LA VISIONE DEL MONDO DI UNO PSICOLOGO
Abstract
di Pierluca Santoro – Didatta IGF e Istruttore Mindfulness
Articolo pubblicato sulla rivista “Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia”.
Numero 23 pgg 78-85.
Abstract: La psicologia, la psicoterapia e la relazione d’aiuto come il counselling a confronto con le problematiche della deontologia professionale, i mandati sociali e le buone prassi. Le basi filosofiche che hanno portato alle attuali differenze epistemologiche e culturali.
Keywords: psicoterapia, counselling, sostegno psicologico, deontologia, relazione d’aiuto
Il primo a parlare di Weltanschauung, intraducibile parola tedesca che spesso per semplicità riduciamo a “visione del mondo”, è stato probabilmente il filosofo Wilhelm Dilthey alla fine del XIX secolo. Rappresentante dello storicismo tedesco, Dilthey elabora la distinzione essenziale tra scienze della natura e scienze dello spirito (o scienze umane) – le prime hanno come oggetto il mondo intorno all’uomo strutturando metodologie di osservazione e valutazione in un rapporto soggetto/oggetto, le seconde hanno invece come centro di attenzione l’uomo stesso in un rapporto inevitabilmente soggetto/soggetto – affidando alle seconde il compito fondamentale di comprendere il senso dell’agire umano nella sua organizzazione storico-sociale.
Tralasciando quelle che sono state le critiche allo storicismo come corrente filosofica, di cui Popper è forse stata la bandiera più alta, è la distinzione tra scienze della natura e scienze umane a destare la mia attenzione fin da quando ho cominciato a studiare psicologia. Il dubbio fondamentale, alimentato da quello stancante scetticismo nei confronti delle “chiacchiere” psicologiche, giustificato molto spesso anche da presenze televisive disturbanti e fastidiose, è sempre comunque stato se considerare la psicologia una scienza annoverabile tra le prime o le seconde (ricordo a tal proposito che tra le scienze della natura possiamo trovare la fisica, l’ingegneria e la chimica, mentre tra le seconde la filosofia, la sociologia e, quando è nata, la psicologia appunto, che etimologicamente significa “conoscenza dell’anima”).
E’ noto ormai il passaggio accademico compiuto, per esempio all’Università “La Sapienza” di Roma, del corso di Laurea in Psicologia dentro la Facoltà di Medicina, ed è altrettanto noto l’interesse metodologico della ricerca psicologica ad autolegittimarsi scientificamente e ad autorappresentarsi come scienza con la “S” maiuscola. Ma il dubbio persiste (o l’equivoco, a seconda dei punti di vista) se poniamo l’attenzione a quello che dovrebbe essere l’oggetto di studio della disciplina, inevitabilmente schiacciato, da una parte, dall’esigenza di ricerca e verifica della efficacia (o come direbbe appunto Popper della “falsificabilità“) teoretica, e, dall’altra, dal mandato sociale sostenuto da chi soffre e chiede aiuto per questo. Posta in questi termini la questione, sarebbe arduo affermare quindi che la Psicologia sia certamente una scienza della natura o piuttosto una scienza umana se non definiamo prima il metodo attraverso il quale possa esprimere il proprio substrato epistemologico. Ogni scienza, infatti, può definirsi tale solo attraverso la legittimazione del metodo di ricerca di conoscenza che adopera. Volendo potremmo dire che anche la Medicina occidentale soffre della stessa ambiguità epistemologica, se non avesse nei secoli sviluppato, ricercato e standardizzato una serie di metodologie e tecniche di studio di volta in volta affermate e falsificate (in senso popperiano) e che tali tecnologie tendono ad assomigliare sempre più a quelle delle scienze della natura piuttosto che a quelle delle scienze dello spirito: in sostanza, il famoso metodo sperimentale.
E la psicologia? Se il medico da un lato può godere a pieno titolo di quella ancora non del tutto superata dicotomia cartesiana tra mente e corpo, centrando la sua attenzione scientifica sul secondo – misurandolo, quantificandolo e scomponendolo in oggetto di studio più o meno come farebbe un ingegnere con un fabbricato – può fare altrettanto uno psicologo con la mente di un individuo o, per meglio dire, col suo “spirito”? E’ possibile prendere come oggetto di analisi scientifica, metodologicamente e teoreticamente provata, la vita di una persona che soffre? La differenza la farà probabilmente lo scopo, cioè se lo psicologo è interessato alla spiegazione di quel soffrire in termini universali e a divulgare questa conoscenza o se invece non sia interessato alla com-prensione di quello specifico individuo con l’intenzione di aiutarlo a cambiare. Parole che, lo spiegare e il comprendere, costruiscono la distinzione base della fenomenologia di Husserl e Heidegger, che ha poi determinato il nascere della psichiatria di Jasperse poi anche della psicoanalisi di Freud.
Brentano, dai più considerato il vero padre fondatore della psicologia, diceva che la realtà è inconoscibile (il fenomeno primario, gli oggetti, ciò che è) ma che ciò che importa è il fenomeno, quello che appare agli occhi dell’osservatore (il fenomeno secondario, l’effetto che producono su di noi gli oggetti) e che questa percezione è sempre mossa da intenzionalità.
Tornando quindi al concetto di Weltanschauung come “visione del mondo”, ritengo sia importante capire come la psicologia, in questo attuale momento storico, possa essere intesa e quale visione del mondo abbia strutturato nel suo agire scientifico. Quella dello spiegare o quella del comprendere? E’ interessata al fenomeno primario o a quello secondario? In sostanza, è una scienza della natura o una scienza dello spirito? Il paradosso infatti è evidente: la psicologia soffre inevitabilmente di una scissione, oserei dire schizoide (?!), rendendo esplicita la distinzione tra una professionalità orientata alla ricerca di paradigmi scientifici, e quindi guidata nel suo agire tecnico dalle strettoie della sperimentazione classica, e una professionalità orientata alla relazione d’aiuto, secondo me invece funzionale solo se caratterizzata da un’attenzione olistica alla persona e al disagio che porta nella relazione con l’operatore. Nel primo caso possiamo parlare quindi di cura e guarigione, come processi che sottendono una relazione soggetto(operatore)/oggetto(paziente), e nel secondo di prendersi cura e accompagnamento esistenziale, processi che invece sottendono una relazione Io-Tudi buberiana memoria tra soggetto/soggetto.
Detto questo, se la metodologia scientifica che di volta in volta lo psicologo sperimentale si trova a dover giustificare ed applicare può diventare un limite alla relazione d’aiuto, ma sicuramente anche un aspetto chiarificatore del suo agire professionale, come può invece, altrettanto chiaramente, uno psicologo orientato alla relazione d’aiuto definire il proprio campo d’azione e la propria metodologia scientifica? E’ ovvio che non potrà, seguendo il ragionamento precedente, utilizzare gli strumenti della standardizzazione epistemologica per non cadere nella trappola tecnocratica del saper fare e del saper spiegare oggettivando quindi il rapporto col proprio paziente/cliente, ma certamente un criterio di verifica della propriaintenzionalità percettiva, sempre seguendo Brentano, dovrà pure strutturarlo, senza porsi in un facile atteggiamento naive al di sopra del merito e della verifica. Qui sorge un problema di non facile determinazione se non si prende in considerazione anche l’aspetto politico della questione, dove per politico intendo l’insieme di interessi sociali sottostanti la ricerca del bene comune. In sostanza, per chi e per che cosa diventa necessario verificare una prassi terapeutica?
Aprendo una parentesi dal mio punto di vista significativa, è bene distinguere quindi le professionalità coinvolte nel campo allargato della psicologia se si vuole prendere in considerazione il livello politico della legittimazione scientifica.
Per prima cosa cominciamo col distinguere lo Psicologo (laureato in Psicologia, abilitato e iscritto ad un Ordine Professionale Regionale degli Psicologi), lo Psichiatra (laureato in Medicina, successivamente specializzato in Psichiatria e iscritto anch’egli in un Ordine Professionale, quello dei Medici), lo Psicoterapeuta (laureato o in Medicina o in Psicologia e successivamente specializzato e abilitato all’esercizio della Psicoterapia) e infine il Counsellor, di cui parlerò successivamente, che sono le principali, ma non le uniche, figure coinvolte nel campo della relazione d’aiuto.
Per quanto riguarda la figura dello psicologo è bene quindi fare riferimento anche alla giurisprudenza che così ne definisce l’ordinamento:
Legge 18 febbraio 1989, n. 56 (1)
Ordinamento della professione di psicologo (2) (3). Pubblicata in G.U. del 24 febbraio 1989, n. 46
1. Definizione della professione di psicologo
1. La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.
2. Requisiti per l’esercizio dell’attività di psicologo
1. Per esercitare la professione di psicologo è necessario aver conseguito l’abilitazione in psicologia mediante l’esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito Albo professionale.
2. L’esame di Stato è disciplinato con decreto del Presidente della Repubblica, da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
3. Sono ammessi all’esame di Stato i laureati in psicologia che siano in possesso di adeguata documentazione attestante l’effettuazione di un tirocinio pratico secondo modalità stabilite con decreto del Ministro della pubblica istruzione, da emanarsi tassativamente entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge.1
La professione dello psicologo, quindi, da un punto di vista giurisprudenziale è certamente ben definita in ogni sua competenza se tra queste si esclude, in un certo senso, cosa significhi saper aiutare una persona. In termini normativi infatti si parla di “consulenza”, “diagnosi”, “riabilitazione” e “sostegno”. Nulla che riguardi la cura o la terapia, storicamente campi d’azione della medicina tout court. La psicoterapia allora, per definizione il campo della “cura psicologica”, è disciplinata, legislativamente, nel seguente modo:
3. Esercizio dell’attività psicoterapeutica
1. L’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto del Presidente della Repubblica (4).
2. Agli psicoterapeuti non medici è vietato ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica.
3. Previo consenso del paziente, lo psicoterapeuta e il medico curante sono tenuti alla reciproca informazione
Come si può notare, qui appare la prima discrepanza tra l’agire psicologico in relazione alla cura, sicuramente poco definito da un punto di vista etimologico, e quello medico dentro al quale in qualche modo risiede anche il primo. Si perchè, se da un lato lo psicologo per esercitare la professione “terapeutica” deve specializzarsi in essa specificatamente senza mai comunque sconfinare in territori di “competenza esclusiva della professione medica” e, al contrario, in deroga anche alla precedente normativa, lo psichiatra può fregiarsi del titolo anche di psicoterapeuta pur non specializzandosi in modo specifico, ma acquisendone le competenze, come dire, per “osmosi” epistemologica, appare del tutto evidente come, nella nostra società, il concetto di cura e terapia non abbiano molto a che fare con l’aiuto nel senso di processo di crescita, quanto ancora e sempre con il modello medico di guarigione dai sintomi. Ora, di questo non ci sarebbe nulla di cui stupirsi, se non fosse che, la maggior parte delle volte, il sostegno e la conferma del modello medico come cardine attorno al quale debba uniformarsi la relazione d’aiuto, vengano proprio dagli stessi psicologi, sempre pronti a legittimarsi e autoproclamarsi strenui difensori del metodo scientifico (o sperimentale che dir si voglia).
Detto questo, forse in modo anche un pò polemico, la domanda che allora sorge spontanea è: che cosa significa relazione d’aiuto? In cosa consiste aiutare qualcuno con gli strumenti della psicologia o della psicoterapia? A quali problematiche fa riferimento tale relazione? La risposta non è semplice se cerchiamo di trovarla all’interno di confini semantici propri della medicina classica, come sarebbero quelli di “patologie”, “sintomi”, “malattie” o “disturbi”. Un territorio linguistico sicuramente più sobrio e consono ad un modello epistemologicamente orientato alla com-prensione piuttosto che alla spiegazione (per dirlo in termini fenomenologici), sarebbe contraddistinto da parole come “difficoltà”, “disagio”, “disorientamento” e “ignoranza”, intesa ovviamente come mancanza di conoscenza di sé. Termini che a ben guardare farebbero riferimento a percorsi esistenziali complessi più che a isolate e a catalogate manifestazioni dell’essere. E’ chiaro che, posta in questo modo, la questione sembrerebbe limitata ad un uso proprio/improprio del linguaggio e che la sostanza sia ben altra cosa. Ma l’esperienza che in anni ho potuto maturare in psichiatria mi dice in realtà esattamente l’opposto, cioè che molto spesso sono proprio gli equivoci linguistici a generare o alimentare i pregiudizi semantici. Parlare di schizofrenia senza conoscere la storia di un individuo, generalmente spinge l’operatore d’aiuto a intraprendere percorsi relazionali che camminano sugli stessi pregiudizi che la persona ha della schizofrenia. Facendo un esempio, se cadendo in un gigantesco ma quanto mai diffuso pregiudizio, si usa la parola schizofrenico per indicare un individuo violento in modo incomprensibile, l’operatore inesperto che continua ad usare un linguaggio scorretto, finirà per essere convinto dell’associazione tra schizofrenia e violenza e tratterà tutti i suoi futuri pazienti schizofrenici come dei potenziali aggressori, e tutti i violenti come dei potenziali schizofrenici. In ogni caso, senza divagare troppo sul tema psichiatrico, e tornando alla relazione d’aiuto come campo di intersezione dei vettori professionali psicologico e medico, si può dire che il disagio esistenziale non possa fare a meno del “prendersi cura”, fondamentalmente diverso dal “curare”, in quanto nel primo caso ci riferiamo all’incontro di due soggetti ugualmente attivi e nel secondo invece di un soggetto e di un oggetto della guarigione.
L’ultimo campo d’intersezione professionale che, soprattutto ultimamente, in un momento di grande crisi culturale ed economica del nostro paese, ha generato non poche polemiche e conflitti corporativistici veri e propri, è il Counselling. La figura del Counsellor, che fino al febbraio di quest’anno non ha goduto di nessuna legittimazione legislativa nè di converso di nessuna protezione ordinamentale, nasce, si sviluppa e si alimenta proprio sul limite delle aporie concettuali che ho precedentemente discusso in merito al concetto di cura. Esistono diversi statuti privati che hanno cercato nel tempo di definire la professionalità del Counsellor, come ad esempio l’AICo, nel tentativo di qualificare da un lato i professionisti formati ad agire in determinati settori e secondo definite metodologie, dall’altro di garantire e tutelare un’utenza spesso disinformata. Dal Codice Deontologico dell’AICo:
a) Definizione di Counselling: il Counselling è un processo di apprendimento, attraverso un’interazione tra Counsellor e cliente, o clienti (individui, famiglie, gruppi o istituzioni), che affronta in modo olistico problemi sociali, culturali e/o emozionali. Il Counselling può cercare la soluzione di specifici problemi, aiutare a prendere decisioni, a gestire crisi, migliorare relazioni, sviluppare risorse, promuovere e sviluppare la consapevolezza personale, lavorare con emozioni e pensieri, percezioni e conflitti interni e/o esterni. L’obiettivo nel complesso è di fornire ai clienti opportunità di lavoro su se stessi, nell’ottica di raggiungere maggiori risorse e ottenere una maggiore soddisfazione come individui e come membri della società.
b) Definizione di Counsellor: Il Counsellor è un’operatore d’aiuto in tutte quelle situazioni che hanno a che fare con relazioni umane, da quelle professionali a quelle interpersonali fino a quelle con se stessi. Il concetto di relazione d’aiuto si può intendere in varie maniere naturalmente: una è quella dell’aiuto attraverso la relazione, in cui la relazione appunto fra operatore e cliente è paradigma relazionale, la cui qualità funziona come esempio per le altre relazioni. Altra implicazione possibile è che si tratti di aiutare ad aiutarsi: l’operatore in questo caso avrebbe una funzione di catalizzatore di avvenimenti interni, e non di sostituto di capacità mancanti.
Relazioni umane, quindi. Rimanendo alle dichiarazioni d’intenti, le uniche professionalità che centrano il proprio mandato sociale sull’aiuto sono quelle dello psicoterapeuta e quelle del counsellor, non propriamente invece quelle dello psicologo o dello psichiatra per cui più consono sarebbe come riferimento del proprio agire il conoscere tout court. Ma che vuol dire conoscere? Che strumenti utilizziamo abitualmente per conoscere? E soprattutto: come si declina il verbo conoscere nei confronti dell’essere umano e della sua esperienza esistenziale, ovvero del suo mondo interno?
La risposta a questi quesiti non è semplice, ma ogni specialista che si rispetti non può che fare riferimento alla filosofia, storicamente campo di ricerca specifico della conoscenza. Sono infatti i filosofi i grandi creditori di tutte le più moderne teorie di riferimento dello studio della conoscenza e degli esseri umani nel loro viaggio relazionale, come sono filosofi (oltre che antropologi, sociologi e persino letterati) anche i precursori di tutte le applicazioni psicologiche che conosciamo in campo esistenzialista e più in generale psicoterapeutico. Dubito infatti che senza Husserl e Heidegger Jaspers avesse potuto scrivere uno dei più grandi manuali di psichiatria della storia, cosi come senza Nietszche Freud non avrebbe potuto intraprendere l’epocale avventura della psicoanalisi e gli esempi potrebbero essere infiniti. Il punto della questione sollevata quindi dalla recente guerra ideologica tra psicologi e counsellors sulla titolarità degli interventi nel campo della relazione d’aiuto rischia di essere quasi incomprensibile da un punto di vista logico. Al centro della speculazione di una fetta dell’Ordine degli Psicologi appare infatti la legittimità e la difesa dell’agire “psi”, tutelata ma scarsamente definita deontologicamente dall’ordine stesso: la pretesa è quella di monopolizzare un campo sociale come quello dell’aiuto in virtù, all’apparenza appunto, di una formazione specifica e riconosciuta legalmente. Nessuno fa caso però al fatto che la maggior parte degli insegnanti, siano essi accademici o non, delle materie psicologiche non siano affatto psicologi di formazione e che lo stesso corso di laurea in Psicologia non attribuisca nessuna competenza di merito, così come da Codice Deontologico, riguardo la relazione d’aiuto e la psicoterapia2. Il paradosso sembrerebbe quindi configurarsi intorno alla formazione, da un lato centrata sugli aspetti diagnostici e conoscitivi, quella degli psicologi, e sviluppata da non psicologi, e dall’altro invece sulla relazione d’aiuto, quella dei counsellors, questa sì limitata nel suo agire ma non riconosciuta e protetta da Ordini professionali.
Tornando quindi a dipanare l’intrecciata matassa della discussione sulla titolarità degli interventi nel campo “psi”, che, come abbiamo visto necessita chiaramente di una valutazione di tipo etico oltre che scientifico, l’oggetto principale della discussione dovrebbe vertere principalmente sulla necessità di avere un’utenza informata e consapevole, piuttosto che una difesa corporativistica che non ha nessun valore se non quello di voler affermare una posizione professionale. Seguendo il ragionamento fatto finora è doveroso, ad esempio, dover affermare che lo psicologo come figura professionale non sia formato e abilitato alla relazione d’aiuto intesa come prendersi cura e/o terapia del disagio esistenziale della persona e che la semplice laurea e iscrizione all’ordine non tutela affatto l’utenza da abusi professionali, come affermato da più parti recentemente nella guerra legale tra psicologi e counsellors, quanto piuttosto lo psicologo stesso di fronte al mercato delle professioni. Sbandierare quindi, come viene spesso fatto, la presunta tutela dell’utenza di fronte al rischio di abusi e truffe sanitarie da parte di professionisti non abilitati appare piuttosto come un ribaltamento dialettico che strumentalizza la legge senza ottenere per altro nessuno scopo reale se non quello di spaventare e irrigidire il sistema dell’aiuto e della formazione.
Posto che scegliere di farsi aiutare è sempre, nella nostra cultura, un discreto atto di coraggio, e considerando quanto diffusa sia l’idea che “andare dallo psicologo significa essere matti” e che per questo fino a non pochi anni fa si rischiava di finire in manicomio o peggio di doversi vergognare di fronte alla comunità più prossima, le garanzie formali e deontologiche tuttavia non riducono a mio avviso il rischio di incontrare comunque la persona sbagliata che non sia in grado di aiutarci. Essendo la relazione d’aiuto fondamentalmente una relazione basata sulla qualità dello scambio esistenziale tra due individui, io credo che l’unica garanzia formalmente significativa per un cliente invischiato nell’ardua scelta del suo terapeuta, sia unicamente il pregresso percorso di richiesta d’aiuto del terapeuta stesso. In altre parole se, con chi e per quanto tempo egli stesso è riuscito a farsi aiutare nella sua formazione.
Il campo “psi”, come si è visto, è vasto, multidisciplinare e etimologicamente poco definibile. Per questo motivo ritengo decisamente inopportuna una dialettica che ponga le sue basi sulla definizione della legittimazione professionale piuttosto che sulla ricerca di una cultura condivisa della relazione d’aiuto. Il processo del farsi aiutare, soprattutto in Italia, soffre di storiche e radicate stereotipie pregiudiziali che normalmente pongono un filtro consistente a chi ne ha bisogno per la ricerca di un professionista e spostare i termini della questione dal campo del merito (la qualità della relazione) a quello ideologico (la titolarità della relazione) non facilita certamente l’accesso.
Per maggiori approfondimenti che riguardano il Codice Deontologico, la Privacy, la disciplina del segreto professionalee il Codice di Condottadello psicologo in relazione alla sua utenza, i links riportati sono presi dall’Ordine degli Psicologi del Lazio a cui appartengo e dall’Ordine Nazionale Psicologi.
Si può denunciare una madre, un prete, un insegnante di scuola, un allenatore sportivo e chi più ne ha più ne metta per esercizio abusivo della professione nel momento in cui viene pescato ad aiutare qualcuno sulla base delle sue conoscenze “empiriche” dell’essere umano? o il problema rimane come sempre il farsi pagare per questo cioè il configurare il proprio agire come un prodotto piuttosto che come un servizio? E come si fa a stabilire se il prodotto in questione, una volta riconosciuto come tale legalmente dalla pregressa riconoscibilità della formazione, sia di qualità o meno e quindi quantificabile in una parcella corrispondente? Se diamo per scontato infatti che alla forma giuridicamente riconoscibile come può essere la laurea corrisponda senza dubbio la qualità della relazione d’aiuto, dovremmo per forza di cose ammettere che ogni psicologo sia un miglior pedagogo rispetto a una madre perchè ha studiato Bowlby, un miglior consulente rispetto a un prete perchè ha studiato Freud e un miglior educatore rispetto a un insegnante di scuola perchè ha studiato Piaget?
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