Voci per la democrazia. Dagli eroi a una collettività di cuori pensanti

Valentina Barlacchi

Valentina Fortunati Barlacchi – Psicoterapeuta Direttrice didattica IGF

Pubblicato sul numero 47 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

Omaggio al pensiero femminile di autrici che hanno lasciato una traccia indelebile della loro passione per la realtà umana con tutte le sue contraddizioni

Abstract

Questo articolo, che parte dall’eredità culturale e di vita di cinque intellettuali donne dal Novecento a oggi, intende portare l’attenzione sull’importanza cruciale in epoche passate attraversate da conflitti crudeli, come ugualmente anche nel nostro tempo, di coltivare un pensiero connesso all’esperienza esistenziale, a partire dal sentire e che porti a intraprendere azioni nel mondo orientate verso un vivere civile, animato dal senso del valore per una collettività democratica e cooperante. La profondità e determinazione nella ricerca di un pensiero connesso alla vita sviluppato nel ‘900 da filosofe, pensatrici, mistiche come Simone Weil, Hannah Arendt, Etty Hillesum, Edith Stein, ha aperto un cammino nella storia della filosofia femminile, orientato alla difesa dei diritti umani contro la morsa di un potere totalitario che schiaccia le differenze di genere, cultura, lingua, religione, etc. Nell’articolo si considera la relazione tra la Gestalt a orientamento fenomenologico esistenziale nell’esperienza del contatto e dell’empatia e l’apporto prezioso di intellettuali passate e del nostro tempo, come Michela Murgia, alla ricerca di una prospettiva di un vivere comune che onori la forza della debolezza, del dubbio, della vulnerabilità, del bisogno e piacere di un pensare e costruire a più mani, nell’ottica di una molteplicità interna, che in Gestalt Paolo Quattrini metaforizza come la fine dell’illusione del sogno di io.

Key words:

Fenomenologia, Gestalt, trascendenza, solitudine, contatto, empatia, storia, cuori pensanti, politica, democrazia, femminismo.

“Voglio diventare un cuore pensante”

Etty Hillesum

Prologo da Simone Weil

Entrò nella mia camera e disse: “Miserabile, che non comprendi nulla, che non sai nulla. Vieni con me e t’insegnerò cose che neppure sospetti”. Lo seguii. 

(…) Mi condusse di fronte all’altare e mi disse: “Inginocchiati”. Io gli dissi: “Non sono battezzato”. Disse: “Cadi in ginocchio davanti a questo luogo con amore come davanti al luogo in cui esiste la verità”. Obbedii.

(…) Mi aveva promesso un insegnamento, ma non mi insegnò nulla. Discutevamo di tutto, senza ordine alcuno, come vecchi amici.

Un giorno mi disse: “Ora vattene”. Caddi in ginocchio, abbracciai le sue gambe, lo supplicai di non scacciarmi. Ma lui mi gettò per le scale. Le discesi senza rendermi conto di nulla, il cuore come in pezzi. Camminai per le strade. 

(…) Il mio posto non è in quella mansarda. Esso è ovunque, nella segreta di una prigione, in uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa della stazione. Ovunque, ma non in quella mansarda.

Qualche volta non posso impedirmi, con timore e rimorso, di ripetermi un po’ di ciò che egli mi ha detto. Come sapere se mi ricordo esattamente? Egli non è qui per ricordarmelo.

So bene che non mi ama. Come potrebbe amarmi?

E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che forse, malgrado tutto, mi ama.

Simone Weil scrisse il testo, di cui riporto un estratto, come Prologo del suo libro Quaderni I, “massa non ordinata di frammenti”, come lei definisce questa raccolta di riflessioni filosofiche e sociali, che comporranno uno dei suoi sedici quaderni, scritti, come ebrea rifugiata tra Marsiglia e gli Stati Uniti, durante la guerra tra il 1941 e 1942, prima di morire nel 1943 a Londra.

Il prologo narra l’epifania di un’esperienza interiore, che non descrive, ma evoca il portato di una trasformazione, di un incontro che chiama la persona ad inchinarsi al paradosso del bisogno di radicamento e di sradicamento; gli opposti che si toccano, come amore e sofferenza, per Simone Weil prendono la forma della croce, che nel tenere insieme i paradossi, permettono allo sguardo di volgersi verso l’infinito.

La chiamata alla trascendenza passa qui dalla lacerazione tra il sogno di appartenere e la necessità dello sradicamento dato da un abbandono, verso la ricerca di una radice più profonda. 

Il tema della solitudine, in questo scritto, emerge come inevitabile passaggio per l’incontro con il mondo interno e la ricerca personale. L’iniziazione è seguita da un abbandono, da un tradimento, da un’impossibilità di ricordarsi esattamente le parole dell’altro, e di alimentare l’illusione di poter diventare qualcun altro. 

Il testo ha molti livelli di lettura, qui lo cito come avvicinamento a questo paradosso del fare i conti, da una parte con se stessi e con la parte ingombrante di sé, e dall’altra con lo sforzo e l’attenzione di accorgersi e riflettere su quanto accade nel mondo esterno, sulla realtà storica e sociale del proprio tempo. Il testo può evocare la relazione terapeutica, o l’incontro con un cammino politico, ideologico, in cui essere tentati di riporre speranze salvifiche. Simone Weil si allontana da ogni tentazione di reificazione e dogma, ma propone il contatto con l’attenzione, con il silenzio e con il vuoto come risorse per trovare vie di trasformazione, che mettano in contatto il mondo dentro con il mondo fuori.

Interessata fino all’ultimo alla realtà del suo tempo, senza risparmiarsi fisicamente dal vivere molteplici vite civili e sociali, dal lavoro in fabbrica, dove sperimenta la “sventura operaia” e lo “sradicamento operaio”, all’insegnamento della filosofia, alla partecipazione alla guerra di Spagna, al viaggio in Germania poco prima della presa di Hitler, accorgendosi in anticipo del disastro imminente, al contatto con l’arte, la bellezza come cura dell’anima, alla pratica della scrittura come azione civile di denuncia, di testimonianza, di cambiamento. Per lei l’esperienza vissuta è l’unico campo in cui si possono coltivare il sentire, il pensarne qualcosa e l’agire. La sua vita è stata un’incredibile testimonianza della sua ricerca costante del senso dell’esistenza e della trascendenza, vivendo la realtà contemporanea, senza ripari protettivi, cercando con coraggio il suo modo unico di stare in relazione con il mondo. Avvicinatasi al cristianesimo, restò sulla soglia, scegliendo di non battezzarsi, per poter rimanere una libera pensatrice. Nella sua ricerca di vita spirituale, parlava delle sue difficoltà personali, in modo inclemente: della mancanza di coraggio di assumersi responsabilità, di vivere “potenze fittizie”, di una “mancanza di naturalezza”, di non “essere all’altezza delle piccole cose”. I suoi scritti: un faro nella notte.

Omaggio corale a pensatrici che hanno creato un ponte tra sentire e pensare.

Questo articolo nasce da riflessioni condivise con amiche e colleghe, a partire dalla scorsa estate a Lisbona, durante un periodo di esperienza in carcere con il progetto di danza e Gestalt Corpoencadeia, coordinato dalla ballerina gestaltista e amica, Catarina Camara. I nostri discorsi in macchina al caldo, tra andata e ritorno si snodavano tra riflessioni sull’accaduto con il personale penitenziario e durante le lezioni di danza con i carcerati, in maggioranza di origine africana, di religione musulmana; per lo più vertevano su temi come il potere, l’oppressione, il post colonialismo, il razzismo, le discriminazioni, il maschilismo, ma anche la paura, l’eros, la tenerezza, la vulnerabilità, la bellezza, l’arte. Parlavamo di un sistema patriarcale esistente e dominante e delle sue intersezioni con le tante sfere del vivere in comune. Osservavamo la gabbia del sistema – carcere, per come si manifesta nella sua struttura gerarchica, punitiva, infantilizzante, nella relazione stretta tra potere e oppressione dei corpi. Nel 1975 M. Foucault, storico e filosofo francese, in “Sorvegliare e punire”, scriveva di una società disciplinare che ha inventato una tecnologia, con procedure per controllare, addestrare e rendere docili gli individui, puntando alla produzione a scapito dello sviluppo del potenziale umano. Foucault mostra come su questa tecnologia, con tutto ciò che comporta, siano stati concepiti anche le caserme, gli ospedali, le fabbriche e le scuole. 

Le riflessioni lungo i chilometri dal carcere alla città, si associavano alle nostre esperienze personali di donne cinquantenni bianche, borghesi e privilegiate, in grado di svolgere un cammino professionale e personale scelto e non solo vòlto alla sopravvivenza. Ci chiedevamo come eravamo parte del sistema, che effetto faceva su di noi interagire con quelle dinamiche di potere per la restrizione della libertà di un’istituzione, che alimenta in buona parte se stessa e dimentica per quale altro scopo mantiene le sue regole. Il carcere è come un microcosmo che lega e avvinghia con logiche gerarchiche tutti coloro che ci entrano in contatto, guardie e detenuti e i detenuti stessi tra loro; insidia, per lo più in modo evidente, con questo paradigma e a volte con meccanismi più sottili, riconoscibili solo parlandone a distanza, fuori dalle mura carcerarie. 

Le chiedevo e riflettevo su come fosse, come donna, avere un ruolo di conduzione e referenza di un progetto di danza, dove si tratta, a fine percorso, di far ballare in uno spettacolo professionale una quindicina di giovani africani che non hanno nessuna tecnica, ma hanno un bagaglio culturale di danza e movimento, a volte valorizzato, altre volte contrastato e ripudiato. 

L’essere donna in un ambiente maschile, in parte facilita processi di apertura e di espressione personale dei partecipanti e dall’altra richiede una costante attenzione e vigilanza verso comportamenti manipolativi, che rischiano di minare il riconoscimento necessario per la conduzione di un progetto artistico e per la coesione di un gruppo, dove le spinte aggressive e disgregative sono sempre a filo di rasoio, i processi di apertura e condivisione sulle proprie fragilità e paure richiedono tempi e condizioni possibili per accadere o non avvenire proprio. Ci scambiavamo le diverse esperienze vissute con il tema del potere e dell’aggressività, necessari per promuovere questo progetto di intervento comunitario attraverso la danza, il teatro e la Gestalt. Emergevano le esperienze di piacere e di paura, e di come i ruoli appresi, come donne fin dall’infanzia, riaffiorino su richiesta o meno, a volte quasi senza accorgersene, come quello di mediatrice, di colei che si prende cura, di esperta in compiacenza, di chi sta al gioco, complice di ambiguità seduttive, oppure di chi si maschera da pia donna eroticamente assente, in vista della riuscita del progetto. 

Le differenze tra uomo e donna sono incommensurabili e per questo permettono il fiorire di tanta creatività; ma come sottrarsi al modello culturale di società maschilista che fa della differenza di genere e non solo – di cultura, di pelle, di etnia, di religione, di lingua -un abuso di potere, che come dice Simone Weil, “sradica da fuori”, è un problema ancora incredibilmente attuale. 

Simone Weil distingueva lo sradicamento da fuori, dallo sradicamento da dentro. A proposito degli operari parlava del loro vivere il “… sentimento di essere sradicati, stranieri, esiliati in fabbrica, di non essere a casa loro, di essere tollerati, di esserci solo per obbedire…”. Lo sradicamento da fuori è compiuto dalla forza, è una malattia sociale che porta negli esseri umani inerzia mortale dell’anima e/o violenza, che si perpetua continuando a sradicare altri con l’oppressione. Tra le varie manifestazioni dello sradicamento negativo che taglia i legami con il background storico, culturale e sociale di provenienza, Weil cita la guerra, la disoccupazione, gli effetti della conquista e della sottomissione delle popolazioni occupate e la prostituzione.  In “La prima radice” scrive: “Chi è sradicato, sradica” e “Chi è radicato, non sradica”. “Nulla è peggiore dell’estrema sventura che distrugge l’Io dal di fuori, perché da quel momento non può più distruggersi da sé”.

Lo sradicamento da dentro, invece, di cui parla in “L’ombra e la grazia” non è una malattia, ma una necessità, che sta nel riconoscere l’alterità presente in noi stessi, allargando le ristrettezze identitarie; conoscere significa “riconoscere” attraverso la mediazione dell’Altro nelle sue varie manifestazioni di differenza (lingua, istituzioni, contesto storico, etc), per potersi radicare a una radice più profonda, all’amore per il bene. Per Simone Weil, quest’ultimo è il solo che può guidare un pensiero politico capace di condurre a scelte orientate alla crescita di una nuova polis, di una koinè rispettosa dei diritti e della dignità umana, delle differenze, del bisogno di radicamento a radici multiple, in opposizione a un nazionalismo totalitario. Come ultima opera scriverà un manifesto per una civiltà radicata: “Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano” nel 1942. 

 

Riflettere sul tema dello sradicamento post-coloniale della Weil, a partire dalle vite dei partecipanti al progetto di danza, in un carcere maschile di alta sicurezza, una delle istituzioni più maschiliste, mette in luce le ombre della società del nostro tempo, che tiene lontana e nascosta l’evidenza di un sistema economico, politico e sociale che fa discriminazioni e che resiste a fare spazio a un cambio di paradigma sulle relazioni umane fondato sulla valorizzazione delle differenze.

Per affrontare la complessità di ogni tempo, per lottare per la democrazia, c’è bisogno dell’esercizio del pensiero, del riportare al centro della convivenza civile, di una “agorà” il riconoscimento e il confronto tra le differenze, senza paura del conflitto, accettando che pòlemos è energia vitale e che Armonia è figlia di Afrodite e di Ares, ben lontana da una forza distruttiva. Simone Weil scriveva e auspicava uno stare insieme tra gli uomini, non assoggettati a uno stato assoluto, ma interessati a creare una patria da amare, fondata non sulla forza, ma sul riconoscimento della fragilità. Weil intendeva la patria come una molteplicità di patrie, di comunità, invitando alla creazione di tanti microcosmi a partecipazione comunitaria, per il fiorire di scambi e condivisioni tra gli esseri umani, guidati da verità, bellezza e giustizia. 

A questo proposito interessante citare l’esempio luminoso del carcere di Cipro, diretto da Anna Aristotelous da circa nove anni, dove la sua politica basata sul dare volto e dignità ai detenuti, rivolgendo l’attenzione agli esseri umani, allo sviluppo del loro potenziale, sta portando come risultato la fine dei suicidi, dei tentativi di fuga e l’aumento del numero di iscritti a corsi di formazione e di laureati. Un altro mondo è possibile.

“Non è vero che il mondo è brutto, dipende da che mondo ti fai” (da intervista sul corriere, Aldo Cazzullo a Michela Murgia, giugno 2023)

Grazie alle parole di tante pensatrici dal Novecento a oggi, tra cui Michela Murgia, intellettuale brillante, coraggiosa, poliedrica, con i suoi tanti scritti e video, tutto questo ha continuato a germogliare in me, in un dialogo tra le mie aspirazioni e le mie paure, i miei bui dell’anima e la consapevolezza che il tempo passa irrimediabilmente e che la scelta sia l’unica redenzione alla vigliaccheria. Finché, la notte delle stelle di San Lorenzo il 10 agosto, Michela Murgia è morta, molto probabilmente senza rimpianti, né rimorsi, il mondo che si era fatta con le sue scelte le andava bene e a partire da quello che le è capitato, compresa la malattia, ha fatto quello che ha voluto fino all’ultimo.

La sua avventura letteraria era iniziata scrivendo un blog e poi pubblicando Il mondo deve sapere (2006): narrazione-denuncia della sua esperienza di telefonista in un call center, dove dichiarava l’oppressione del precariato, permettendo a una larga fascia di popolazione di riconoscersi nei meccanismi di sfruttamento di certi mondi lavorativi.

Le sue riflessioni sono sempre intrise della sua esperienza esistenziale e si sono evolute nel tempo, con gli accadimenti della sua vita, fino alla malattia e a come si è preparata a morire. Il suo osservare la realtà a partire dall’ambito privato si è sempre rivolto ai bisogni della comunità, dando così voce all’esperienza sommersa di molti invisibili.

Apprezzo il suo pensiero lucido, il suo coraggio di esporsi con la voce, con il corpo, per testimoniare le sue idee, i suoi dissensi, le sue paure, con la vitalità ora gioiosa e comica, ora paradossale e sarcastica, a seconda dell’onda del contesto da cavalcare, diretta a interlocutori, alleati o a nemici da cui difendersi. La sua determinazione nell’esprimere un pensiero diretto, senza compromessi, è risultata a molti scomoda, le ha attirato disprezzo e attacchi pesanti alla sua persona, in particolare al suo corpo di donna, visto che con le parole se la cavava molto meglio dei suoi nemici. La sua presenza rimane viva, più viva di prima e un esempio da cui imparare, di dignità, di solitudine necessaria all’autonomia e all’integrità personale. Nella sua vita ha lottato per un pensiero democratico, basato sul confronto e sul valore del dissenso, sulla pluralità e sulla cooperazione. Ha creduto nella potenza dell’agire collettivo, con cui ha dato forma a un suo desiderio di raccontare storie collettive: realmente accadute e non vere al tempo stesso. Storie che narra immaginando dialoghi e fa vivere come nessuno le ha mai raccontate, nella dimensione collettiva, giudicata in genere non importante. Noi siamo tempesta (2019) narra storie senza l’eroe, sono imprese corali, realizzate grazie alla collaborazione creativa tra le persone. Tra le storie, Michela Murgia fa un omaggio a Maria Lai e alla Sardegna con Legarsi alla Montagna, narrazione di un’opera performativa realizzata ad Ulassai nel 1981 e considerata la prima opera internazionale di Arte Relazionale.

 “Zitta! Zitta! Zitta e ascolta! Sto parlando e non voglio essere interrotto!” Dopo aver ricevuto questa frase in diretta radio dallo psichiatra Raffaele Morelli, Murgia scrive Stai zitta (2021), manuale di vendetta privata e con finalità collettiva, ad uso di ragazze e ragazzi per affrancarsi da oppressioni antiche e attuali, e riappropriarsi del potere personale, perché come scrive nel retro di copertina: “di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva”. Il suo modo di esprimersi insegna che le parole possono essere affilate, ma non respingenti, possono avvicinare, pur nel dissenso più aspro. Le sue parole sono calde, vitali, intenzionate a smascherare menzogne con cui si tengono in piedi logiche di potere; sono azioni verbali orientate verso un vivere comune più giusto, non retorico, non arroccato su se stesso. 

Michela Murgia ha sicuramente lottato per essere felice e per cercare un modo nuovo di convivenza tra gli esseri umani, più equo, orientato ad una orizzontalità di rapporti, dove la collaborazione, la creazione comune trovi più spazio e apprezzamento della ben conosciuta struttura gerarchica piramidale, dove competizione, successo individuale, e vittoria hanno la meglio nella scala dei valori umani. Per seguire le sue scelte e i suoi punti di vista ha esercitato potere. Il potere è riconoscersi capacità di agire nel mondo, di orientare la propria intenzione, molto diverso dal potere esercitato sulle scelte altrui. 

A questo proposito Hannah Arendt parla di un potere necessario e di una dimensione politica che permea l’intera esistenza, non solo l’ambito del governare, ma riguarda l’arte del vivere bene in comune e del piacere di scambiare con gli altri, con il coraggio di esporsi allo sguardo altrui.

 “Perché e come si pensa?”

Il filo che unisce le pensatrici che sto citando è la ricerca costante di un rapporto tra vita e pensiero, tra sentire il mondo interno e restituire, agendo incisivamente, nella realtà politica della loro epoca. Michela Murgia ai nostri giorni e prima di lei, Simone Weil, Edith Stein, Hannah Arendt, Etty Hillesum e altre  (da leggere il testo della filosofa Laura Boella Cuori pensanti (2020), che include mirabilmente lo sguardo di tutte queste pensatrici) a cavallo tra le due guerre, si sono dedicate alla vita attiva nel mondo, nella comunità, nel sociale, cercando un pensiero che scavasse partendo dall’esperienza che stavano vivendo, come intellettuali esiliate e cercando internamente la giusta distanza dal vissuto presente, dalle emozioni che travolgono, per rendere possibile la riflessione, l’espressione.

Tutte hanno lavorato per un cambiamento delle logiche di potere, da una logica della forza, dell’eroismo, dell’oppressione, della violenza e della guerra, a una logica di coraggio basato sul sentire, sul cooperare, sul coraggio di testimoniare, di compiere azioni che hanno bisogno prima di tutto di essere immaginate, una logica appoggiata sull’aggressività necessaria a non lasciarsi andare, a non confluire con il malessere di un mondo ingiusto, pieno di orrori, oltre che di bellezze.

Nel video: “Cuori pensanti con Laura Boella: Un’etica per il futuro 2021, la filosofa cita le espressioni di tre pensatrici che si sono chieste cosa significa pensare.

Etty Hillesum, da una pagina di diario: “Pensare è una bella e nobile attitudine, però è difficile pensare quando ci si trova in uno stato d’animo penoso”. Senza voler dire che quando un’emozione ci sovrasta non si può pensare, anzi per Etty Hillesum il vero punto di partenza del pensiero è quando si ha uno stato d’animo tormentato, si è addolorati, si ha paura, si è disperati.

Simone Weil: “Pensare: cosa in atto e in pratica. Secondo la differenza tra scrivere un trattato sul gioco del tennis, oppure giocare a tennis”. Per Weil il pensiero è tale solo se è un’esperienza della realtà. Il pensiero nasce da come ci muoviamo nel mondo. Il pensiero nasce nel momento in cui siamo impegnati nel mondo.

Hannah Arendt: “Il pensiero nasce quando si viene colpiti da un’esperienza di verità”. Boella spiega che è quando veniamo colpiti da qualcosa di inaspettato, di cui non si capisce il perché. Il pensiero nasce quando rispondiamo all’urto della realtà.

Il problema del genere umano, in tutti i tempi difficili è il non voler pensare e non voler sentire, è un evitamento del contatto del sentire, che porta apatia e indifferenza.

Per tutte e tre il pensiero è strettamente connesso con l’apertura e il coraggio di sentire. Sentire e pensare sono collegati. Etty Hillesum chiamava l’insensibilità e l’apatia, un rischio morale e mortale a cui lei si sentiva continuamente esposta.

Il pensiero per ognuna di queste pensatrici è il fondamento per la partecipazione al vivere comune, per dare senso allo scorrere dei giorni, per muoversi contro corrente come i salmoni, pur di cercare la vita, anche a costo della vita stessa.

Il rapporto con l’esistenza, per queste pensatrici, è talmente vibrante, che non teme il contatto con la morte, come orizzonte certo che ci aspetta e che per questo pone l’esistenza davanti a una costante scelta intorno al senso del valore.

Le loro parole sono dense e poetiche, dirette e precise come frecce che colgono nel segno, ma anche per loro sono frutto di ricerca e scavo, non spontanea immediatezza, ma pratica assidua e intenzione perseverante di dar voce alla coscienza, di non lasciare assorbire tutto nel grande magma indistinto del tempo che passa; di dar voce agli oppressi, a chi voce non ha.

Etty Hillesum dal campo di concentramento scriveva: “In un campo deve pur esserci un poeta, che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare”. Quando le sue compagne di baracca dicevano: “non vogliamo pensare (…) non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze”, lei pensava: “Lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca”.

Etty Hillesum era olandese, di famiglia ebrea non praticante, molto poco interessata alla morale convenzionale, voleva diventare scrittrice, o meglio “cronista di tanti fatti di questo tempo”. Nel 1941 comincia a scrivere un diario. Lavora nel campo di transito di Westerbork, dove sostiene e conforta le persone e dove decide di restare per non abbandonare il suo popolo, ma non si riferisce agli ebrei, perché non vedeva confini tra le persone, parla della popolazione umana.

Il suo scrivere sull’esperienza del campo corrisponde alla necessità che sente di dare una “risposta” a ciò che osserva, sente, percepisce, cercando di esprimere ciò per cui dice, “non ci sono parole”, ma che vuole testimoniare per non cadere nel “rischio morale e mortale” di diventare lei stessa insensibile e apatica.

Percepiva il pericolo straziante dell’assorbimento nello sradicamento di cui parlava la Weil, di quando l’oppressione ottunde qualunque capacità di pensiero e di sentire, togliendo dignità all’essere umano. Etty Hillesum sapeva che si trattava di remare controcorrente, tenendo l’attenzione allo spicchio di cielo oltre il filo spinato dove c’è libertà e bellezza.

Per lei l’unica soluzione all’orrore che stavano vivendo era l’amore: l’amore fatto di azioni, di battaglie, di resistenza, a partire dalle trappole e dal marciume interno – diceva “Resistere è esistere”. “Non credo più che si possa fare qualcosa per migliorare il mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi”. “Il mio fare consisterà nell’essere”, nell’esserci in ogni momento, presente a se stessi, a ciò che accade intorno, e alle persone ci circondano. Per lei l’unica norma che abbiamo siamo noi stessi e l’unica responsabilità che abbiamo nella vita è la nostra, ma da assumersela pienamente. Si potrebbe dire, in altre parole in un’ottica della Gestalt, che stare in contatto chiedendosi cosa sento, cosa ne penso e cosa immagino/voglio, cosa faccio e cosa sento dopo averlo fatto, sia un modo per restare in contatto con l’esperienza e per scegliere,  in ogni momento, che posto occupare rispetto al contesto, all’insieme della realtà dove mi trovo.

Come Simone Weil parla della necessità di sradicarsi da se stessi per incontrare una radice più profonda del bene, per Esther Hillesum si tratta di raccogliersi in se stessi, per riconoscere in noi ciò che vediamo di male negli altri, per riappropriarcene, per farci i conti, “per avere il coraggio di abbandonare tutto, ogni norma e appiglio convenzionale e osare il gran salto nel cosmo, allora sì che la vita diventa infinitamente ricca e abbondante anche nei suoi profondi dolori.”

Restituzione e confluenza in Gestalt

Le parole di Esther Hillesum, il suo richiamo al contatto profondo con il mondo interno, che implica desiderare trascendere se stessi, osare il salto, in Gestalt si potrebbero avvicinare fenomenologicamente al fare esperienza del contatto, con ciò che ci accade intorno e con noi stessi. Una presenza a se stessi, che spesso evitiamo attraverso vari automatismi, come la proiezione, la retroflessione, l’introiezione, la deflessione e la confluenza. La confluenza sembra apparentemente il contrario di una mancanza di contatto, ma il non riconoscere i confini, diventa un’opportunità di contatto mancata. Come dice Paolo Quattrini in L’effetto che fa (2021), per riconoscere i propri confini bisogna constatare e ratificare le differenze; se non sono previste possibili differenze di sensazioni, emozioni e valutazioni tra due persone, nell’incontro con l’altro, l’individualità dell’uno deve soccombere all’altro pur di salvare la fusione.

Sguazzare

nell’intimità

come

un passerotto in una pozza.

Paolo Quattrini (2023)

Nel mondo psichico, le zone fuse sono rappresentate da situazioni accettate senza dare feed-back, senza manifestare la propria reazione, o senza almeno rendersene conto.

Chiaramente dare feed-back non sempre è possibile, specie in situazioni di oppressione fisica e psicologica, dove l’incolumità personale è fortemente minacciata. Per questo l’arma della violenza e del terrore ha sempre rappresentato uno strumento potente di annichilimento delle coscienze in qualunque contesto.

La restituzione, come la propone Paolo Quattrini, è fare qualcosa in relazione a qualcosa che hai percepito. La percezione essendo un processo creativo attivo, è tale solo se viene restituita, se dici o fai quello che percepisci. La percezione implica restituzione all’esterno e a se stessi. La restituzione la si può vedere come via di risveglio interiore, come resistenza che permette l’esistenza soggettiva, in qualunque situazione della vita. Hillesum diceva: “Non si tratta di tenersi fuori da una determinata situazione costi quel che costi, ma di come ci si comporta e si continua a vivere in qualunque situazione”.

Quello che si può constatare è che questa tendenza alla confluenza nel mondo interno e un’indolente resistenza a restituire, accade negli esseri umani, anche in situazioni dove il pericolo è di portata infinitesimale, rispetto agli scenari di orrore evocati.

Isolamento, Estraniamento, Solitudine

Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo (1951), parla della differenza tra l’isolamento (isolation), l’estraniamento (loneliness) e la solitudine (solitude).

L’isolamento ha a che fare con una condizione in cui i contatti con gli individui sono spezzati, l’essere umano è psicologicamente isolato dagli altri e questo incide sulla capacità di organizzarsi in azioni, di fare gruppo. In questa condizione l’uomo può continuare a essere creativo internamente come isola; il mondo esterno per quanto non raggiungibile rimane presente nel suo orizzonte come “capacità di aggiungere qualcosa di proprio al mondo comune”.

L’estraniamento (loneliness) è per la Arendt collegato allo sradicamento del non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri. È una estraniazione di sé, che per la Arendt, per quanto dolorosa, è “una delle esperienze basilari della vita di ognuno”, per formarsi bisogna necessariamente fare i conti con una certa condizione di abbandono, di emarginazione da parte degli altri. Nell’estraniamento si perde se stessi e gli altri, il senso di ciò che si ha in comune con il mondo, non si aggiunge qualcosa di proprio al mondo comune, anche se si continua ad esserci immersi. 

Ciò che fa passare dall’estraniamento alla solitudine è il concretizzarsi di un atto creativo di restituzione.

Nella solitudine per Arendt “io sono con me stessa, perciò due in uno”, sono in un dialogo con me stessa e con gli altri personaggi che mi popolano. Nella solitudine il dialogo con se stessi è creativo e sta in relazione con il mondo esterno, attraverso l’intenzione di cambiarlo; la ricerca di distanza dagli altri non è indifferenza, ma necessaria a stabilire un contatto con le differenze.

In psicoterapia della Gestalt si accompagna la persona in un passaggio di relazione con il suo mondo interno, dalla tirannia alla democrazia, per incarnarsi come essere umano più libero. Sottrarsi alla omologazione e al farsi massa richiede di smettere di uniformarsi, di riconoscere i mandati interiorizzati, le obbedienze alle aspettative esterne, le zone cieche interne dove non ci si chiede e non si risponde, non si restituisce niente. 

Hannah Arendt riconosceva che l’estraniazione ha un accrescimento nei regimi totalitari, che infatti usano l’isolamento come strumento di potere. Il terrore dei regimi tirannici può imporsi in modo pesante su persone isolate, che non possono organizzarsi per azioni comuni, a cui cioè viene distrutta la sfera politica, ma soprattutto che sono estraniate da se stesse. 

Arendt osserva, che se la persona riesce a ritrovare “il dialogo della solitudine”, tornando a parlare con sé e ad essere popolata internamente, può essere libera e salvarsi anche dalla disperazione e dalla follia, alludendo a ciò che accadde a molti, nei campi di concentramento. 

La solitudine diventa una condizione per trovare un modo diverso e più ricco di comunicare, per creare nuovi e diversi legami, per non omologarsi all’assetto sociale, per coltivare una tensione etica e il desiderio di cambiare il mondo. 

Il filo di ritorno dalla desolazione interna pare essere, per tutte queste pensatrici, la ricerca di una relazione con se stessi che trascenda io e includa un senso di benevolenza verso altri esseri umani, in un orizzonte di bene comune più grande della cerchia conosciuta. L’invito che ci fanno è ad aprirci ad una dimensione invisibile del bene, più visionaria, che va oltre i confini della materia concreta; come sarebbe piantare un bosco di alberi per le generazioni future e godere della bellezza di cui i nostri occhi sicuramente non avranno alcuna vista. 

Hanna Arendt fa riferimento con questo tema delle tre solitudini a un racconto di Kafka, intitolato “L’uomo della folla”, e anche nome del personaggio che come un naufrago si mescola alla massa, per non sentire il grido silenzioso del suo mondo interno.

Stabilire una relazione densa e curiosi con se stessi implica seguire le proprie passioni, non tradirsi, perché il prezzo che si paga è molto alto in termini sociali e individuali, come la perdita di senso, assenza emotiva e adesione a un ordine sociale a cui si finisce per partecipare sperando in una felicità senza intenzioni.

In terapia della Gestalt il terapeuta aiuta la persona a trovare fiducia per incontrare questa solitudine, questo incontro con se stesso da cui tanto rifugge e che per avvenire ha bisogno paradossalmente di una presenza benevola che offra uno sguardo di fiducia e di riconoscimento della unicità e del valore personale. Si può trovare la solitudine in presenza di qualcuno che metaforicamente ti tiene per mano. Come diceva la Weil lo sradicamento da fuori, impedisce di compiere questo sradicamento da dentro, come rimanesse una ricerca aperta. Nello sviluppo del mondo interno lo psicoanalista D. Winnicott osservava come bambini che non hanno visto restituito ciò che essi davano, attraverso la funzione specchio della madre, uno sguardo che permette di riconoscersi come essere amabile, fanno molta fatica a desiderare l’incontro con se stessi con fiducia e coraggio, invece di paura e disprezzo.

Winnicott in Gioco e realtà (1971): “Molti lattanti devono avere una lunga esperienza di non vedersi restituito ciò che essi danno. Guardano e non si vedono. Ne derivano conseguenze. Prima di tutto la loro capacità creativa comincia ad atrofizzarsi, ed in una maniera o nell’altra guardano intorno cercando altri modi di riavere qualcosa di sé dall’ambiente…  in secondo luogo, il bambino si abitua all’idea che quando guarda, ciò che vede è la faccia della madre. In tal caso la faccia della madre non è uno specchio. Così la percezione prende il posto di ciò che avrebbe potuto essere l’inizio di uno scambio significativo…”

Per Hannah Arendt, il tema esistenziale della ricomposizione, a partire dalle esperienze frammentate e discontinue dell’esistenza come tra pensiero e azione, è una lotta da condurre in molti modi contro tutte le correnti che ci bloccano nell’immobilità, nel mutismo e nell’apatia.

Per la studiosa il pensiero, come ne parla in Responsabilità e giudizio (2010) è il silenzioso dialogo con se stessi, è il tornare a casa per esaminare le cose. “Il pensiero -ci dice- non è una prerogativa di pochi, ma una facoltà onnipresente in ognuno di noi, come l’incapacità di pensare non è la “prerogativa” di chi manca di cervello, ma la possibilità sempre latente in ognuno di noi – inclusi scienziati, studiosi e altri specialisti in imprese intellettuali – di mancare l’appuntamento con se stessi, di cui Socrate è stato il primo a scoprire la possibilità e l’importanza”.

“La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza, è la capacità di distinguere il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto. E ciò, davvero, può evitare la catastrofe, almeno per me stessa, nei rari momenti in cui le cose vanno a rotoli.”

Edith Stein

Ma io resto in Te

(…)

Grave d’amore, puntelli il mio corpo di sguardi
tendi l’orecchio ai miei sussurri
mareggiata di pace nel mio cuore.

Ma il tuo amore è insoddisfatto:
patto prodigo di distacco
il tuo cuore è a caccia, mi vuole.

Vieni a me ogni mattina, mi sei pasto.
Sangue e carne tua, cibo mio –
ed è un miracolo:

il tuo corpo mi invade
anima annodata all’anima
e non sono più ciò che ero.

Mi invadi e scompari, ma il seme
che hai seminato per la futura gloria
resta sepolto in questo corpo di niente.

Nell’anima, una scheggia di cielo
negli occhi, frantume di tuono
e la voce si impenna.

Hai intrappolato tra le corde
il mio cuore, la mia vita sgorga
dalla tua, animi ogni mio arto.

Meraviglia della tua grazia: non posso
che annientarmi in un balbettio –
ragione e verbo sono ormai inutili:

e resto in Te.

Edith Stein, filosofa e mistica tedesca, nata da una famiglia di ebrei, si dichiarò atea intorno ai 16 anni e poi si convertì al cristianesimo diventando monaca. Morì ad Auschwitz, il 9 agosto 1942. Allieva e assistente di Husserl, non potendo nella Germania degli anni ’20 in quanto donna, assumere l’insegnamento universitario, scelse di insegnare al liceo.  Ha dedicato l’intera esistenza alla fenomenologia, alla scoperta dell’altro, mettendo in pratica per tutta la sua vita questo punto di vista, coniugando lo studio, con il lavoro sociale, la spiritualità con il lavoro intellettuale, la psicologia e l’impegno politico di cambiamento, come il suo impegno nel promuovere il ruolo della donna nella società e nella Chiesa; convinta che la vita interiore e la vita sociale nel mondo dovessero completarsi. L’empatia (Einfühlung) per la Stein è riconoscere che il nostro mondo è abitato da un altro essere diverso da noi.

Con il suo studio e pratica dell’empatia, pone al centro dell’attenzione un tema sempre attuale nella convivenza tra gli esseri umani, su come gestire l’incontro/conflitto con l’altro, come affrontare tutte le situazioni che la vita in comune continuamente fanno affiorare: conflitti, guerre, oppressioni, non riconoscimento delle differenze, discriminazioni, sopraffazioni, gioie e dolori. Edith Stein rimanda la sua entrata in convento, dopo il battesimo, per rimanere a servizio della comunità come filosofa conosciuta e affermata, capace di risvegliare la consapevolezza delle persone con le sue conferenze e i suoi scritti.

Ci pone davanti l’evidenza che nell’incontro tra esseri umani si scopre l’inconsistenza dell’idea di una soggettività assoluta.

Nell’incontro con l’altro ci accorgiamo di essere altro dall’angusta gabbia entro cui in genere ci identifichiamo.

Edith Stein parla dell’accadere di un atto empatico come di un “rendersi conto, di un osservare, accorgersi di qualcosa che “affiorando d’un colpo davanti a me, mi si contrappone come oggetto (come le sofferenze che ‘leggo sul viso dell’altro’)” (Stein, 1986).

Quindi l’esperienza dell’altro non è qualcosa di comprensibile per via razionale, ma si presenta nella forma dell’accadere della rottura della continuità della mia esperienza (Giuliana Masari, 2007).

Edith Stein sostiene in modo radicale che l’essere umano, avendo una struttura relazionale, si costituisce attraverso l’esperienza dell’alterità, cioè si costituisce attraverso l’empatia; l’incontro con l’altro porta a ridefinire continuamente il proprio vissuto. L’empatia, come afferma Laura Boella, filosofa, grande studiosa di Edith Stein, è una svolta esistenziale, un cambiamento di rotta, mette di fronte al fatto che l’esperienza vissuta non contiene soltanto ciò che l’io produce e controlla, ma apre a nuove emozioni, pensieri, desideri e nuove possibilità di agire. Praticare l’empatia porta a fare esperienza di qualcosa di sconosciuto e inaccessibile e che richiede un’apertura di io oltre i confini della propria immagine conosciuta. L’empatia, come contatto, fa paura, mette in crisi e se si regge l’ansia di questo allargamento e rottura dei propri confini, ci si apre ad uscire dalla propria gabbia.

L’atto empatico permette nuovi inizi della vita quotidiana, permette un risveglio del senso dell’esistenza, e la possibilità di trasformazione nella propria vita.

Nell’empatia non ci immedesima, non ci identifica con l’altro, che è ciò che la Stein chiama Unipatia, non c’è un noi, ma ci sono due soggetti distinti che, proprio nella relazione empatica, si costituiscono soggettivamente.

Edith Stein considerava l’empatia un atto paradossale, dove proprio ciò che non abbiamo vissuto o che non farà parte della nostra vita, diventa parte dell’esperienza più intima possibile, che è il “sentire insieme” (Boella e Buttarelli, 2000).

In questo frammento del suo libro L’empatia (1986), la Stein ne chiarisce il significato: Io incontro il dolore direttamente nel luogo in cui è al suo posto, presso l’altro, l’altra che lo prova, magari lo esprime nei tratti del volto o lo comunica in altri modi. Non mi abbandono in lei o in lui né proietto o trasferisco le mie qualità̀. Empatia è un’esperienza specifica, non una conoscenza più̀ o meno probabile o congetturale del vissuto altrui. Empatia è acquisizione emotiva della realtà̀ del sentire altrui: si rende così evidente che esiste altro e si rende evidente a me stessa che anch’io sono altra. Empatia è allora amore per la sua struttura, è il viversi in relazione.

Per Stein, quando le persone si chiudono nella propria prigione, il rapporto con l’altro diventa enigmatico, oppure assume la forma di una continua proiezione sull’altro di immagini personali che non ci fanno incontrare né l’altro, né noi stessi oltre la nostra prigione.

Come dice Laura Boella, l’empatia ha bisogno di essere praticata, non accade per caso e non sempre riesce, ma va praticata, sperimentata, cercata.

La studiosa mette in luce la portata creativa dell’empatia, come esperienza sempre incompiuta, che coinvolge il corpo e la mente e coinvolge i rischi e la fatica delle relazioni con gli altri. L’empatia va scoperta, vanno scoperti gli altri. Questi altri sono differenti, spesso così distanti da noi da tanti punti di vista, che la paura spesso prevale, se non la si chiama con il suo nome, come ben ci dice l’avvocatessa per i diritti umani Alessandra Ballerini, nel suo libro “Fifa nera, fifa blu”, per grandi e piccini e in altri suoi scritti pubblicati.

Edith Stein sosteneva che empatia e fede non fossero la stessa cosa, ma che l’empatia aiutasse a incontrare tracce e orme che potevano avvicinare all’esperienza della fede. Non smise di dedicarsi alla filosofia dopo la conversione al cristianesimo, anzi la sua pratica di ricerca e il desiderio di condividere con le persone quanto scopriva aumentarono. Come secondo le parole di Agostino: «dobbiamo cercarlo [Dio] per trovarlo, e dobbiamo continuare a cercarlo anche quando lo abbiamo trovato. Cerchiamolo per trovarlo, perché́ egli è nascosto; cerchiamolo anche quando lo abbiamo trovato, perché́ è immenso». 

Dal punto di vista della Gestalt a orientamento fenomenologico esistenziale, Paolo Quattrini sostiene che “Accettare la pluralità interna è la fine di un sogno! Il sogno di io io io io”.

“Uno e trino è un’intuizione pazzesca dei cristiani – Dio è il padre, il figlio e lo spirito santo, cioè è la relazione, il contatto; perché è il contatto che vola tra due persone – è un’intuizione pazzesca!”

Cuori pensanti e passione della storia

Queste due espressioni, così come proposte nel libro di Laura Boella e come punto di vista con cui guardare alla relazione di aiuto con se stessi e con gli altri in Gestalt, non portano a sentimentalismi, né a ricette di verità e risoluzioni delle contraddizioni del vivere, ma al contrario, invitano ad assumere come tali le contraddizioni della nostra vita, dei nostri drammi e di quelli del mondo in cui viviamo. Tutte queste pensatrici invitano a non rimanere intrappolati in una vita emotiva interiore che si guarda allo specchio, gabbia e isolamento, ma a esercitare un’intenzione e attenzione verso bellezza, bontà, verità, che tende all’amore, come diceva Hannah Arendt, non alludendo a quello romantico sognato, ma a quello del piacere dell’amicizia, dello scambio, del dialogo nella realtà che viviamo, come esseri umani del nostro tempo. “Tutte le volte che mi mostrai pronta ad accettarle, le prove si cambiarono in bellezza” Esther Hillesum.

Grazie a tutte le amiche e amici, colleghe e colleghi che mi hanno aiutato ad aprire nuovi orizzonti nel buio dell’ignoranza, a trovare coraggio e hanno contribuito a realizzare l’incontro corale in plenaria presentato durante “Arte e Solitudine”- Festival di Arte e Gestalt, a Settignano, Firenze il 3-4-5 Novembre 2023: Cecilia Gallia, Alessandra Bedino, Titta Nesti, Alice Toccacieli, Daniele Benedetti, Catarina Camara, Shobha Arturi, Giusi Valenti, Fabio Pierini, Stefano Pericoli, Pierluca Santoro, Paolo Quattrini.

Bibliografia

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Boella L., “Cuori pensanti con Laura Boella – Un’etica per il futuro 2021 “

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Boella L., “Quale empatia nella società dominata dalla paura?”, Dialoghi di Pistoia, 2018,  https://www.youtube.com/watch?v=tZzzKeVceSw 

Boella L. e Buttarelli A., “Per amore di altro”, Raffaello Cortina editore, 2000

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Winnicott D., “Gioco e realtà”, Armando editore, 1971

Please cite this article as: Valentina Barlacchi (2023) Voci per la democrazia. Dagli eroi a una collettività di cuori pensanti. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/numero-47/voci-per-la-democrazia-dagli-eroi-a-una-collettivita-di-cuori-pensanti/

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