LA STORIA NATURALE DELLA CONOSCENZA
Istituto Gestalt Firenze
di GIOVANNI PAOLO QUATTRINI
Direttore – Istituto Gestalt Firenze – sede di Firenze
Pubblicato sulla rivista “Informazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia” n° 1, gennaio – febbraio 2003, pagg. 12-16, ed. IGF. Roma
Come la storia umana è conoscibile profondamente solo sullo sfondo della storia della vita sulla terra, è anche solo su questo stesso sfondo che la conoscenza in sé è indagabile.
Conoscere non è patrimonio esclusivo della specie umana: gli animali conoscono in gradi diversi il loro habitat, e molti sono capaci di imparare a conoscere, e di apprendere molte cose che non sapevano alla nascita.
Ma come conosce, per esempio, un gatto?
La vox populi dice che il gatto conosce per istinto, affermando con questo che non lo fa, né ha bisogno di farlo, attraverso pensieri, cioè “processando” concetti.
Se un gatto non conosce processando concetti, quindi non conosce attraverso teorie, come conosce altrimenti il mondo?
Intanto non è difficile immaginare che non conosce attraverso teorie, perché nemmeno gli uomini prima di Platone procedevano attraverso teorie, eppure il mondo lo conoscevano abbastanza bene da costruire per esempio delle bellissime architetture.
Ma fra gli antichi e i gatti c’è oltre a tutto il resto l’abisso della parola: lasciamo gli uomini e torniamo ai gatti.
Come fa un gatto a scovare una piccola apertura per entrare in una casa e poi a ricordare dove è, tanto da riuscire poi a entrare e uscire senza nessuna difficoltà? Certo il gatto non analizza concettualmente l’edificio, non localizza concettualmente l’apertura, situandola in una posizione riconosciuta geometricamente e ritrovata deduttivamente, dato che se i gatti sanno la geometria nessuno certo l’ha mai scoperto.
Torniamo alla vox populi e all’istinto, deus ex machina per ogni inspiegato. Cerchiamo di dare un senso a questa affermazione: conoscere per istinto sarebbe come dire conoscere naturalmente, qualcosa insomma che viene da sé.
Ma come si può sapere come conosce un gatto? Evidentemente la vox populi attribuisce per proiezione al gatto qualcosa che conosce già in altro modo, cioè nella sua propria esperienza umana: qui l’uomo è chiaramente metafora per il gatto.
E dove un essere umano conosce naturalmente, istintivamente, senza bisogno di aver studiato o di essersi addestrato per farlo?
Ovviamente nel processo della percezione.
Percepire è un fatto così continuo, costante e naturale, che generalmente non ci si fanno domande a proposito, anche se tutti sanno che la percezione può essere alterata da circostanze contingenti, come la febbre, l’ubriachezza, o stati emotivi intensi.
Istintivamente si pensa che la percezione è quella che è e non dipende da qualcosa che può cambiare: si pensa cioè che la persona percepisce quello che c’è così com’è, punto e basta.
Il fatto è invece che oltre a tutto il resto con i processi percettivi interferisce anche costantemente l’abitudine a concettualizzare.
Questa abitudine secondo Julian Jaynes ha superato di intensità il processo percettivo in epoca storica. Huxley, nel libro “Le porte della percezione” testimonia la forza della percezione non interferita dal pensiero: la grande diffusione popolare odierna dell’uso di farmaci psicotropi parla della profonda importanza dell’intensità del processo percettivo per l’essere umano.
In che consiste dunque la percezione liberata dalle pastoie della concettualità, e perché è così interessante da trascinare tante persone nel dramma della tossicodipendenza?
Il segreto dell’importanza della percezione sta nel concetto di strutturazione: la percezione è strutturante.
Ora, mentre il pensiero struttura un mondo astratto1, la percezione struttura, cioè da orientamento e senso, al mondo concreto, il mondo che sta al di sotto dell’orizzonte degli eventi di chi percepisce, gatto o persona che sia.
Se al limite si può pensare una sedia da sola, non la si può percepire da sola: la percezione abbraccia tutto quanto il campo, e include noi stessi, che al campo percettivo apparteniamo (vediamo il nostro corpo, sentiamo i nostri rumori, ecc.)
Quando cioè percepisco quella sedia, la percepisco insieme agli altri oggetti (e persone) vicini, incluso me stesso, all’interno di una situazione localizzata nel tempo, cioè proveniente da uno specifico passato e orientata a uno specifico fututo, della cui potenzialità la sedia fa parte integrante come utile, inutile, intralcio o irrilevanza, o qualunque altra contingenza.
Vale a dire che percepirla equivale a darle un senso nella mia esistenza, a “sentirla” e ricordarla in quello che è il panorama della mia esistenza, in cui atti e potenzialità intrecciano un balletto senza fine. La cosa percepita è parte di un mondo che ha una sua struttura: la percezione è dunque strutturante.
Si può obbiettare che qualcosa di simile avviene anche al livello del pensiero: certo, ma in ogni caso la percezione è preverbale (un gatto percepisce e non ha la parola), e si svolge a livello di sensazioni fisiche. Il pensiero struttura un mondo astratto e insapore: conosciuto invece attraverso la percezione, il mondo sotto l’orizzonte degli eventi (al di là di questo la percezione non arriva) è sensorialmente significativo: bello o brutto che sia, è cioè pieno di vita e di significato, l’opposto di quello che succede nello stato di depressione.
Presumibilmente è a questo che allude il mito del Giardino dell’Eden: prima di intossicarsi col veleno della concettualizzazione, la specie umana viveva nel paradiso del mondo sensoriale, nell’avventura comune a qualunque animale selvatico, che non si preoccupa della sua vita, ma semplicemente la vive fino alla morte che gli tocca.
Figlio della percezione è il fenomeno.
Il fenomeno è il mondo che si rivela all’individuo attraverso i sensi, in maniera sempre diversa, perché diverse sono le situazioni in cui percepiamo cose e persone, e sempre diverse nel tempo le intenzioni che ci muovono.
Il fenomeno, come mostra la Psicologia della Gestalt, è figlio dell’intenzione del percipiente.
L’occhio vede il sole perché è solare, diceva Goethe, cioè formatosi in presenza e in funzione del sole. L’occhio vede il sole d’altra parte perché l’essere vivente intende utilizzare qualunque cosa funzioni come strumento per muoversi nel suo ambiente e dare forma: le forme sono le figlie dell’intenzione.
Gli psicologi gestaltisti hanno mostrato come la percezione sia discontinua, come cioè procede per insiemi significativi, le Gestalten appunto, che il percipiente cerca intenzionalmente di concludere, lasciando sullo sfondo quello che non serve a questo scopo e chiamando in primo piano quello che permette di compiere l’opera: non ci si accorge di tutto quello che c’è, ma principalmente di quello che dà forma alle nostre intenzioni.
La percezione è dunque una operazione attiva, una creazione del mondo, come Proust descrive nel “Tempo ritrovato”: si percepisce insieme parti del mondo presente e ricordi e fantasie, che sull’asse strutturante dell’intenzione “fanno” la percezione, quotidianità o opera d’arte che sia.
Ma allo stesso tempo il fenomeno è rivelazione: il mondo si manifesta contingentemente nela sua inafferrabilità ri-velandosi, cioè scoprendosi e velandosi di nuovo, presente e imprendibile in un mistero che non ha da essere risolto, ma piuttosto contemplato.
Risolto, il mistero viene archiviato, contemplato dà energia e voglia di vivere: un quadro di valore non si smette mai di guardarlo con fascino, sospensione.
Il linguaggio parla, dice Heidegger: la lingua significando non fa senso, fa segno, dice Lacan. Ambedue sottoscrivono in questo modo l’autonomia esistenziale del linguaggio, che non si limita a servire, ma esiste e fa quello che vuole, manifestandosi così nella sua essenza: una lingua è una lingua e non è una rosa. Una lingua è una lingua è una lingua, direbbe la Stein. Il fenomeno in primo luogo è, poi anche serve, significa, rimanda, funziona insomma: ma solo in secondo luogo e all’occorrenza.
L’essere del fenomeno non è categorizzazione, ma negazione di dipendenza: un fenomeno in sé non dipende, per così dire, da niente.
Questo suona naturalmente in piena contraddizione con l’affermazione che tante cose alterano la percezione: eppure è così, il fenomeno non dipende da niente, come l’opera d’arte non dipende da niente. Salvo naturalmente dalla committtenza e dalle possibilità tecniche dell’artista, come dice Baxandall: eppure, paradossalmente l’opera d’arte non può dipendere, pena non essere più un’opera d’arte.
La volontà che articola le parti in un insieme è libera di inventare infinite combinazioni, e di fronte all’infinito la libertà acquista la sua autenticità.
Così il fenomeno: il mondo si rivela ai sensi del percipiente, che sceglie e costruisce un’insieme unico e irripetibile: lo specifico bene dell’ ”unico” di stirneriana memoria.
Il fenomeno è unico, creazione e rivelazione, oggetto e soggetto allo stesso tempo, libertà e necessità per il percipiente, che abita il mondo che costruisce e che non può dis-costruire a volontà.
Tutto è vero e non è vero allo stesso tempo: “quelli che credono che il mondo è vero sono come le vacche” dicevano gli indiani “ma quelli che credono che non è vero sono anche peggio”.
Non è come potrebbe sembrare un gioco di parole, ma è una realistica descrizione dell’esser-ci del mondo.
“Essere nel mondo senza essere del mondo” è una indicazione chiarissima, se si considera l’essenza intrinseca del fenomeno.
L’aggettivo scientifico ha varie implicazioni: la più comune è la ripetibilità dell’esperimento e la misurabilità dei risultati.
Non è a questo tipo di implicazioni che mi riferisco qui.
Per scientifico intendo piuttosto un intervento non arbitrario, non riferito cioè nei risultati a una ideologia dell’uno non condivisa dall’altro, ma riferibile a un comune buon senso che può essere concordemente riconosciuto.
Quando si parla di fenomenologia, si introduce nel mondo del pensiero razionale, cioè dell’epistemologia, cioè della teoria della conoscenza attraverso le teorie, un nuovo modo di conoscere: nel senso che un fondamentale modo di conoscere, antico come la vita sulla terra, prende posto accanto alla conoscenza concettuale senza sottomettersi o superarla di importanza. Si tratta infatti di una dimensione incommensurabile.
La fenomenologia non sostituisce l’epistemologia, ma si articola con questa: la conoscenza concettuale, conoscenza esatta o conoscenza scientifica che dir si voglia, occupa una dimensione parallela alla conoscenza sensoriale, e su questa realtà si basa: quando osserviamo uno strumento diamo infatti un credito certo alla nostra percezione sensoriale.
Più antica dell’epistemologia è anche la conoscenza narrativo metaforica, che pervade surrettiziamente ogni altra forma di conoscenza: la verità, la scienza, la conoscenza stessa sono fondamentalmente narrazioni sul cui portato metaforico si muovono le operazioni conoscitive.
Strumento imprescindibile della conoscenza, epistemologica o fenomenologica che sia, è l’attenzione.
Per autoregolazione organismica si intende quel fenomeno per cui le varie funzioni dell’organismo si regolano fra loro secondo il principio dell’emergenza dei bisogni: non c’è insomma una direzione controllata da un centro che sta al di sopre delle parti e che da le direttive.
Il principio in sé è chiaro, ma non altrettanto immediate sono le modalità del suo funzionamento.
Circolazione, respirazione, digestione e motorietà si alternano per esempio prendendo e lasciando il primo piano secondo i bisogni dell’organismo: ma come si relazionano fra loro digestione, circolazione e respiro si corre dopo aver mangiato, e la motorietà assume il primo piano?
Difficile immaginare che i bisogni si articolino fra di loro in modo da realizzare una coordinazione veramente funzionale: più realistico sarebbe immaginare che si muovono insieme con un ritmo di fondo che le unifica, un ritmo musicale, o piuttosto un ritmo narrativo: narrazione è ritmo.
Una narrazione è una sequenza di eventi articolati fra loro nel tempo: a buon diritto può chiamarsi quindi un ritmo.
Quando la narrazione tiene un ritmo particolarmente significativo nell’esperienza umana assume qualità di metafora, cioè di narrazione che ha il potere di rivelare i misteri della vita.
I ritmi dell’autoregolazione organismica sul piano fisico si possono considerare dunque le metafore primarie, su cui si articolano poi le infinite forme del conoscer narrativo metaforico.
I libri sacri di tutte le religioni sono strumenti di conoscenza dell’esperienza umana attraverso narrazioni che hanno funzione e valore di metafore.
Tutte le metafore sono fenomeni: non tutti i fenomeni sono utilizzabili come metafore.
Tutte le teorie sono metafore: non tutte le metafore sono utilizzabili come teorie.
Ne consegue naturalmente che tutte le teorie sono fenomeni, ma che non tutti i fenomeni possono essere utilizzati come teorie.
1 Dire per esempio che quella lì è una sedia, significa porre l’oggetto al centro di una miriade di legami con altri oggetti concreti e astratti, passati e futuri, con situazioni avvenute o avvenibili, presenti e assenti sotto l’orizzonte degli eventi.
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