Nomen homen
Leonardo Liberati – Psicologo
Pubblicato sul numero 44 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Abstract: Parole, parole, parole. Parole scorrono come fiumi e come questi, favoriscono il proliferare ed il fiorire di grandi imperi. Ma è un “sine qua non”? Siamo sicuri?
Non sottovalutarle può di certo aiutarci a non finire Sahara ma può anche confinarci ad essere Paesi Bassi sempre a rischio inondazioni.
Un viaggio nella parola come pratica umana e come relazione fondamentale con la vita.
In un’epoca come questa, la propaganda ha acquisito un ruolo fondamentale nella vita di tutti noi, tanto nella politica, quanto nel commercio, vero e proprio deus ex machina delle nostre vite. Il settore terziario, ovvero quello dei servizi, è diventato il minimo comun denominatore che non può mancare neanche negli altri due settori. Un allevatore, un agricoltore, tanto quanto un industriale non possono esimersi dal dover vendere e prima ancora, propagandare il loro prodotto, di modo che il loro servizio debba vendere il servizio a chi vende servizi.
In tutta quest’ottica, nell’ottica cioè della società dei consumi, diviene fondamentale, prima ancora che il fare, il comunicare, il comunicarsi.
La comunic-azione è un’azione che ha la funzione di mettere in risalto l’azione . Per fare questo però, è necessario che ci sia una distanza tra questa e l’azione che si intende comunicare, un po’ come i succhi di frutta industriali che richiamano il gusto di un frutto in particolare ma che del quale contengono una percentuale minima.
La nostra società infatti è ossessionata dalla comunicazione ed addirittura esistono corsi e studi sulla comunicazione stessa.
Sé e account: tra Copernico e Alessandro Magno
Nel tentativo di indagare la nevrosi che comunemente chiamiamo narcisismo, lo psicoanalista austriaco Heinz Kohut inaugurò una nuova prospettiva nel panorama della psicologia dinamica, la psicologia del sé.
In sintesi l’individuo, che alla nascita è un coacervo di bisogni fisiologici, interagisce con l’ambiente tramite un canale emotivo e cinetico. Tramite delle reazioni circolari che gli permettono di cogliere delle regolarità e consuetudini tra le sue azioni e le risposte dell’ambiente, il bambino inizia a concepire sé. Gli oggetti su cui riverbererà il suo agire e che gli restituiranno la sua immagine, sono definiti oggetti del sé.
La fusione con questi oggetti gli permetterebbe di cogliersi come coesione e potrebbero portarlo a sperimentare un senso di onnipotenza, per coglierne i limiti, i punti di impotenza e definirsi sempre più.
Il sé pertanto è un’oggetto, un’immagine , una forma (Eidos in greco e Gestalt in tedesco).
Al tempo di Kohut, l’uomo viveva nella sola realtà fisica, mentre l’uomo contemporaneo ha il suo Copernico nell’invenzione dei social network ed in periodi storici come questo, ci rendiamo conto che anche il suo Alessandro Magno, capace di unificare mondi e modi di vedere il mondo agli antipodi, facendoli coesistere, anche nel conflitto.
Il sé che riverberava su soli oggetti fisici, ora ne ha anche di virtuali e ritengo che il “profilo” possa essere integrato nelle istanze dell’io a tutti gli effetti.
Quanti individui che nella realtà fisica, costruivano e costruiscono sé poco incoraggianti, divenendo hikikomori, oggi riescono a costruirsi un’ identità alternativa grazie ai social? Magari diventando anche star, popolari come i tipi inarrivabili a scuola.
Quanti individui, sperimentano l’impotenza della vita quotidiana e la conseguente frustrazione e sui social si sentono liberi di tirare fuori l’aggressività repressa, tramite commenti sanguigni, diventando quelli che oggi vengono chiamati Haters.
Questo era l’aspetto “copernicano” di questo cambiamento, quello Alessandrino sta nella relativizzazione dell’informazione. Generazioni senza voce o in cui “voci altre”, dovevano passare per una sfiancante burocrazia. Generazioni in cui la stampa e la televisione non avendo opposizione, godevano di un’autorevolezza indiscutibile, ora si trovano travolte da un’alteritá inaspettata. Questo clima porta ad una domanda fondamentale : cos’è vero e cos’è fake news?.
Io singolo cittadino, assorto nella mia vita lavorativa , come posso verificarlo senza svolgere una lunga attività di ricerca che richiederebbe dei tempi lunghissimi ed uno sfiancante impegno e studio ?
Non a caso, proprio sotto Alessandro Magno, sorsero vari movimenti filosofici che miravano alla condotta umana verso la felicità. Uno di questi, lo scetticismo, coniò una tecnica o concetto fondamentale sia per la fenomenologia che poi per la pratica psicoterapeutica, l’epochè, la sospensione del giudizio.
Pratica quasi dimenticata dalla cultura corrente, che gli preferisce una polarizzazione di Sé e profili in conflitto, che utilizzano la “parola” come arma.
La parola è un’oggetto del sé, utilizzato in un contesto del sé come l’uso della retorica nella politica.
La politica non è che pura comunicazione e poco importa se ciò che si sta comunicando sia autentico o no, quello con cui noi ci relazioniamo è l’evocazione e l’immagine evocata tramite essa.
Anche per questo, qualsiasi, politico, artista, impresa ecc… oggi sembra richiamato alla creazione di una propria identità anche in questa nuova dimensione. Se l’individuo di Kohut si conquistava l’esistenza con gli oggetti che lo circondavano, oggi se non sei sui social, non esisti.
Questo ha portato la parola ad una centralità assoluta nella vita degli esseri umani.
Narrazione, richiamo e messa da parte
Il vocabolo “parola” viene dal latino parabola ed indica sostanzialmente una narrazione, un discorso.
Il termine parabola ha una lunga storia di utilizzo nel contesto religioso. Il termine “religione” può derivare o da religio, rilettura o da religare, rilegare, associare.
Una parabola, quindi, sarebbe una rilettura di eventi o passaggi ed un’associazione a quella rilettura, anche di gesti futuri. Questo per il carattere descrittivo (rivolto al passato) della rilettura e prescrittivo (rivolto alla condotta) della stessa.
Se si pensa alla nascita della cultura e della filosofia, notiamo due fenomeni principalmente: la poesia ed il mito.
Le teogonia (storia della nascita degli dei) e la cosmogonia (storia della nascita dell’universo), da cui parte la cultura greca per esempio, sono rappresentati dal poema mitico di Esiodo.
La prosecuzione è rappresentata da tutta una serie di miti che da una parte spiegavano gli eventi naturali e dall’altra veicolavano l’aretè, la virtù, i valori.
In questo modo i miti hanno sostenuto dei valori, che ricordano dei riti, delle pratiche ripetitive con una carica trascendentale, proiettata su un altro momento, in cui qualcuno giudicherà le nostre azioni. Una fuga dal qui ed ora o una messa al lato dello stesso, rispetto a quel momento “fuori dal tempo”, in cui saremo giudicati.
A sua volta parabola infatti, viene dal greco para ballo, ovvero “metto al lato”. Significato non troppo lontano parente della sua accezione in geometria, dove la parabola è una parte della figura solida del cono, sezionata da un piano che la interseca. Difatti il piano viene messo accanto al lato.
Ma la frase “il vocabolo parola” è già in sé una ridondanza e vale la pena approfondire anche il primo e capire che relazione intrattiene con lo stesso significato.
Vocabolo viene dal verbo latino vocare ovvero “chiamare”, sia nel senso di “denominare” che in quello di “invitare”.
Il filosofo inglese Thomas Hobbes era dell’idea che gli uomini usassero le parole come nomi per i loro pensieri e sensazioni, cioè delle “note”, non rivolte solo ad una comunicazione esterna ma anche interna alla persona.
Frattale e approssimazione
Il principale significato che però vorrei riprendere è quello designato dalla parola greca logos.
Come detto poc’anzi la parola, la parabola è una narrazione, un discorso ed anche questo dai greci veniva chiamato logos.
La parola quindi in sé è già un discorso ed ogni discorso che sia composto da parole sarebbe quindi un insieme di discorsi, che per convenzione ed economia del pensiero, la nostra specie deve sintetizzare ed approssimare, per forza di cose.
De Saussure aveva colto la duplice polarità del linguaggio: da una parte individuale e dall’altra sociale. Partendo da quella individuale e dall’idea di Hobbes delle parole come “note” del pensiero, ci rendiamo conto che questa necessiti di un’analisi dei suoi processi di attribuzione. Non possiamo trovare una giustificazione universale, perché questo significherebbe presupporre che ogni essere umano davanti alla medesima parola , evochi lo stesso scenario.
Questo ci porta ad osservare la comunicazione esterna come fondazione di quella interna e proprio in questo De Saussure formula la teoria secondo cui il linguaggio sia un accordo tra parlanti.
Esattamente come una qualsiasi figura piana abbia come condizioni minime d’esistenza due dimensioni (altezza e base), anche il linguaggio necessita di due mondi che s’incontrino, due uomini che fungano da estremi di un segmento, una latitudine ed una longitudine che permettano di localizzare geograficamente, rinunciando alla pretesa di una koinè, una lingua universale che la parola non possa veicolare.
La parola pertanto è volgare, del volgo, del popolo.
Ogni discorso e di conseguenza, ogni parola è come il rapporto tra il raggio di una circonferenza e la circonferenza stessa, ovvero il π, un numero con infinite cifre dopo la virgola, che per poter essere utilizzato viene arrotondato e riceve come veste un nome, tornando al significato di vocabolo.
L’abito della parola
Perciò cosa sono le parole se non i nostri pudici tentativi di vestire la nudità di una realtà che se non avessimo mai voluto godere del frutto della conoscenza, non avremmo mai considerato così ostile?
Tale nudità è anche cruda e sempre lo stesso Hobbes, tra gli altri, l’avrebbe definita come “stato di natura”.
L’accordo di De Saussure è la firma del contratto sociale di Rousseau e la rinuncia a questa nudità, per passare alla formazione di uno “Stato di diritto”.
Eric Fromm ne “La Fuga Dalla Libertà” definisce due tipi di libertà in questo senso: la libertà negativa, o “libertà da” e quella positiva “libertà di”. La prima è quella acquisita con quest’accordo, la seconda sarebbe quella persa, dal momento in cui l’uomo ha iniziato a “correre per il guadagno” in una società altamente competitiva.
La parola ci libera dall’ambiguità della natura, ma non deve diventare cifra dell’esistenza, giacché questa sfugge anche alla parola.
Un esempio di questo timore esistenziale a mio avviso, può essere la terapia di stampo bioniano.
Bion divide gli elementi psichici in due classi: elementi Beta ed elementi Alfa.
I primi sono elementi grezzi e di difficile digestione da parte della psiche, mentre i secondi sono gli elementi “masticabili”. L’incapacità di trasformare (termine fondamentale per lo psicoanalista britannico) gli elementi beta in elementi Alfa, l’alfabetizzazione, è alla base di ogni sofferenza psichica.
Questa trasformazione è la trasformazione di una nudità inaccettabile, in qualcosa con cui possiamo avere a che fare, “la chiusura di una Gestalt”.
L’individuo incapace di compiere questa trasformazione, sarà incapace di sognare, bloccato in una contingente sofferenza.
Memetica del verbo: tra simbolo ed autenticità
Quella parola, quindi è un discorso ed è un nome, ovvero un vestito, ma è anche un “mettere al lato”, mettere da una parte.
Se pensiamo all’ossessione che la società dei consumi ha pubblicizzato nei confronti della moda (valore statistico che descrive la maggior concentrazione di un fenomeno), ci rendiamo conto di come il possesso di abiti griffati o meno, l’attuazione di gestualità predefinite o la condivisione di opinioni comuni, abbiano messo da parte gli individui nel loro essere autentico, producendo quelli che Sartre chiamava “individui seriali”.
Questo ci rimanda al concetto di segno, oltre che a quello di nota di Hobbes.
Un segno per definizione è qualcosa che sta in sostituzione di qualcos’altro e siamo così sicuri che le parole siano questo?
Da questo punto di vista il fatto che una parola, sia una parabola, una nota messa al lato ed un discorso, questa più che in sostituzione del suo referente sembra tenere insieme più azioni, più realtà ed in questo rappresenta un pieno esempio di un simbolo.
Simbolo è un derivato di symballo, ovvero “mettere insieme” e rispetto al segno che ha una connotazione più esperienziale e pragmatica, il simbolo ha a che fare con la trascendenza.
Un’opera di fondamentale importanza in questo senso è L’uomo e i suoi simboli di Carl Gustav Jung. Jung afferma che un qualcosa può essere definito simbolico, quando implica di più del suo significato. Oltre questo, formulando il concetto di inconscio collettivo e di archetipi, da al simbolo un’importanza mai vista prima nel rapporto tra la nostra specie e il mondo, tramite l’arte, le religioni, i miti, gli ideali ed ogni altra trascendenza su cui l’uomo si affacci.
Il discorso chiama ciò che ha denominato, ma da dove? Il chiamare qualcuno o qualcosa prevede che ci sia una distanza e cioè che si trovi altrove.
Quando sto parlando con una persona ad esempio, in quell’esatto momento io e quella persona ci troviamo nello stesso punto e non necessito di chiamarla, di invitarla perché quella persona è lì con me.
Ma se io volessi prendere qualcosa che ho messo al lato, che ho messo da parte e volessi invitarlo nel momento presente, allora io utilizzerei dei nomi, dei vestiti per i miei aspetti reali e per quello del mio interlocutore.
Questo nel dibattito odierno è frequentemente utilizzato e basti pensare a come negli ultimi tempi qualsiasi opinione divergente, rispetto a una maggioranza, venga vestita prima, chiamando il novax in causa o l’analfabeta funzionale, soffocando in questo modo l’espressione della persona che abbiamo davanti.
La stessa euristica cognitiva viene usata in questo momento con la questione della guerra e tutti coloro che non si allineano ad un’opinione corale, oggi sono definiti filoputiniani. Questi nomi chiamano qualcuno che non è presente in questo momento e fanno in modo che invece di dialogare con la persona, si faccia guerra contro l’idea richiamata dal nome, senza cogliere le sfumature del pensiero, senza empatia, senza simpatia, polarizzando il discorso in modo che assuma le fattezze di uno scontro tra tifoserie durante un derby.
Cattivi
“Nomen omen” (un nome, un destino/presagio/maledizione ) diceva una locuzione latina. Un vecchio detto che non sembra mai essere stato superato del tutto.
Il vocare denominante e richiamante qualcuno, che nel momento del dialogo diadico dell’io col tu, nel qui ed ora, in quanto richiamante un terzo, che si trova in un altro tempo generico ed un altro luogo generico (“la” che diventa “qua”), pone in figura qualcosa che si trovava “qua” sullo sfondo, portandolo “qui” e cacciando sullo sfondo quel “tu” che è l’interlocutore ( rimando al paragrafo sulla differenza tra ontico ed ontologico) .
È interessante analizzare un attimo il concetto di definizione e di conferma in questo senso.
La definizione è un’azione volta ad ascrivere entro una certa finitudine un determinato ente, circoscriverlo per conferirgli una risolutezza.
La conferma invece è una prova in grado di convalidare “definitivamente”, cioè “nel modo d’essere della definizione” una determinata idea.
Perciò per arrivare ad una definizione è necessario passare per una conferma, per una prova.
Questo per quanto riguarda elementi materiali, che nulla celano al loro interno che i nostri sensi non possano avvertire, risulta scevro da qualsivoglia pericolo, tolto quello dell’investimento che ne facciamo.
Nel definire altri esseri pensanti e dotati di quella che Aristotele definiva “anima intelligente razionale”, subentra la relazione che questo essere intratterrà con tale definizione e nel caso per esempio di minori, anche la relazione che il sistema educativo intorno a lui (famiglia, terapeuti , scuola … ) intratterrà con la stessa.
Non è difficile in questo senso, incontrare figure educative che si fossilizzino sulla diagnosi e non sull’unicità del fanciullo.
Madri spaventate dall’anormalità dei figli, che entrano nel panico e tentano disperatamente modi per “correggerli”, insegnanti che partono con una definizione di educazione, basata su quella normalità percepita.
In un articolo della rivista Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia al numero 28 pgg. 11-26 , intitolato La distanza (non) abitabile di Pierluca Santoro, viene approfondito lo stratagemma della diagnosi come “spostamento” del paziente in una “dimensione altra”, tale che questo non possa essere incontrato nella sua singolare unicità.
…La paura dello psichiatra di entrare in contatto con la persona sofferente e la distanza posta tra lui e il paziente nel tentativo di definire una malattia più che vedere una persona che soffre è a mio avviso il cardine storico sul quale si è appoggiata la conoscenza psichiatrica dalle origini fino ai giorni nostri…
Se questo vale per il paziente nell’ambito terapeutico, ovvero un ambito nel quale far emergere autenticamente la persona, al fine di superare una determinata sofferenza o determinati blocchi che ne ledono il vivere, perché non dovrebbe valere anche per qualsiasi altra relazione umana?
Perché pensare di parlare con uno schizofrenico, dovrebbe essere diverso dal pensare di parlare con un avvocato o un medico?
Senz’altro pensare di parlare con una uomo è diverso da parlare con te e viceversa.
Ma in un sistema comunicativo come il nostro, andiamo a configurarci come nomi, costretti a coltivare apposizioni per tutta la vita. Il “dottor” prima del tuo cognome risulta nettamente più importante di questo, se questo non compie un superamento, grazie all’eccezionalità di qualche opera. Il rapper romano Mezzosangue, citando Ralph Waldo Emerson diceva: “smetti di essere qualcuno e diventa chi sei”.
Le parole sono storie che vestono la realtà ed invitano tra di noi qualcuno che non è presente. Sono sogni e finché non ci svegliamo, crediamo siano la realtà stessa. Come diceva Renan, rapper e professore brasiliano:” se sogniamo e basta e non corriamo/ facciamo diventare il pigiama un’uniforme”.
Se le pareti di quelle definizioni sono fatte di mattoni, invece che di post-it, allora saranno delle celle.
La cultura cristiana, ha sempre necessitato di un satan, un nemico. Una grande minaccia in rappresentanza di un pericolo. O ancora meglio, un “puro negativo” di un Dio “puro positivo” . Forse per aumentare ancora di più l’adesione , forse perché la forza centripeta del puro positivo non era abbastanza forte da raggiungere tutti ed allora è stata necessaria l’aggiunta di una forza centrifuga.
La cinematografia americana, ha laicizzato ed amplificato maggiormente questa dinamica. I generi d’azione e gli horror/thriller sono sempre caratterizzati dalla presenza di quello che viene definito :”villain”.
…
David-Quando l’avrò trovato e ti avrò detto dov’è il tuo corpo. Che cosa ci farai?
Farouk-Ci vivrò, mio caro. Sud della Francia :donne, soldi, potere.
David-E basta? Niente super villain che distrugge il mondo o roba simile?
Farouk-Questa parola “villain”.Sai da dove viene? C’est francais!
E originariamente significava “colui che vive nel villaggio”, un campagnolo. Ti sembro un campagnolo io?
David-sai di cosa parlo
Farouk– no è una cosa importante. La lingua, il significato delle parole.
Per decenni ho governato il mio paese. Sono un bravo re, severo ma giusto. Il mio popolo è prospero. E un giorno, tuo padre, un occidentale. Il che è importante . Arriva, parla la nostra lingua, conosce i nostri costumi e decide che cosa? Che il mio popolo deve avere di meglio. Che lui sa cos’è il meglio. Lui chi è per prendere queste decisioni?
David– mi dovrei dispiacere per te?
Farouk– è una cosa così terribile essere addolorato per il tuo nemico? Cos’altro è se non un fratello con un altro nome? …
Legion 2×03
In questo dialogo estratto dalla serie tv del regista Noah Hawley, viene demistificata questa figura del “super-cattivo” , una figura che corrode il dialogo.
Inoltre, viene fatto leva su un altro aspetto fondamentale: l’empatia . “Il nemico come fratello con un altro nome” , ancora una volta una parola, un nome, funge da realtà, mettendosi in sostituzione della stessa.
Il villain, il malvagio sono etichette che oscurano la complessità della realtà, con la semplificazione di un giudizio morale, che a mio avviso è inutile ed addirittura inquinante della stessa.
Esempi cinematografici come Taxi Driver, Joker e tanti altri, a mio modo di vedere, mettono in luce più l’indifferenza delle persone che circondano la “genesi dei cattivi”. Persone che corrono a giudicare le degenerazioni e che ignorano i conflitti che le hanno portate, perché definiti prima e messi da parte rispetto a ciò che la definizione evoca.
Per-Sonam, significa “tramite il suono”, nulla in ciò che siamo è definito verbalmente, ma tramite le nostre vibrazioni. Vibrazioni però chiuse in definizioni, prigioniere, “cattive”.
Le voci dei topdog e gli underdog nella prospettiva gestaltica, il vero sé e il falso sé di Winnicott, le forme di impotenza appresa, sono solo narrazioni proiettate sui muri della cella della nostra identità.
La terapia gestaltica, mira alla mitopoiesi, la trasformazione del mito.
Per fare questo, è necessario passare per l’insight, la visione interna, l’illuminazione della scimmia che si guarda intorno ed ha l’intuizione di impilare le cassette, una sopra l’altra, per salire a prendere il casco di banane che altrimenti sarebbe stato fuori dalla sua portata.
Ma questa visione è interna perché nella maggior parte del tempo viviamo in una realtà estranea ed esterna, quella in cui ciò che è chiamato dalla parola e che si trova “la”, viene portato “qua”, soffocando il “qui” e facendoci perdere il contatto autentico.
L’insight ci riporta qui, nella posizione di narratori capaci di cambiare questa parabola, che ci ha messi da parte.
La coinquilina della parola e del discorso nel logos
Tornando al termine greco Logos, abbiamo detto come questo domicili sia il significato italiano di “parola”, che quello di “discorso” , ma la sua semantica non si esaurisce qui.
Eraclito, filosofo greco, celebre per la sua frase panta rei “tutto scorre” , indicatrice della sua teoria del divenire, conferiva al Logos, un’importanza unica.
Il Logos sarebbe la legge fondamentale che regola l’Universo, la ragione.
Penso che quel tutto che scorre, sia parallelo e speculare a quel tutto che “discorre” ma solo perché c’è qualcuno che quel tutto lo “percorre” e si soccorre davanti all’instabilità di quel tavolo con tre gambe, producendo quel discorrere.
Da qui deriva la logica, una disciplina che mira ad essere una vera e propria “scienza delle scienze” e non solo. Questa elevazione della logica a principio universale, pone anche la realtà discorsiva come realtà superiore a quella esperienziale.
Ciò che muove l’uomo pertanto dev’essere una ragione logica, qualcosa che comunicato tramite un discorso, possa essere capito e magari anche condiviso. In questo modo, l’unica empatia possibile, è quella che passa da una sua giustificazione logica ed anche il suo contrario di conseguenza.
Se sono portato ad essere empatico verso una determinata problematica, tramite la sua parabola o narrazione, sono allo stesso modo, portato a non avere alcuna pietà verso chi questa narrazione rende più lontano da me e non degno d’empatia : il mostro.
Guardando il film Il Bambino dal pigiama a righe, sono rimasto colpito da come gli insegnanti tedeschi all’epoca del nazismo, ritraessero gli ebrei ai bambini.
Un film più recente e da toni decisamente diversi è Jojo Rabbit e anche questo ci mostra come un bambino tedesco dell’epoca, un bambino che mai avesse avuto contatto con un ebreo, immaginasse lo stesso.
Il protagonista del film, chiedeva spesso alla ragazza ebrea nascosta a casa sua, dove fosse la sua coda, le sue corna e se mangiasse i bambini.
Gli ebrei erano ritratti non come umani, ma come diavoli, come mostri appunto e com’era possibile empatizzare con i mostri?
Essere
Ridurre però la violenza alla logica discorsiva non è mia intenzione e lo reputo riduzionista.
Tuttavia vorrei concludere ponendo in esame la differenza che emerge tra ontico ed ontologico.
Ontico per Heidegger è tutto ciò che ha a che fare con l’individualità , la singolarità e l’unicità di ciò che ci si posa dinnanzi.
Ontologico invece è ciò che concerne “l’essere“, tema fondamentale di molti filosofi.
Se ci pensiamo bene, quel vivere la singolarità dell’ente in s’è, equivale a vivere il momento presente, senza il suo inserimento all’interno di un discorso, quell’onto- non è logico, è solo se stesso.
Esistono degli individui che tendenzialmente vivono onticamemte, per i quali ogni cosa che incontrano nel mondo, può essere l’unica, la prima.
Questi individui sono i bambini, capaci di trascendere la percezione, con l’immaginazione o forse sarebbe meglio dire liberi dal dover definire e mettere la realtà al lato della sua narrazione.
Una trascendenza disorganizzata verbalmente, fatta di immagini, forme (Gestalt) e sempre ontica, in cui ogni forma è individuale e non ancora ascritta nelle categorie di genere e specie.
Man mano che i bambini crescono, apprendono sempre più concetti e nozioni, in modo che ad un certo punto non ci sia più spazio per quell’individualità , se non in determinate eccezioni.
Così quella terra, latore di incontri ontici, viene contaminata dalla logica con un rapporto simile a quello del parassita col suo ospite, o a quello che intratteniamo noi con il pianeta, trasformandolo ed adattandolo alle nostre esigenze.
L’immagine del parassita, richiama un’immagine dal gusto negativo, ma questo solo perché il parassita nella sua ontica individualità, lo abbiamo inserito nel discorso come il villain, il cattivo di cui sopra. Voglio liberare il discorso da qualsiasi giudizio morale in questo senso .Non si sta profilando una vita irrazionale.
La diatriba tra ontico e logico, tra ragione ed esperienza, tra razionalismo ed empirismo o ancora più semplicemente tra emisferi destro e sinistro del cervello non è ne proficua, ne l’intenzione di questo lavoro.
La logica e i suoi prodotti ci hanno salvati e sono parte della realtà tanto quanto le nostre emozioni, le tigri, gli alberi ecc.
Ponte Per Terabithia
Innegabile però, è che un conflitto ci sia tra ragione ed emozione . Se l’emozione ha come azione di richiamo, non un fare costruttivo ma un fare contemplativo, non a caso il logos greco è un “parlare di” , che concerne anche “un’ascolto di”, come direbbe Heidegger “un far palesare”.
Al contrario tutto ciò che si esplica nel linguaggio della ragione è una costruzione, caratterizzata da una regolarità che solo le nostre mani sono in grado di modellare.
Questa regolarità è nomos , norma, regola appunto. Così se la nostra natura (physis) ci porta al Logos, all’ascolto, poi questo ci rimanda al nomos, alla costruzione di una regolarità e di norme prescritte.
Potremmo dire che il nostro sentire è eco-logico, mentre il pensare è eco-nomico, tornando al più classico dei conflitti, quello tra natura e cultura, quello descritto da Freud in Totem e Tabu.
L’”eco” dell’ecologia e dell’economia, deriva da oiko, in greco “casa” o anche ambiente, ma vorrei concentrarmi su questo spazio e sulla sua spazialità come “campo”.
Kurt Lewin, ne La teoria dinamica della personalità , analizza questo concetto molto importante.
All’interno di questo campo, vi sono degli enti carichi di una valenza per il soggetto : alcuni attrattivi, altri di repulsione, alcuni più attrattivi di altri, altri ambigui. Quando su un oggetto la valenza non è unidirezionale, ma presenta in sé sia elementi attrattivi che repulsivi, il soggetto può entrare in crisi. Questa crisi ha due vie d’uscita : l’abbandono del campo oppure lo spostamento .
Lo spostamento di cui parla Lewin, altro non è che la sublimazione di cui parla Freud o il dislocamento della libido di Jung.
Un allievo di Freud, Otto Rank, in un manoscritto, intitolato L’artista, parla dell’arte come lui parla della sessualità.
Facciamo un passo indietro. Abbiamo detto che i bambini, più sono piccoli e più vivono onticamente e che questo li immerge nella loro immaginazione, più che nella loro convinzione di sapere.
Qual’è la principale attività che svolgono i bambini con tutta questa eccedenza di immaginazione?
Il gioco appunto, un’attività in cui vi è una variazione dello statuto epistemologico, un “come se”, una narrazione che sia un Logos, ma rivolto all’ascolto stavolta, all’incentivo a fluire.
Freud stesso affermava che l’arte è il gioco che il bambino non può più compiere perché adulto, trasformata in qualcosa di accettabile.
Il fatto che questo “spostamento” avvenga nella crisi generata dal conflitto tra la ragione e l’emozione non è un caso.
La crisi dal greco krino, scindere nei costituenti, è il momento in cui i legami che compongono le molecole d’acqua si rompono, l’acqua evapora e le restanti molecole si agitano nel pentolino. Il punto d’ebollizione in cui è finalmente possibile buttare giù la pasta.
È Il momento in cui la sofferenza è troppa e decido di andare in terapia. Questo spostamento e variazione dello statuto epistemologico è anche quello che avviene nella tecnica della sedia vuota, tecnica gestaltica, nell’attuazione teatrale al fine di far giungere all’insight.
La letteratura che indaga questo fenomeno è grande e molto nutrita, fenomeni come l’esperienza di flusso, i momenti di vetta, la comunitas di Turner sono esempi proficui da citare e molto importanti, ma qui vorrei ritornare al rapporto tra ontico e logico, per noi ontologi.
Ciò che è tema nell’ontologia è l’essere e l’essere è un verbo, sia nel senso di parola che in quello di azione. Se è pur vero che per fare bisogna essere, è anche vero che essere è già un “fare” ed esattamente come vediamo gli altri solo dalle loro azioni, anche se minime, siamo sicuri che l’essere che cerchiamo di ascoltare, non sia un fare originario?
La parola greca per “fare” è poiesis, da cui poesia. E se il nostro fare-essere fosse questo? Un Logos, non definitore, non sterile discorso scientifichese o clausola in un contratto. Un Logos che “parla di”, ma non per questo lo reclude , che “parla a” e che ascolti. Il Logos non come guardia carceraria della verità ma come suo profeta, capace di far scorgere l’oltre, il meta (l’oltre) di quel fora (portare ) .
Noi il “logico dall’ontico” non lo possiamo togliere e non dobbiamo farlo, quello che possiamo fare è comporre poesie con le coreografie dei nostri atti, che dipingono di giorno in giorno le scenografie su cui recitiamo le nostre parti, i cui soffitti poggiano sulle nostre colonne sonore, perché alla fine questo siamo, flow, rhythm and poetry (Rap).
i Kohut, Narcisismo e analisi del Sé, Bollati Bordigheri,1977
Thomas Hobbes, De Cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di Tito Magri, Roma, Editori Riuniti, 2005,
Esiodo, La teogonia, tipi del cav. Antonio Morano,1888
De Saussure. Corso di linguistica, 1916, editore Laterza
Eric Fromm ,La Fuga Dalla Libertà, mondadori,1941
Bion, Gli elementi della psicoanalisi, Armando editore,1973
Carl Gustav Jung, L’uomo è i suoi simboli
Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione ed introduzione a cura di Carlo Natali, Bari, Laterza, 1999
Winnicott, sviluppo affettivo e ambiente, Armando editore,1965
Kohler,L’intelligenza delle scimmie antropoidi, Giunti editore, 2010
Eraclito, Frammenti cosmici, Kirk, 1954
Heidegger, Essere è tempo, Mondadori, 2011
Freud, Totem e Tabu, Feltrinelli,2016
Otto Rank, L’artista , Feltrinelli,1994
Kurt Lewin, La teoria dinamica della personalità, Giunti editore,2011
Turner, Dal rito al teatro, il mulino,2013
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