo problema. Da ciò consegue non la relativizzazione dei valori artistici (problema che esula dalla nostra competenza – cfr. il saggio << Del Bello >> di GIOBERTI ) ma il relativismo degli apprezzamenti estetici. Ciò vale in particolare per il problema dei rapporti tra espressione plastica e comunicazione non verbale.
Mentre la parola è sempre comunicazione, non altrettanto può dirsi di ogni espressione plastica. Questa infatti, come accade per altri segmenti comportamentali dell’individuo (gestica, mimica, fidiognomica), assume aspetto di informazione solo quando intervenga quel processo psichico che chiamiamo generalmente intenzione o intenzionalità. Questa va presupposta o nel solo osservatore o nel solo soggetto che esprime o in entrambi. Quindi è l’intenzionalità che investe di valore informativo l’espressione plastica, è la presenza della intenzionalità che crea il presupposto per la comunicazione, la quale però non si esaurisce mai nel singolo ma deve svolgersi su di un piano per lo meno duale.
Possiamo quindi domandarci se lo schizofrenico ( o in genere il malato mentale) possa mettere nelle sue espressioni plastiche lo stesso gradiente di intenzionalità che può metterci un soggetto normale. O, addirittura, se egli abbia mai l’intenzione di porsi in rapporto con gli altri, tramite la sua espressione plastica. Rispondere negativamente a tale problema significherebbe negare a priori nel paziente l’intenzione a significare, e di ciò non abbiamo documenti. Ne abbiamo invece, in abbondanza, per permetterci di affermare che il gradiente di intenzionalità è, nello schizofrenico, diverso da quello che si ha nel normale. La sua impostazione del rapporto segue leggi profondamente diverse, in gran parte indicate dalla psicopatologia classica. Il rapporto, infatti, può essere posto in modo paralogico, metaforico, analogico, paratimico, ecc. Secondo tali modelli, si può parlare di intenzionalità inerente all’espressione plastica dello schizofrenico. Lo psichiatra, in tal caso, deve decifrare il messaggio come un osservatore partecipe, cioè deve essere ben pronto a coglierne gli aspetto psicopatologici; egli quindi può estraniarsi dalla rete psicopatologica in cui è invischiato il malato, allo stesso modo in cui il critico d’arte non può prescindere da certe reti culturali dell’opera che è chiamato a giudicare. Tuttavia anche lo psichiatra più pronto a valutare questi aspetti non può a volte coglierne l’esatta portata psicopatologica: l’espressione plastica che ha di fronte, sia pure non isolatamente presa, ma nota come di quel malato, in quel suo dato momento di malattia, può apparire indecifrabile, enigmatica.
Da un giovane pittore divenuto da poco ebefrenico
Ciò potrebbe derivare dal fatto che il paziente non aveva intenzione di comunicare. A questo punto va però ribadito che, nel processo di comunicazione, l’intenzionalità può inerire solo nel ricevitore (¹) e che quindi, una volta che si abbia veramente l’intenzione di decifrare un messaggio, si riesce sempre a cogliervi elementi informativi. L’incomprensibilità dell’espressione plastica può anche derivare direttamente dall’alterazione semantica provocata dal <<disturbo fondamentale>> della malattia: per cui anche l’intenzionalità di decifrare è costretta ad arrestarsi di fronte ad una incomunicabilità primaria, essenziale. Se si riuscisse sempre a spingere fino agli estremi l’intenzionalità di decifrare, allora quell’ultimo ignoto, l’ultima Thule (hinc sunt leones) potrebbe costituire un segno patognomonico: in tal modo verrebbe restituita al valore comunicativo anche l’espressione plastica più alienata; l’incomunicabilità diverrebbe comunicazione eo ipso.
Una terza difficoltà va riportata alle distorsioni inerenti al ricevitore stesso. Il primo disturbo di decodificazione può derivare dal fatto che lo psichiatra è portato ad interpretare il messaggio contenuto in una data espressione plastica, inquadrandolo sullo sfondo della individuazione nosografica di quel malato. Accade in tal modo che egli, nell’espressione plastica, cerchi gli elementi di convalida della sua <<diagnosi>> piuttosto che i segni di un messaggio originale, proprio di quel dato malato. È come se uno volesse comprendere il significato dell’espressione plastica di un dato pittore cercando le caratteristiche proprie della scuola cui egli appartiene. Per quanto interessante, tale ricerca è tuttavia profondamente incompleta in quanto viene a trascurare l’aspetto personale, nuovo, irriducibile dell’opera del singolo.
In ogni espressione plastica va distinto, come fondamentale, un momento di ispirazione che precede geneticamente e logicamente quello dell’elaborazione formale. Ecco perché ci si può arrestare alla sola indagine del secondo momento, cioè a cogliere gli elementi di tecnica della realizzazione espressiva, trascurando il momento fecondo, essenziale, della ispirazione creativa. Gli elementi formali dell’espressione plastica di un malato possono effettivamente essere influenzati dalla sua particolare posizione nosografica (es. schizofrenico, maniaco), alla stessa stregua che un artista subisce l’influenza della <<scuola>> cui appartiene. Per questo motivo un osservatore che si limiti soltanto al rilievo di questi aspetti di elaborazione formale non sarà in grado di cogliere l’originalità del messaggio. Pur essendovi l’intenzione di decifrare, manca qui la capacità di effettuarla compiutamente. In termini di teoria delle comunicazioni, si può dire che viene attribuita eccessiva importanza alle istruzioni ([1]). Troppa metacomunicazione finisce dunque per distorcere profondamente il messaggio. Ad es., di fronte al disegno di uno schizofrenico uno psichiatra può riconoscervi le caratteristiche della malattia: la stereotipia, la minuziosità, la rigidezza di composizioni, peculiari e simboliche, il geometrismo prevalente, evocano i disturbi associativi, affettivi e comportamentali propri della malattia. Ma, l’aver dedotto che quella data espressione plastica è di uno schizofrenico non aumenta molto la nostra conoscenza del malato. Ci interesserebbe ben di più sapere che cosa, in quel dato momento e in quella determinata situazione, egli voleva comunicare. È, come se, nell’interpretazione dell’opera di un artista, si esaurisse il discordo soltanto nella sua tecnica di scuola, omettendo completamente il rilievo delle caratteristiche personali. La metodologia fenomenologica sottolinea energicamente questa <<distorsione>>. Allo psichiatra fenomenologo non interessa tanto di comprendere questi messaggi esaurendoli tutti nell’ambito di un contesto conoscitivo predisposto, quanto di preparare un incontro di significati che si esplicitino nel messaggio stesso, accolto in piena <<epoché>>.
In altri termini, una data espressione plastica interessa più come manifestazione dello <<stile>> di un individuo che non come semplice dato di rilievo semiologico. Non bisogna inoltre dimenticare
che l’intenzionalità informativa di chi invia il messaggio, sia esso verbale che non verbale, presuppone la disposizione ad uscire da una situazione di solitudine. La solitudine, come è stato da me prospettato altrove, si accompagna sempre ad un senso di angoscia, è provoca la messa in atto di difese. All’espressione plastica, come ad ogni altro tipo di espressione, inerisce una intenzionalità di comunicare che, aggiunta, fa dell’espressione stessa una delle più valide difese della solitudine. In questo senso, come afferma MERLEAU-PONTY, <<si può scoprire la solitudine nel difetto di comunicazione>>. L’espressione plastica comporta dunque sempre in sé una potenzialità dialogica, che spesso supera in efficacia quella propria della comunicazione verbale, che può essere assunta per scopi più o meno dichiaratamente terapeutici. Come si vede, l’impostazione fenomenologica non si chiude ad orizzonti pragmatici, anzi fornisce loro una giustificazione teoretica, di piena validità. Va detto, però, che tale intenzionalità a significare spesso resta su un piano puramente formale, e la tematica si mantiene inaccessibile ad una spiegazione che si imponga immediatamente. Riporto, a mo’ di esempio, due espressioni plastiche di un giovane schizofrenico da me osservato.
Come risulta dalle figure, il messaggio in esse contenuto appare enigmatico di per sé e non accessibile ad una decodificazione basata sui parametri del senso comune; neppure l’interrogatorio approfondito del malato ha consentito, in questo caso, la possibilità di una spiegazione tematica. Tuttavia, malgrado queste limitazioni di non raro riscontro, si deve sempre cercare di interpretare l’espressione plastica non in funzione di una convalida dell’inquadramento nosografico del malato, ma piuttosto nell’ambito della singola persona. È molto meno importante, a mio parere, presentare una serie di disegni e quadri di schizofrenici, rilevandone certe caratteristiche generali, di categoria, che non invece corredare una data espressione plastica della storia dettagliata dell’esecutore, in quel momento creativo, e delle sue più o meno esplicitamente dichiarate intenzionalità a comunicare. E questo anche perché si tratta di opere che sono valide per noi non tanto sul piano artistico quanto su quello psicologico, cioè di opere che debbono consentire non rilievi estetici ma interpretazione di temi. Quel che a noi psichiatri deve interessare precipuamente è la ricerca e la scoperta di possibilità di stabilire un contatto e di decifrare il messaggio contenuto nell’espressione plastica. È qui che il ricorso a farmaci trova forse una sua giustificazione, nel fatto che in tal modo si può favorire una maggiore produzione di messaggi ed una loro formulazione più esplicita, più chiaramente intenzionale, facilitando la possibilità di cogliere meglio il contesto significativo di una struttura espressiva.
Circa i modi di decodificare l’espressione plastica del malato mentale, va notato che essi possono essere notevolmente influenzati dalle impostazioni teoretiche di partenza dello psichiatra stesso, cioè dalle sue esigenze, più o meno esplicite, di interpretazione. Certi disegni, ad esempio, vengono troppo spesso interpretati in una chiave simbolica generica, quasi fosse possibile considerarli come strutture di significati a sé stanti, valide indipendentemente da tutto il contesto. Si tratta qui di una trasposizione di una propria tematica in quelle del paziente. Nel cogliere la proiezione del mondo privato del paziente nell’espressione plastica in esame, bisogna porre attenzione a non proiettare i propri contenuti sulla proiezione stessa. Per quanto lo psichiatra debba essere un osservatore partecipe della situazione medico-paziente, non può abdicare totalmente ad una posizione di distacco obiettivo, che gli impedisca di immettersi in toto nella situazione psicopatologica, cioè di alienarsi in essa. Ciò non toglie che, decodificando il messaggio contenuto in un’espressione plastica, lo psichiatra non debba domandarsi che cosa il paziente intendeva comunicare a mezzo di quell’espressione, cioè in un certo senso dia per scontata l’intenzionalità di comunicare inerente a quella espressione. Ci sembra inutile, a questo proposito, il tentativo, sovente intrapreso, di cogliere analogie ed affinità tra espressione plastica di malati mentali e determinate correnti figurative, contemporanee o non. Crediamo infatti, con LE GUEN, che l’opera d’arte sia <<una creazione artificiale, liberamente voluta dal suo autore, nell’intenzione di trasmettere agli altri un messaggio che susciti il piacere estetico, e ciò sotto una forma particolare di cui la condizione prima è la bellezza>> (pag. 34). Ritengo che l’espressione plastica, nell’ambito psicopatologico, non può mai assumere un valore artistico, vale a dire, di un messaggio decifrabile nell’ambito di una cultura; il messaggio è sempre privato, egocentrico, mai esplicito. È per questo che dobbiamo parlare di una <<cosiddetta arte psicopatologica>> e che dobbiamo assumere un atteggiamento cauto circa le valutazioni estetiche di questa pseudo-arte, consapevoli che, come dice MALRAUX, <<l’arte espressiva non è l’arte>>, cioè l’arte non consiste essenzialmente nell’esprimere: qualsiasi opera d’arte, sia essa plastica, letteraria o musicale, implica certo un connotato espressivo, ma non può prescindere da una dialettica, che conduca al costituirsi di una forma, coglibile dagli altri come estetica. L’opera d’arte, infatti, come faceva notare EY (Évol. Psychiatr., p. 566 – 1962) <<ne s’institue comme telle qu’en devenant non plus seulement une fin mais un moyen de capter le plaisir esthétique pour l’offrir aux autres>>.
D’altro canto, ripeto ancora che non dobbiamo porci di fronte all’espressione plastica del malato mentale con l’intenzione di ricavarne un piacere estetico. Il messaggio convogliato dall’espressione plastica del malato mentale resta invece pragmaticamente conchiuso in un ambito comunicativo che solo l’intenzione del medico può svolgere sul piano del dialogo.
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