L’esperienza dell’isolamento nella psicopatologia grave
Giuseppe Caserta – Psicologo Analista Psicoterapeuta
Pubblicato sul numero 47 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Abstract: L’isolamento è una delle condizioni esistenziali di maggior sofferenza per l’essere umano, che non è mai frutto di una scelta consapevole, come lo star da soli, ma che spesso deriva da pressioni sociali insostenibili o, come nel caso delle gravi psicopatologie, dal disperato tentativo di proteggersi da un Altro visto come fagocitante. Lo scopo dello scritto è riflettere sulla condizione esistenziale dell’isolamento negli stati di grave sofferenza psichica sottolineando le possibilità insite in psicoterapia nell’accesso alla simbolizzazione di tali vissuti, piuttosto che al viverli nella loro nuda concretezza.
Parole chiave: Solitudine, isolamento, psicosi, Altro, non esistenza, simbiosi/separazione.
L’essere umano è un animale sociale: per la nostra stessa natura, non possiamo prescindere dal formare gruppi più o meno estesi al fine non solo di garantirci la sopravvivenza, ma anche di poter sperimentare quotidianamente le possibilità esistenziali insite in ognuno di noi. Come infatti Jung (1946) sottolinea, il processo d’individuazione, ovvero il contatto con il nostro Sé, la nostra parte più autentica e profonda, non può avvenire soltanto internamente all’individuo, ma ha necessariamente un aspetto di relazione con l’Altro. Che si tratti dunque della nostra cerchia ristretta o della collettività in generale, nessuno di noi può fare a meno di relazionarsi con coloro che lo circondano non solo al fine di sviluppare le proprie relazioni, ma anche per contattare la propria parte più intima e percorrere il sentiero che porta a “fare anima”, per dirla con Hillman (2008), in altre parole a tramutare i fatti in esperienze. Quando penso a come gli esseri umani sono intimamente legati tra di loro e a come questo costituisca l’ossatura stessa della vita psichica umana, mi viene sempre in mente un aneddoto – a cavallo tra storia e leggenda – riguardante Margareth Mead, la famosa antropologa. Si racconta che durante una lezione le fu chiesto dai suoi studenti quale fosse il segno incontrovertibile di civiltà in una cultura preistorica e lei, stupendo tutti, non parlò di pitture rupestri o di monili ornamentali ma citò senza alcun dubbio il segno di una frattura di femore ricomposta in qualsiasi scheletro. Quando le fu chiesto di spiegarsi meglio, la Mead sottolineò come per guarire da una frattura così grave e invalidante, da compromettere persino la deambulazione, fosse assolutamente necessaria l’assistenza di almeno un altro individuo per un lungo periodo di tempo. Questo a suo dire implicava l’esistenza di una comunità e quindi di una cultura che teneva legati gli individui tra loro. Quale che sia l’attendibilità di questo racconto, credo sottolinei una cosa molto importante: la cultura è generata dall’aggregazione di individui, ed essa crea dei simboli che ci servono per garantire la coesione sociale (Harari, 2019). Naturalmente, da un punto di vista psicoanalitico non possiamo accontentarci di una spiegazione così riduttiva – sebbene corretta – poiché dobbiamo necessariamente considerare la funzione del simbolico come il tentativo di rappresentare contenuti mentali al di là del linguaggio concreto, per permetterci non solo di farli risuonare in noi, ma anche di poter rendere partecipi gli altri della nostra esperienza interiore. Come si può vedere, quindi, l’aspetto relazionale è parte irrinunciabile del nostro essere umani: persino nell’utero noi abbiamo una vita relazionale, sia con nostra madre sia con l’eventuale gemello presente accanto a noi (Winnicott, 1958), ne consegue quindi che vi è all’interno del nostro codice genetico una predisposizione alla relazionalità, un innato schema che ad esempio ci spinge a identificare come positive le situazioni di contenimento (Knox, 2007). Insomma, per dirla junghianamente, noi siamo archetipicamente predisposti alla relazione.
Come spiegare allora tutti quei fenomeni umani nei quali vi sono gruppi o individui che scelgono volontariamente di isolarsi dalla comunità per vivere, ad esempio, in pienezza la loro fede o per riflettere sui grandi temi esistenziali senza il rumore di fondo della quotidianità? In caso di individui che formano un gruppo separato dagli altri (come nel caso delle sette, delle comuni o degli ordini monastici) non c’è molto da aggiungere rispetto a quanto detto: la socialità, seppur in scala ridotta, è preservata, anche in caso di fenomeni quali i monasteri di clausura, dove la separazione netta è col mondo esterno, ma non con i confratelli o le consorelle. Resta però ancora la domanda aperta su come coloro che si separano volontariamente dal mondo, ad esempio per diventare eremiti, possano compensare il loro bisogno di relazione. Benedetti (1997) sottolinea come l’eremita, pur essendo solo, sia in costante relazione col sacro, quindi comunque collegato ad un Essere che lui ritiene superiore e col quale ha un rapporto: perciò esso è contemporaneamente collegato con l’Umanità, tramite il vincolo d’amore che unisce le creature al Creatore.
Questa premessa mi serviva per introdurre il presupposto fondamentale sul quale andrò a basare l’articolo, in altre parole la sostanziale differenza tra lo stare soli e l’essere soli. La solitudine non è necessariamente l’isolamento: nello stare soli, si evince la condizione esistenziale temporanea di questo stato, che anzi a volte diventa una necessità in momenti di crisi o durante un processo decisionale difficile, tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo sentito qualche conoscente o il nostro partner chiederci di essere lasciati soli per un po’. Magari ne abbiamo intuito il disagio, o il bisogno di concentrazione o raccoglimento, ma difficilmente abbiamo mai pensato che quella persona fosse isolata dai suoi affetti. Lo stare soli, come dice Seneca, a volte serve a ritornare nel mondo con maggiore calma rispetto a quando ci si è ritirati, e quindi è una risorsa importante per la psiche.
Diversa cosa è tuttavia l’isolamento: se la solitudine si configura come una scelta del singolo o del gruppo, l’isolamento è una condizione imposta dall’esterno, che spesso marginalizza l’individuo costringendolo a un’esclusione dalla comunità di appartenenza. Se guardiamo all’etimologia stessa della parola, notiamo che essa ha una similitudine marcata con il latino insula, cioè isola. Come tutti sappiamo, la caratteristica principale delle isole è di essere completamente circondate dall’acqua, irrimediabilmente separate dalla terraferma a meno di un intervento da parte dell’uomo. Credo sia un’immagine che rende molto bene la condizione esistenziale di chi è isolato: la dolorosissima separazione dagli altri, il richiudersi in se stesso, spesso proprio a seguito della pressione del gruppo di appartenenza. Già nell’antica Atene, infatti, una delle punizioni più temute era il cosiddetto ostracismo, che consisteva nella messa al bando di un cittadino tramite votazione segreta, al fine di impedire la tirannia. L’esilio è dunque una sanzione molto antica, come si evince dalla sofferenza di tutti i cittadini di Roma allontanati dall’Urbe dopo le guerre civili, oppure nel mesto ritiro degli Imperatori d’Oriente nei monasteri dopo la loro deposizione da parte del pretendente di turno.
Privazione della socialità come punizione, isolamento in carcere per punire i più agitati tra i detenuti. A questo punto viene da chiedersi, l’esilio è solo volontà altrui? Se prima abbiamo detto che lo star soli è una scelta, e l’isolamento no, ai fini del nostro discorso dobbiamo inserire una terza via, quella dell’isolamento non come costrizione ma come non-scelta, come unica possibilità esistenziale rimasta, che obbliga l’individuo all’allontanamento, alla chiusura, pena la perdita dell’esistenza. Uno dei fenomeni maggiormente studiati negli ultimi periodi, quello degli Hikikomori, fa di questo isolamento una precisa scelta al fine di sottrarsi alle enormi pressioni sociali percepite dall’ambiente: ci si ritira nella propria stanza non per una psicopatologia, non perché si è “depressi”, ma come ultimo atto di ribellione verso un mondo percepito come freddo, giudicante e ostile (Crepaldi, 2019). Questo naturalmente può aprire la porta a varie forme di disagio, anche clinicamente rilevanti, ma è in definitiva una difesa, più che una psicopatologia, un tentativo forse di arginare quella che Recalcati (2019) definisce la tirannia dell’Oggetto iper – presente, che va difeso tramite la costruzione di muri e l’isolamento, poiché il solo pensiero della sua assenza potrebbe aprire le porte alla perdita della propria immagine. Isolamento quindi come fortezza di malinconia che protegge un Oggetto che non deve sparire, pena l’annichilimento.
“Nelle nuove melanconie – egli afferma – c’è […] un’inclinazione a ritirarsi dalla precarietà e dall’ingovernabilità della vita, a ridurre al minimo le tensioni interne dell’apparato psichico, alla chiusura securitaria. […] Nelle nuove melanconie emerge una adesione interna nei confronti di un oggetto sempre presente tenuto ad agire come una sorta di supporto “iper- anaclitico” che penalizza l’emergenza del desiderio del soggetto. […] Le nuove melanconie vivono l’assenza dell’oggetto come insopportabile, impossibile da elaborare, incollandosi alla presenza di un oggetto che ripara il soggetto dal rischio di perdita sottraendolo all’esperienza dell’assenza”. (2019, pag. 2)
Si intuisce così come il problema dell’isolamento nei disturbi gravi sia essenzialmente legato a un modo per proteggersi dall’Altro, un Altro esterno reale che rischia di diventare prevaricante, concreto fino all’insostenibile, di far smarrire o portare alla follia, come se si contemplasse direttamente il volto di Dio. Legandosi a doppio filo a un oggetto iper – anaclitico interno, si può evitare il trauma dell’assenza, anche se ciò che questa manovra chiede in cambio è una fetta di vita, un’amputazione psichica dolorosissima e spesso irreversibile, ma che per un adolescente o giovane adulto schiacciato dalle pressioni sociali può diventare paradossalmente un intervento necessario per rimuovere una cancrena psichica che rischia di uccidere.
In alcuni casi, tuttavia, anche la presenza di un Io, la propria stessa esistenza, è messa in discussione dalla patologia: è il caso delle psicosi, e su tutte della psicosi schizofrenica in tutte le sue varianti.
In questa estrema forma di malessere psichico, è il vissuto stesso di non esistenza, la condizione di incertezza e di profonda angoscia esistenziale riguardante il dilemma sulla realtà della propria stessa vita, a farla da padrona. Da qui, tutte le manifestazioni che possiamo osservare nella clinica – deliri, allucinazioni, pensiero bizzarro, neologismi etc. – altro non sarebbero che disperati tentativi di dare un senso a una realtà che non ne ha, di percepire una qualsiasi forma di esistenza, grottesca e dolorosa ma pur sempre migliore dell’orrido vuoto in cui il paziente si sente precipitare. Gaetano Benedetti (1980) nella sua elaborazione della metodologia di terapia delle psicosi, faceva notare come la condizione di perdita della propria egoicità da parte del paziente psicotico sarebbe di gran lunga la peggiore condizione esistenziale possibile per un individuo, di fronte alla quale il paziente, pur di non scomparire anche a se stesso, potrebbe portare rischiare di vivere quella che lui definiva una “Esistenza a prestito”, ovvero il tentativo di sentirsi esistere soltanto attraverso le parole, le immagini e i pensieri che gli altri hanno di lui.
Questa condizione, anche se preferibile al non – esserci, è tuttavia devastante poiché il paziente psicotico è allora obbligato, per esistere, a essere ciò che gli altri vogliano che sia. Potendo vivere solo se l’Altro glielo permette attraverso l’interazione, il pericolo è di scomparire letteralmente se qualcuno lo dimentica, di dover essere odiosi e aggressivi se l’altro li percepisce come tali, persino di essere costretti ad amare se amati, anche contro la propria volontà. Insomma, la persona con psicosi si sente “costretto” ad assumere la realtà dell’altro come se fosse la propria, nel disperato tentativo di percepirsi. Ne consegue che ciò porta a un annullamento completo della volontà e della facoltà di decidere, trasformando la vita del paziente in una sorta di assurda, eterna commedia. Ed è qui che l’isolamento entra in scena: lo psicotico crea internamente una “Barriera Autistica”, una sorta di schermo che lo conduce a un isolamento forzato ma necessario, facendo sì che l’altro sia visto come un oggetto lontano e distante, in modo da proteggersi.
Per comprendere appieno i meccanismi che portano il paziente grave a mettere in atto tali estremi meccanismi di difesa, bisogna necessariamente partire dall’idea che l’Io psicotico sia un’istanza estremamente fragile e frammentata: se come sostiene Jung (1958) quest’ultimo viene travolto dai contenuti dell’Inconscio collettivo e quindi reso assolutamente incapace di far fronte alla gigantesca mole di elementi Beta (Bion, 1972) che emergono dal suo profondo senza la possibilità di venire mediati da un simbolo, non ci si stupisce che una delle possibili alternative alla fuga nella mania o nel delirio sia l’isolarsi autisticamente. I contenuti iperconcreti che emergono, o per dirla con Lacan (1955) la Cosa che non contempla in alcun modo la possibilità di assenza, pongono la persona con psicosi di fronte a un rischio concreto di essere fagocitato e assimilato da questo Altro, tutto a causa della mancanza di capacità di simbolizzazione, che renderebbe di fatto possibile il pensare da una distanza interna sana ciò che prima travolgeva. I Simboli, infatti, servono proprio a significare un’esperienza numinosa (Otto, 2009) ovvero un tipo di esperienza che travolge l’Io, come può essere quella mistica, o per l’appunto una psicosi, garantendo una protezione che metta al riparo dalla fortissima carica insita nelle rappresentazioni arcaiche che investono il soggetto.
L’Io di questi pazienti a causa di questo iperinvestimento diventa sia assolutamente permeabile al mondo esterno – con il rischio di dissoluzione in esso – sia contemporaneamente opaco a esso al fine di circoscrivere al suo interno le aree di morte che caratterizzano tale condizione: una condizione di “dissolvente vicinanza e separazione murata” (Benedetti 1980 pag.131) che spersonalizza, e spinge a provare quel cronico sentimento di vuoto esistenziale che scatena una profonda angoscia di perdita dei propri confini, preda proprio di quelle aree di morte che invano il paziente cerca di circoscrivere.
Che cosa sono queste aree?
In definitiva, sono dei buchi esistenziali nella trama, una sorta di Terre Gaste –o Terra Desolata – all’interno dell’Inconscio, simile a quella che prima Perceval e poi Galahad incontrano nel loro viaggio attraverso il regno del Re Pescatore. Se il mito è una delle più sublimi metafore della condizione umana, allora ritengo sia utile in questo scritto allargare la prospettiva sull’isolamento portando una prospettiva mitologica nella clinica: come ci ricorda, infatti, Hillman, (2008), il lavoro terapeutico può coinvolgere l’interpretazione e l’esplorazione delle immagini che emergono nel mondo immaginale, in quel territorio psichico ricco di simboli, miti e immagini che svolgono un ruolo fondamentale nella formazione dell’identità e nell’elaborazione delle esperienze interiori. Attraverso la relazione con queste immagini, incluse quelle religiose, del mito e delle leggende, si può accedere a livelli più profondi della psiche e lavorare sulle dinamiche interiori che influenzano la nostra vita e il nostro benessere. Ritengo quindi che la leggenda del Re Pescatore – presente nell’epopea della Cerca del Graal del ciclo Arturiano – possa offrire una feconda metafora per simbolizzare quelle aree di morte che sfuggono alla rappresentazione e che costringono il paziente grave ad arroccarsi all’interno dei suoi confini malmessi. La Terra Desolata, infatti, è una terra dove non cresce più nulla, dove gli alberi non danno frutto, gli animali non procreano e persino le donne non partoriscono. Rinchiuso in un castello al centro di questo devastato paese Amfortas, il Re Pescatore, si nasconde agli occhi del mondo, ferito da un colpo di lancia all’inguine e impossibilitato a guarire: la sua sofferenza e la stessa natura della sua ferita – causata da un antico scontro e che va a ledere la capacità di generare del Re – sono causa della maledizione che affligge il paese, rendendolo di fatto sterile.
Come nella leggenda, anche nei disturbi gravi di personalità e nelle psicosi vi è un’antica ferita che è la causa di tutto ciò che poi si può fenomenologicamente osservare. Questa antica ferita a volte è un singolo, gravissimo episodio – come una violenza, o un lutto così grave da essere non pensabile per via del troppo dolore – ma più spesso è una serie di eventi concatenati che ruotano attorno a un tema centrale, come nel caso dei disturbi relativi alla relazione con figure d’attaccamento. Clara Mucci (2020) parla dell’estrema importanza dell’accudimento e della sana regolazione emotiva tra bambino e caregiver nei primi due/tre anni di vita, al fine di evitare quello che lei definisce delle massicce proiezioni negative del Sé sul corpo, che possono portare a vissuti dissociativi che sono poi la base sulla quale si sviluppa la drammatica scissione che incontriamo nei pazienti gravi. Tali vissuti, dovuti all’inadeguatezza delle cure e alla mancata sintonizzazione con i caregiver, possono avere effetti dirompenti sullo sviluppo del Sé.
Come può allora una struttura così fragile, forse neanche evolutasi completamente, difendersi da tali ferite? Kalsched (2014) riferendosi ai traumi precoci, ipotizza che si possano attivare delle difese archetipiche del Sé, in altre parole dei meccanismi estremamente primitivi che spingono l’individuo a dissociare pesantemente alcuni settori della sua psiche nel tentativo di preservare una parvenza d’integrità all’interno della struttura di personalità. Tali difese si concretizzerebbero nella presenza di quello che lui chiama il “Protettore/Persecutore”, ovvero di un complesso che da un lato tende a difendere l’individuo traumatizzato dal ripetersi della situazione traumatica, ma che dall’altro lo allontana drammaticamente da tutto ciò che è inerente all’esperienza vissuta, anche se facente parte del polo positivo. Per usare una metafora medica, sarebbe l’equivalente di amputare un intero braccio per contrastare la cancrena che affligge un dito: senza dubbio, il paziente sarebbe fuori pericolo, ma il prezzo da pagare in termini di autonomia, propriocezione e di vita emotiva sarebbe davvero sproporzionato anche guardando ai benefici derivanti dalla cura della cancrena. Usando questo modello, potremmo allora dire che il Protettore/Persecutore per non permettere ad esempio che all’adolescente sia inflitta un’altra umiliazione per via del rifiuto di una ragazza o per un esame non passato, lo spinga a chiudersi nella sua camera troncando di netto la sua vita sociale, o che per evitare che il paziente psicotico si perda drammaticamente nell’Altro, lo chiuda all’interno della Barriera Autistica teorizzata da Benedetti. Come si può facilmente intuire, ben presto il Protettore/Persecutore diventa un problema ben più grande del trauma originario, e il dialogo con lui all’interno di un percorso di psicoterapia assume un’importanza fondamentale, proprio al fine di quella ricerca di senso che sembra fondamentale, specie in condizioni penose come quelle descritte.
Vi è, infatti, un particolare importante all’interno della leggenda di Amfortas, che ha bisogno di essere menzionato, in quanto a mio avviso contiene quella speranza che è la condizione essenziale per ogni percorso di psicoterapia: il castello dove il Re ferito dimora nasconde un tesoro inestimabile, forse tra i più preziosi che l’Umanità abbia mai conosciuto, il Santo Graal, la coppa dove si narra sia stato raccolto il sangue di Cristo dopo la Crocifissione. Questo è il motivo che porta i Cavalieri di Artù a recarsi presso il maniero del Re Pescatore, ma solo chi alla fine porrà la domanda corretta riuscirà non solo a guarire il sovrano, ma a ricevere in premio il Calice. Allo stesso modo, per penetrare le strette maglie della Barriera Autistica bisogna porre le domande corrette: innanzitutto, come saggiamente Jung ricorda (Jaffè, 2023), è necessario porsi di fronte al paziente grave trattandolo come un essere umano normale, senza farci tentare da ardite interpretazioni o elucubrazioni sulla sua storia di vita o sulla sua condizione attuale, poiché la vera anamnesi si può costruire solo alla fine di un percorso, non all’inizio. Nell’avvicinarsi a esso è tuttavia necessaria non solo una sospensione del giudizio, ma anche e soprattutto una “intenzione d’amore” (Benedetti, 1980), in altre parole la disponibilità da parte del terapeuta ad accogliere senza riserva la sofferenza del paziente e a farsene carico, accettando di essere anche bersaglio dei tentativi di distruzione da parte della persona sofferente, il quale è assolutamente terrorizzato dalla possibilità esistenziale insita nell’altro essere umano che cerca un dialogo con lui. Spesso, infatti, accade, specie nelle psicosi, che le prime proiezioni che il paziente fa sul terapeuta siano di natura aggressiva, proprio per l’insostenibilità della presenza dell’altro e per l’assurdità di quell’intenzione d’amore che osa mettere in discussione quell’isolamento in cui si trovava una parvenza di conforto. E’ però proprio attraverso questa rabbia che dopo tanto tempo per la prima volta il paziente isolato inizia ad avere un rapporto reale con un altro essere umano: la stessa volontà di distruggere diventa quindi il viatico del ritorno al mondo, poiché essa si basa su una relazione reale, con un interlocutore reale che stavolta non reagirà con sdegno, nonostante tutti i tentativi del paziente di sembrare sgradevole, a volte anche con lo stesso corpo come nel caso dell’incuria. Il concetto di Psicopatologia Progressiva (Benedetti, 1980) indica proprio il trasformare la sofferenza stessa del paziente in un motore per la rinascita: l’odio per il mondo diventa l’odio per il terapeuta reale, le aree di morte diventano voglia che il terapeuta muoia, e da lì il complesso meccanismo esistenziale di oscillazione tra stati del Sé coeso e separato che caratterizza tutti noi (Peciccia, 2016) inizia il suo lento, complesso movimento riparatorio, poiché finalmente l’Altro, seppur odiato, può essere riconosciuto come esistente, e se esiste un Altro, che è un non me, allora la logica conseguenza è che anche un Io debba esistere, da qualche parte.
BIBLIOGRAFIA
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Crepaldi, Marco Hikikomori: i giovani che non escono di casa Alpes Italia, Roma 2019
Defilippi, A. E poiché io sono oscuro…: di Merlino, del Graal e di Carl Gustav Jung Moretti & Vitali, Bergamo 2023
Harari, Y. N. Sapiens: Da animali a dèi: breve storia dell’umanità Bompiani, Milano 2019
Hillman, J. Re-visione della psicologia Adelphi, Milano 2008
Jaffé, A. In dialogo con Carl Gustav Jung Bollati Boringhieri, Torino 2023
Jung, C. G. Psicologia della traslazione in Opere vol. XVI Bollati Boringhieri, Torino 2007 ed. orig. 1946
Jung, C. G. La schizofrenia: 1958; Il problema della psicogenesi nella malattia mentale: 1919 Psicogenesi della schizofrenia: 1939 Nuove considerazioni sulla schizofrenia: 1957-1959 Bollati Boringhieri, Torino 1977
Kalsched, D. E. Il mondo interiore del trauma: difese archetipiche dello spirito personale Moretti & Vitali, Bergamo 2014
Knox, J. Archetipo, attaccamento, analisi: la psicologia junghiana e la mente emergente Magi, Roma 2007
Lacan, J. Libro III: Le psicosi: 1955-1956 Einaudi, Torino 1985
Mucci, C. Corpi borderline. Regolazione affettiva e clinica dei disturbi di personalità Raffaello Cortina, Milano 2020
Otto, R. Il sacro SE, Milano 2009
Peciccia, M. I semi di Psiche: sogni, immagini, psicosi: una visione psicoanalitica evoluzionistica Fioriti, Roma 2016
Recalcati, M. Le nuove melanconie: destini del desiderio nel tempo ipermoderno Raffaello Cortina, Roma 2019
Seneca, I Dialoghi
Winnicott, D. Gioco e realtà Fabbri, Milano 2014 ed. orig. 1958
Sebbene questo aneddoto non sia bibliograficamente rintracciabile, è molto diffuso come comunicazione verbale e in rete. Tramite i motori di ricerca esso è di facile reperibilità. A scopo di esempio, se ne parla a questo link: https://www.huffingtonpost.it/archivio/2020/03/26/news/la_pratica_della_cura_come_segno_di_civilta_-5149303/
La letteratura, sia psicoanalitica che di altra natura, su tale argomento è vastissima. Per gli scopi di questo scritto, si è scelto di fare riferimento alle riflessioni e agli spunti contenuti nel libro di Defilippi, A. E poiché io sono oscuro…: di Merlino, del Graal e di Carl Gustav Jung edito da Moretti & Vitali.
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