TEATRI DI PACE E TEATRI DI GUERRA: LA GESTALT COME MODELLO DI INTEGRAZIONE SOCIALE IN CONTESTI DI EMERGENZA
di Valentina Barlacchi
Psicoterapeuta – Formatrice e Arteterapeuta
Pubblicato sul numero 26 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.
Abstract: L’articolo propone un punto di vista scaturito dall’esperienza di lavoro in contesti di emergenza umanitaria, partendo dai presupposti della psicoterapia della Gestalt. Le riflessioni riguardano il processo di riconfigurazione di un tessuto relazionale e sociale che permetta alle persone di affrontare le situazioni di crisi e post crisi, per ricostituire un senso di identità e appartenenza, accedendo alle loro risorse e rafforzando processi di resilienza, laddove per motivi di guerra sono stati eretti “muri” che aggiungono sofferenza e disgregazione alle perdite subite e ai drammi vissuti.
Abstract: The article proposes a point of view derived from the experience of working in humanitarian emergency contexts, starting from the assumptions of Gestalt therapy. The reflections concern the process of reconfiguration of a relational and social net that allows people to face crisis and post-crisis situations, to reconstitute a sense of identity and belonging, accessing their resources and strengthening processes of resilience, where for reasons of war “walls” have been erected which add suffering and disintegration to the losses suffered and to the dramas experienced.
Keywords: identità, Gestalt, emergenza umanitaria.
dedicato al profumo
di gelsomino
delle donne di Damasco
I fight the fear of my moving into the unknown.
Do you know that my eyeball
sings and breaks the silence
of my sadness and nothing
stays to my strings.
The frost of love is taking away
my spring and my branches.
Poem of a 11 years old syrian child written on his drawing
Introduzione
L’articolo nasce dalle riflessioni emerse durante le esperienze di lavoro all’estero, in particolare in paesi del Medio Oriente dove, dal 2007, nel contesto di progetti umanitari di emergenza e post emergenza, promossi da Ong italiane e locali e finanziati da UNICEF, UNHCR e Comunità Europea, conduco formazione di formatori nell’area di psychosocial support e child protection, come psicologa psicoterapeuta della Gestalt. La formazione si rivolge ad operatori che svolgono attività di supporto psicosociale con bambini, adolescenti e donne che hanno subito situazioni traumatiche dovute alle guerre e alla fuga in paesi confinanti, dove vivono come profughi nei campi. Il lavoro qui esposto riguarda l’intervento su più livelli con cui mi avvicino a questi contesti. Il target della formazione riguarda i profughi ma anche gli operatori, che sono a loro volta vittime di traumi e ferite, che il contatto con i beneficiari del progetto fanno riemergere e che richiedono attenzione e accoglienza, come base fondamentale per la formazione di base nella relazione di aiuto, che è di tipo esperienziale seguendo l’approccio teorico e filosofico della Gestalt ad orientamento fenomenologico-esistenziale, attraverso l’uso di tecniche espressive e in particolare l’uso del teatro.
Identità, appartenenza e linguaggio
Uno dei temi con cui sempre vengo a confronto lavorando in paesi di guerra è il tema dell’appartenenza, cioè dell’identificazione con i propri usi e costumi come baluardo di resistenza, armata e non, del proprio senso di essere al mondo.
I contesti di emergenza portano in primo piano un richiamo ancestrale del bisogno di riconoscere la propria identità: i popoli in fuga si rifugiano come profughi in paesi dove vivono sotto assedio, reclusi dietro un muro, o in altri dove la guerra ha imposto un senso del vivere in una precarietà costante e al tempo stesso, una determinazione alla ricostruzione, in cerca di un benessere crescente.
Il confronto con l’altro, con il diverso, con il “nemico” o l’invasore, radicalizza processi di stereotipizzazione, di generalizzazione, di discriminazione e intolleranza. L’altro diventa sempre più un magma generalizzato privo di unicità, un tutto indistinto, privo di relazione con Io.
Questo processo si sclerotizza e radicalizza sempre più da una parte in una perdita di senso di sé, nei perdenti, nei deboli, dall’altra in un sentimento crescente e collettivo di superiorità culturale, nei vincenti, nei forti.
Paolo Quattrini parla, per alcune culture, di una mancanza di contatto in termini culturali, anche se non strutturali: la distanza diventa comunque non più abitabile, ma una trincea di guerra contro l’altro, il diverso da me. A questo proposito mi vengono in mente le città dove i ricchi stanno in alto sui grattacieli e i poveri nelle catapecchie in basso, lontano dagli occhi e dal naso dei primi. La distanza serve a mettere l’altro fuori da sé, lontano, estraneo alla propria umanità, che così si impoverisce essa stessa.
Come due sistemi che si vanno sempre più allontanando, di riflesso il linguaggio diventa impersonale, generalizzato e privo di un’intenzionalità chiara e responsabile.
In certi paesi il parlare in prima persona è uno dei passaggi più difficili da realizzare nei gruppi di formazione per operatori, tanta è l’abitudine ad esprimersi come dei portavoce di una comunità di appartenenza da non tradire, e che lascia la briglia corta o lunga, a seconda dei casi, delle famiglie, delle condizioni economiche, ma alla fine tira a sé, richiamando ai doveri verso il gruppo di appartenenza. Non è un caso che di fronte ad una persona nuova, spesso in Libano e nei paesi del Medioriente, sia chiesto il cognome, da cui facilmente si può risalire alla comunità di origine, geografica, religiosa e culturale. I nomi portano con sé già molte informazioni rispetto alla storia della famiglia.
Pensare in prima persona e agire di conseguenza è altamente rischioso e vissuto come minaccioso per la propria sopravvivenza nel sistema comunitario, basato in primis proprio sulla famiglia. Quando questo processo inizia, avvengono cambiamenti con se stessi e tra le persone.
Dipendenza e interdipendenza
Paolo Quattrini differenzia dipendenza e interdipendenza come un appartenere per ragioni storiche o per relazioni di scambio; a queste due istanze, presenti contemporaneamente nella vita di ogni persona, voglio fare riferimento.
Da un punto di vista psicologico, il cammino verso la libertà si potrebbe metaforizzare come un viaggio dalla dipendenza all’interdipendenza nel vivere le relazioni della propria vita, a partire da se stessi, “il soggetto spesso dimenticato”.
Quando una persona può sopportare l’ansia della separazione, riconoscendosi come essere umano, unico responsabile di se stesso, diverso e irripetibile, tra altri, diversi, affascinanti e temibili nella misteriosità e talvolta nelle ragioni del loro agire; il mondo a quel punto comincia ad articolarsi e ad aprire le sue porte verso la scoperta di nuove terre esistenziali.
Dalla nostalgia per l’antica rassicurante e terribile isola fusionale della propria appartenenza storica, si può prendere il largo e incontrare un’infinità di persone nuove, con cui avere relazioni di scambio, che vediamo e ci vedono con occhi diversi da quelli consueti.
Nella mia esperienza di formatrice alla relazione di aiuto, il contesto di gruppo facilita le persone ad incontrarsi con sguardi nuovi, dando e ricevendo feedback che a poco a poco vanno incrinando un’immagine di se stessi interiorizzata in epoche antiche della propria vita, come risposta alle relazioni primarie e al contesto in cui sono cresciuti.
Il dramma generato dalla dipendenza, che molto confonde, alimentando la fame d’amore nel gruppo di appartenenza e la paranoia verso un nemico “fuori”, persecutorio e minaccioso per la propria integrità, si scioglie passando attraverso il cammino dello stare in contatto. La capacità di percepire l’altro come l’insieme di ciò che per il nostro gusto appare bello e brutto, buono e cattivo, giusto e sbagliato, la potremmo chiamare empatia; la possibilità di sentire ciò che sente l’altro, senza confondersi con lui, per poterlo amare ma eventualmente anche per scegliere di essere nemici.
A questo punto, nei corsi di formazione si solleva una ribellione di gruppo; non sembra neanche lontanamente immaginabile mettersi nei panni del nemico, specie se ha distrutto, bombardato case e ucciso la propria gente, ma talvolta anche per molto meno. La possibilità di compiere scelte nella relazione Io-Tu –riguardo a quali parole pronunciare, quali comportamenti ed emozioni agire o viceversa come esprimerle, si rivela una fonte generativa per la propria vita e qualità delle relazioni, con se stessi e con gli altri.
La dipendenza si manifesta infatti nel vincolo dell’odio, tanto corrosivo quanto il vincolo d’amore, che, senza una distanza abitabile, diventa facilmente simbiosi e confluenza, fonte di ripetute sconfitte e frustrazioni dei propri desideri di riconoscimento e autonomia.
Accettando, invece, di stare in uno spazio di interdipendenza, si può avere il piacere di incontrare l’altro, in quanto straniero, che viene da un mondo diverso, contattabile attraverso lo scambio, ma non fagocitabile nell’assimilazione della dipendenza, data dal bisogno e dalla pretesa del vincolo. In greco la parola xénos può indicare il nemico straniero, oppure l’amico rituale, cioè colui con cui si scambia ospitalità, amicizia, diversificata da filia, philía, termine più propriamente riferito a legami famigliari o assimilabili ad essi. In questa prospettiva la relazione è fondata sulla qualità dello scambio, non su un contratto a priori, né sulla semplice osservanza di codici comportamentali.
Con l’espandersi della rete di relazioni con persone anche molto lontane dai sistemi di appartenenza originari, si vanno espandendo anche i confini interni, lasciando più spazio alle molteplici immagini di sé.
Omero usa il termine xénos con il significato di “ospite, legato con altri per vincoli di reciproca solidarietà, sotto la protezione di Zeus Xenios”. È interessante notare come il corrispondente della parola araba, di comune area mediterranea, indicante lo straniero (al ajnabi/ al aja’nib), abbia a che fare con il modo di percepire l’ospite, come “quello di fianco”, invece di “quello di fuori” come nelle derivazioni linguistiche indoeuropee. Dal punto di vista delle relazioni intra e interpersonali, questo significa abitare uno spazio interno, dove sono accettabili le ambivalenze proprie e altrui e le differenze sono rappresentabili come un e/e, invece di un o/o, senza creare un conflitto pericoloso per la propria identità.
Gli incontri della vita a poco a poco diventano parte della tessitura della propria identità, intesa come un processo in divenire, in continua trasformazione, in cui, come dice Sergio Mazzei, si può apprendere a stare soli, quando non si è più soli dentro e per questo si ha bisogno di sentire dentro di sé la presenza di qualcuno importante che ci sostiene (Mazzei, 2003).
L’identità come processo di democrazia del mondo interno
La Gestalt lavora con le persone, creando fili visibili e invisibili di scambi e connessioni personali di tipo orizzontale, democratico, che rafforzano il senso di padronanza della propria vita, di apertura verso l’esterno e le possibili diversità: attraverso la valorizzazione delle differenze, nel dialogo Io-Tu, come base dell’esistenza stessa di un Io, promuove una democrazia intrapsichica e intersoggettiva.
Diventa palpabile il passaggio da un senso di identità per via storica a un senso di identità per relazioni di scambio, dove l’incontro con l’altro trasforma e fa incontrare se stessi anche solo per un attimo.
Molte volte, nei percorsi di formazione, sembra che a un certo momento i partecipanti ritrovino la vitalità, le proprie aspirazioni: ma arriva un punto dove il confronto con il chiedersi se riescono a sostenere l’esperienza di stare dentro o fuori dalla famiglia fa capitolare ogni sogno.
Il passaggio dal gruppo vissuto come clan alla comunità aperta come insieme permeabile, capace di scambiare per osmosi con altri sistemi, passa per una lacerante paura di dover scegliere tra lo stare dentro o fuori la tradizione, tra la prigione o l’esilio: questa dinamica si potrebbe trasformare in una logica dello scambio, inteso come fondamento della sopravvivenza del sistema stesso, e in questo modo perderebbe la componente tragica.
La paura del giudizio dell’altro, il non potersi mostrare vulnerabili, il dover rispondere a certi schemi, immagini, stereotipi, porta a un continuo tradimento di se stessi. Le persone soffrono di questa prigionia e solitudine, non potendosi permettere di svelarsi nelle loro emozioni; chi per primo si apre all’autenticità della propria esperienza porta un vento di liberazione e di sollievo abbattendo un muro anche per gli altri. Il riflesso più dirompente di un cambio di rotta nei gruppi è percepibile in un’impennata della creatività in ogni aspetto del lavoro di gruppo. Le persone cominciano a creare insieme qualcosa che prima non esisteva, che diverge dalle forme apprese per educazione, per tradizione e cultura. Lo si percepisce nella qualità delle loro parole, dell’espressione creativa dei corpi, delle voci, del gioco, delle improvvisazioni teatrali. Il piacere di scoprirsi stranieri a se stessi e agli altri, trascina in uno stupore vitale mosso dai contributi personali di tutti, che generano un impulso di intimità maggiore della somma delle parti. I corpi riprendono vita e le parole non fanno più riferimento a una livellante e presunta “normalità” del sentire, ma ad una relazione viva con il momento e il contesto presente, in cui gli altri non sono oggetti inerti ma soggetti che creano un effetto sul proprio sentire e sulle proprie intenzioni e verso cui le emozioni fanno muovere.
Il Falso Sé e gli Oggetti-Sé
Winnicott (1989, 2000) parla di falso Sé, riferendosi alle pesanti rinunce di parti di se stessi, che si è imparato a percepire come inaccettabili, minacciose, vergognose, a favore di un’identificazione con un’immagine di Sé che si muove entro modelli rigidi appresi e aderenti ad aspettative altrui, inizialmente familiari. Il vero Sé, come stato di “connessione interna” è capace di creare il mondo e i suoi rapporti esterni, sviluppandosi in maniera attiva, non su una base di sottomissione e passività con le richieste della realtà esterna. L’integrazione tra il bisogno di aderire alle richieste altrui e il bisogno di riconoscersi altro e di creare uno spazio dove la propria vitalità possa emergere, passa dalla capacità di stare in contatto, come funzione che “sintetizza il bisogno di unione e separazione” (Polster et al., 1986).
In assenza di un adeguato riconoscimento e soddisfazione dei bisogni di rispecchiamento e di fusione da parte degli oggetti-Sé, cioè delle figure di riferimento, che hanno un peso significativo nell’influenzare positivamente la percezione che l’individuo ha di sé, Kouht sostiene che la persona sviluppi rabbia, ostilità e scarsa autostima. Kouht parla di diadi Sé-oggetto, in cui in età precoce si impara un certo modo di rispondere alle richieste delle figure di riferimento, per poi trovarsi a ripetere tali schemi comportamentali anche con il mondo esterno, in un continuo tentativo di soddisfare una fame di relazioni di rispecchiamento e fiducia, cercandola in interlocutori sbagliati (Kohut, 2001).
È indubbio che questo processo di individuazione-separazione si possa riavviare se la persona riconosce dentro di sé, tra le sue esperienze relazionali passate, alcune o almeno una relazione con un oggetto-Sé caldo, accogliente, accettante, come base per uno sviluppo sano e pieno della propria personalità. La dipendenza è un’esperienza fondante per la successiva possibilità di individuazione, che non sarà mai completa e priva del bisogno di avere legami con figure capaci di dare ascolto e sostegno. Se concordiamo sul fatto che l’indipendenza assoluta non esiste, si tratta invece di imparare a muoversi tra dipendenza e interdipendenza, non rinunciando ad avere quei sostegni dalle persone sentite come importanti e significative, “ma a viverli come meno intensi e meno urgenti” (Mazzei, 2003), creando a poco a poco una relazione interna con se stessi e con i propri alleati interni. Uscire dalla prigione di un Sé grandioso o idealizzante è un’avventura di contatto con qualcuno con cui costruire internamente un’esperienza di fiducia nell’essere visto, nel suscitare l’interesse dell’altro, per potersi interessare, poter provare simpatia, apprezzamento e affetto per se stessi e per gli altri.
I muri che cadono
Lavorando con i rifugiati siriani ad esempio è molto toccante accorgersi di quanto siano aperti, saggi, i bambini fino ai 16/17 anni, e quanto dopo quest’età diventino obbedienti alle regole sociali e parlino per voce di una tradizione che non permette loro di individuarsi come persone.
Ho trovato veramente poetico e incisivo un libro di due scrittori, Patrick Chamoiseau e Edouard Glissant, Quando i muri cadono (2008).
Gli autori parlano dello spazio democratico come di “un campo di forze antagoniste estremamente violento” e affermano che questo sistema, il meno dannoso di tutti, richiede un’attenzione costante e quasi una vigilanza da guerrieri.
Nel testo si auspica un passaggio dallo Stato-Nazione al “fare mondo”, quello che chiamano Tutto Mondo. Il primo è un sistema chiuso, in cui le collettività si sono costituite in nazioni, con la doppia funzione di esaltare i valori della comunità, difenderli contro ogni aggressione esterna ed esportarli nel mondo. In questo modello prevale l’idea di un’identità preservata da ogni attacco esterno, un’identità a radice unica. L’identità a radice unica ha sempre bisogno di rassicurarsi, autodefinendosi. Il Tutto Mondo propone invece la vocazione a un’identità-relazione: “Tutto Mondo diventa sempre più la casa di tutti, che appartiene a tutti, e il cui equilibrio passa attraverso l’equilibrio di tutti” (Chamoiseau et al., 2008).
In Libano, sempre di più, riferendosi alla crisi siriana, con la sua moltitudine di profughi, si parla dell’urgenza di occuparsi di una crisi libanese, riconoscendo e occupandosi del comprensibile disagio sociale e psicologico nella popolazione ospitante, un disagio crescente che tende sempre più al razzismo e a manifestazioni aggressive e violente verso i siriani.
La paura dell’altro, portatore di malattie contagiose come la povertà, il dolore, la disperazione, che ricordano così tanto le loro esperienze passate, diventa ragione di negazione delle radici culturali e storiche comuni, e di vicinanza umana. Il compenso più diffuso è un consumismo dilagante, dove il possesso di beni materiali anestetizza la capacità di entrare in una relazione di fiducia reciproca e di alleanza con gli altri, a volte i loro stessi colleghi del gruppo di formazione.
Il presente e il futuro trovano il loro sostegno strutturale nell’accettazione del passato, come trasmissione del sostegno che può portare e sostenere profondi cambiamenti.
Molto interessante a questo proposito gli studi sulle città uscite dai conflitti di Scott Bollens, docente americano alla University of California di Irvine e studioso di strategie di progettazione urbana in aree di conflitto. Bollens osserva come spesso queste città siano “piene di storia, memorie e tensioni. E noi dobbiamo fare molta attenzione al modo in cui le alteriamo” (Bollens, cit. in Berg, 2014). Per esempio osserva come gli interventi architettonici operati a Beirut nel quartiere oggi conosciuto come Central District abbiano reso questo antico centro della capitale, un luogo pulito, ordinato, ma nel complesso sterile e fasullo. Bollens parla di una “rimozione del settarismo e dei ricordi di guerra che ha finito per creare un luogo artificiale e senz’anima”, realtà ben diversa invece dalle strade in cui si incontrano ancora vecchi edifici storici, crivellati dai colpi, purtroppo spesso abbandonati, avvolti nella vegetazione che li nasconde. Questi tanti palazzi storici, alcuni ristrutturati, fanno respirare quella parte della città che mantiene la storia, lo spavento e la bellezza di questo splendido paese.
Le emozioni tra istanze biologiche e necessità etiche
Nel lavoro di formazione di giovani operatori, spesso sotto i trenta anni, molto tempo è dedicato a un percorso personale in cui possano rintracciare le loro ferite, quelle attuali e anche quelle ereditate dai familiari durante anni di dure vicende di guerra, di divisione politica e confessionale che il paese attraversa da sempre.
Il teatro, come strumento di addestramento al mettersi nei panni dell’altro da sé, risulta molto efficace nel far emergere le loro storie, con la paura, il dolore, la rabbia, tanto simili a quelle delle persone con cui lavorano, ora i profughi siriani, che diventano in questo modo più avvicinabili. Il feedback che più spesso gli operatori riportano è il timore di aprire il vaso di Pandora delle emozioni dei rifugiati con cui sono a contatto e venirne travolti. La paura delle emozioni ha chiaramente effetti collaterali molto distruttivi.
Le emozioni sono funzionali alla sopravvivenza, spingono verso comportamenti, in risposta ad una richiesta dell’organismo che è in contatto con istinti e bisogni primari di fame, fuga, territorio e sesso. Non riconoscere, giudicare, negare, le proprie emozioni di rabbia, paura, dolore, per non nominare le più difficili da gestire, porta a privarsi della possibilità di orientamento nel mondo, che ci travolge con i suoi accadimenti, rimanendo senza difese relazionali, naufragando in un’impotenza dolorosa e rabbiosa fuori controllo. Spesso le persone parlano della necessità di controllare le emozioni, come antidoto alla propria aggressività temuta; il controllo è un’autoregolazione che può emergere dall’entrare in contatto con i vari strati di cui è costituita la “cipolla” del proprio sentire. Perls sosteneva che le emozioni funzionano solo se possono essere espresse nella loro ampiezza, come un arto può esprimere la sua funzionalità raggiungendo la massima estensione.
Il lavoro passa dunque per un fare pace con l’espressione del proprio sentire, assumendolo come proprio e riconoscendosi tutto il diritto di urlarlo, danzarlo, cantarlo, piangerlo, come forse mai è stato possibile fare in un gruppo senza essere giudicati, piuttosto che agirlo verso l’altro come fosse un terreno di conquista, di bottino, di invasione, di fuga dal proprio tormento.
Parlare di cosa io sento nei tuoi confronti invece di cosa tu sei, apre i confini dell’esprimere invece che dell’agire le proprie emozioni.
La capacità di riconoscere e gestire le nostre emozioni è un processo articolato che ci rende sempre più umani e in grado di compiere scelte etiche, ben lontano dal reagire in modo spontaneistico agli impulsi emozionali. Sentire la distanza tra me e l’altro separa e unisce allo stesso tempo e questa è la magia che accade in teatro, nella ricerca del personaggio e nella relazione con gli altri, dove il “dramma” richiede che sia rispettata la dinamica delle emozioni nelle intenzioni, azioni e pensieri dei personaggi, altrimenti narrativamente inconsistenti.
Partendo dal mettere in scena storie scelte dai partecipanti, patrimonio di tutti, come comunità, ognuno si trova a lavorare sulla pluralità di emozioni esistenti allo stesso momento verso la stessa scena. La vita delle persone può ritrovare la sua complessità di sfaccettature, di vie d’uscita e di risorse per accettare e trasformare anche le difficili emozioni di dolore, paura e rabbia.
Accettare e sopportare il dolore è, in certi contesti di atrocità, violenze, ingiustizie, veramente un atto coraggioso e il poter trovare un ascolto attento crea sollievo e restituisce dignità alla propria storia. Spesso le donne profughe siriane ringraziano le operatrici per l’opportunità di poter parlare di sé senza subire la ferocia dell’indifferenza che diventa insopportabile in tali contesti.
Da parte degli operatori è comprensibile che l’organismo si ribelli con tutte le sue forze ad ascoltare le storie di donne e bambini che hanno visto i loro figli, fratelli, padri uccisi davanti ai loro occhi e che ora vivono in campi profughi privati di tutto.
Imparare a gestire le emozioni e a fare i conti con i propri vissuti, rende la paura meno cieca e le persone diventano più disponibili all’ascolto dell’altro, che spesso non richiede altro da fare.
Ascoltare l’altro permette di vedere se stessi e di riconoscersi legati a fili molto simili. La pratica del contatto aiuta a sperimentare che scambiare con l’altro e cambiare, non comporta snaturarsi, né perdere la propria specificità, ma al contrario, contribuisce a onorare la propria storia e quella di chi ci ha preceduti e grazie a cui siamo vivi.
Le comunità ospitanti profughi o migranti si vestono spesso di superiorità scollata dal sentire sé e l’altro, cioè da un’attitudine empatica. Posizioni di intolleranza che sono diventate vere e proprie ideologie politiche, come quelle ben esemplificate dalla Lega Nord in Italia, fanno della paura dell’altro il proprio vessillo e strumento manipolativo.
La paura dell’altro assume varie forme ed è alla base dei processi di discriminazione, intolleranza, pregiudizio. Paura, ferita, impotenza sono come basi su cui si sviluppa un processo di radicalizzazione della propria appartenenza culturale. I valori di appartenenza spesso si semplificano in simboli come le bandiere, i rituali domestici, le tradizioni e i credo familiari.
Noi apparteniamo però a sistemi in continuo divenire, dove per sistema si intende un’organizzazione che ha al tempo stesso la caratteristica di rimanere uguale a se stessa e di cambiare e scambiare con altri sistemi per poter sopravvivere: sclerotizzarsi nell’uguaglianza a se stessi è una minaccia per la sopravvivenza stessa del sistema.
L’esigenza che gli adolescenti siriani profughi in Libano manifestano, è di sentire che possono vivere anche loro, che non perderanno la loro vita nell’attesa di tornare a casa.
Se i giovani libanesi sono accomunati ai giovani siriani dal peso dei segni della globalizzazione che tutto appiattisce e che minaccia ogni senso di identità, entrambi sono uniti anche dal senso, che Chamoiseau e Glissant chiamano la mondialità, “in cui non apparteniamo in modo esclusivo a patrie, a nazioni, ma facciamo parte ormai di luoghi, di rivoluzioni linguistiche, di terre natali che saremo noi a scegliere, di lingue che saremo noi a desiderare, di geografie intessute di materie e di visioni che saremo noi a creare.”
“Le diverse arti, letterature, musiche e canti fraternizzano attraverso percorsi dell’immaginario che non riconoscono più le sole geografie nazionali o le lingue orgogliose” (Chamoiseau et al. 2008).
Gioia, bella scintilla divina,
figlia dell’Elisio,
noi entriamo ebbri e frementi,
celeste, nel tuo tempio.
Il tuo fascino riunisce
ciò che la moda separò
ogni uomo s’affratella
dove la tua ala soave freme.
-Inno alla Gioia. Friederich von Schiller-
Bibliografia
Berg, N., Gli architetti della pace, Internazionale n.1080, anno 22, 2014.
Chamoiseau, P. e Glissant, É., Quando cadono i muri, Ed. Nottetempo, 2008.
Kohut, H., Narcisismo e analisi del sé, Bollati Boringhieri, 2001.
Mazzei, S., Relazione d’oggetto, contatto e crescita: considerazioni sulla natura della relazione terapeutica, in INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia-Psiche e Teatro, n. 2, settembre-ottobre 2003.
Polster, E. e Polster, M., Terapia della gestalt Integrata. Profili di teoria e pratica, Ed. Giuffré, 1986.
Quattrini, G. P., Sviluppo psichico e conversione nel modello gestaltico, in INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia-La Forma che Emerge dal Confronto, Atti del Convegno, Trieste 9-10 giugno 2012, n. 19, gennaio-giugno 2012.
Quattrini, G. P., Nemici senza guerra, in INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia-Le Forme della Gestalt, n. 11, ottobre 2008.
Quattrini, G. P., La fenomenologia dell’esperienza, Zephyro Edizioni, 2007.
Ravenna, A. R., Verso una società interculturale, in INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia-Le Simulate, n. 9-10, gennaio-dicembre 2007.
Winnicott, D. W., Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Armando Editore, 2000.
Winnicott, D. W., Sulla natura umana, Raffaello Cortina Editore, 1989.
Commenti recenti