La Gestalt e la gioia di vivere – La felicità all’altezza dei fili d’erba
Valentina Fortunati Barlacchi – Psicoterapeuta Direttrice didattica IGF
Pubblicato sul numero 44 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Ma cosa è la gioia di vivere, la joie de vivre?
Potrebbe avere a che fare con il sentirsi sicuri per il posto di lavoro, per la casa, per la famiglia, per il successo professionale e i riconoscimenti. Altrettanto facile è l’incrinarsi di queste soddisfazioni e il senso di inquietudine e di ansia si insinuano facilmente; fanno breccia dentro il castello fortificato dalle varie “assicurazioni contro gli infortuni” costruite nel corso del tempo, con molta ottemperanza e obbedienza a tutte le “regole” della propria storia di vita: da quelle famigliari, fino ai dettami sociali acquisiti e onorati.
Quando il vuoto di senso si affaccia nei comportamenti quotidiani di sopravvivenza e nei dialoghi vuoti, riappare dal fondo questa dimensione, come un drago sempre in agguato, che sputa fuoco sulle pratiche personali di ascolto, di consapevolezza, di terapia, di ricerca e coltivazione delle proprie passioni. A volte come principesse e prìncipi forti e fragili, ingenui e vulnerabili, stiamo davanti all’orizzonte del grande non sapere, che si offre tra noi e i nostri draghi che, come Rilke diceva, forse si presentano per aiutarci – “sono principesse che attendono solo di vederci una volta belli e coraggiosi”.
Lo sgretolarsi del senso della vita è un fronte d’onda inevitabile credo, ciclicamente e benedetto. Ogni volta che succede, mi chiedo dove sbaglio, cosa non ho fatto e avrei dovuto fare per evitare di ritrovarmi lì. Mi chiedo se è solo la mancanza di disciplina che fa perdere la messa a fuoco. Non lo so, ma un’altra voce interna sorride anche al non fare, al tempo della digestione, allo stare fermi un giro come nel gioco dell’oca.
Ascoltare questa voce, che viene dalla cultura della Gestalt, mi porta sollievo; parla con un respiro calmo e un orizzonte più ampio dove torna ad aleggiare il senso di mistero del vivere, che la via disciplinata esclude. Risento una chiamata all’erranza, annuncio di una nuova primavera, un’attrazione per il pellegrinaggio.
Camminando nella natura, tutte le stagioni dell’anno diventano colme di meraviglia, caldo e freddo della mattina diventano brezze o torpori portatori di luci trasparenti o opache, nell’aria che avvolge il mondo; le parole del poeta Bashō, dal suo racconto di viaggio nel Nord nel 1688, diventano esperienza: “I mesi e i giorni sono eterni viandanti, e così gli anni, che vanno e vengono, sono viaggiatori.(…)” Per chiunque “ogni giorno è viaggio, e il viaggio è la sua casa”.
Intraprendere erranza per andare dietro alla bellezza come valore, anche quando si è confusi, anche quando non si sa bene cosa e come farlo.
Nell’haiku della partenza Bashō canta l’ambivalenza e lo struggimento umano- “sono stato preso dalla brama di errare, invogliato da una nuvola sperduta sospinta dal vento”, e la tristezza di separarsi, di lasciare il conosciuto, con l’incertezza del ritorno.
“La primavera passa
Triste il canto degli uccelli,
negli occhi dei pesci, lacrime.”
(Bashō – La partenza)
“La vita è fugace come un sogno, come il crocevia d’addio dove abbiamo versato lacrime”: andare e lasciare andare per tornare nel fluire della vita, nel piacere di essere vivi e giocare un gioco serio ma sempre un gioco. “Ansioso di ammirare la luna a Matsushima, ho lasciato ad altri la mia casupola (…)”.
Per percepire il senso del mistero,
e seguire le tracce di mistero della vita, mi pare inevitabile arrendersi al sentirsi anche confusi, soli e tristi, quando alcune “certezze” come baluardo all’ignoto franano, oppure noi stessi scegliamo di andare a vedere oltre il muro.
È sempre difficile fare i conti con la confusione quando ci si è dentro; fidarsi che possa traghettarci su un’altra riva può sembrare impossibile. Spesso la confusione si scambia per una mancanza, come avere un elettroencefalogramma piatto; interrogandola, come un oracolo, si avrebbe a che fare con un tutto fuso insieme e non con una palude di nulla, che può risucchiare con la sua forza attrattiva da contagio, come accade al povero cavallo di Atreiu, nel libro La storia infinita.
L’esperienza dell’empatia è Il senso pregnante della psicoterapia, che aiuta a trasformare le paludi interiori; quando accade nella relazione tra terapeuta e paziente è come un mistero dell’invisibile, fonte di una grande gioia. Il terapeuta si allena a stare nel circolo ermeneutico di ascolto del mondo dell’altro, stando nei suoi panni e riconoscendo i propri, mentre sente l’effetto che gli fa il sentire dell’altro. Questo inspiegabile processo alchemico crea una sorta di oracolo, una sintesi tra Io-Tu imprevedibile, che non esisteva prima, che porta a intuizioni a volte bizzarre, a metafore che creano un altro mondo possibile, dove c’è posto per i tutti i diversi. Nel libro “L’effetto che fa”, Paolo Quattrini parla di empatia come relazione che non nega la condizione di separatezza, ma a partire da Io e Tu “l’empatia realizza la consapevolezza della presenza e dell’interdipendenza dell’altro, esterno o interno che sia”.
Arredare la propria casa interna,
ricordare di aprire le finestre, di metterci i fiori, tappeti, musica, poesia che apra il cuore.
La gioia di vivere sparisce nei momenti di smarrimento esistenziali in cui spesso oltre al dolore e fatica che le prove di vita presentano, ci si rannicchia internamente in luoghi di cecità interiore, dove non ci si frequenta più e non ci vuole incontrare; se ci si lascia soli e si perde il senso dell’empatia con noi stessi, di un dialogo con un Tu interno, smettiamo di “includerci” al banchetto. Buber a questo proposito afferma: “Relazione è reciprocità. Il mio tu opera su di me, come io opero su di lui. (…) Imperscrutabilmente inclusi, viviamo nella fluente reciprocità dell’universo”.
Quando la gioia di vivere viene meno è come se dimenticassimo di essere naturalmente parte di questa reciprocità, di questo ritmo della danza e perdessimo il posto dove stare o come muoverci. In certe situazioni la realtà concreta non viene in aiuto, al contrario paralizza.
La realtà senza una direzione, senza un’intenzione perde di senso e il piacere di vivere evapora. “Vivere mi serve a recitare e recitare mi serve a vivere” diceva Monica Vitti. Abbiamo bisogno di creare un’altra realtà che stia tra il mondo esterno e il mondo interno per sentirci vivi, abbiamo bisogno di una realtà della narrazione, della rappresentazione, di allargare il nostro mondo transizionale, come sostiene Winnicott. La gioia di inventare, di mettere insieme idee, note, movimenti, in una trama narrativa nuova, nasce dall’andare dietro a un’intenzione a un interesse, a una curiosità, questo porta la gioia di giocare e partecipare alla creazione.
“Tra il sacro e il profano” è il dialogo tra l’attrice e una suora: entrambe vivono la loro chiamata attraverso celebrazioni rituali, con un costume, più o meno austero e la Vitti sostiene di aver cambiato nome per allontanarsi dalla realtà di appartenenza, per poter entrare in contatto con un’altra, in cui si può vivere anche la vita di qualcun altro. Entrambe rinarrano storie e trasmettono agli altri. Questo scambio con gli interlocutori permette di prendere e dare, in un metabolismo vivo. Interessante che la Vitti nel suo lavoro di attrice si sente come una finestra, aggiungendo: “e quando non sono un tramite ho paura”. Parla della paura di non sapere più recitare, non piacere più al pubblico, di essere sostituita da un’altra bionda più giovane, più brava, che sappia far ridere di più.
Queste paure sono di tutti, anche dei “grandi” e possono affollare la mente e i pensieri, bloccando la voglia di vivere e la creatività, dipende dove va lo sguardo se allo specchio o oltre.
Per ripartire si ha bisogno di trascendenza, di riassaporare la vita nel suo insieme, guidati da un’intenzione, per quanto priva di forma: una speranza, una curiosità, una visione. Tendere verso, non necessariamente appoggiati alla fiducia in se stessi, come si dice nel linguaggio comune.
La fiducia, una volta lanciato il sasso dell’intenzione nello stagno, forse sarebbe meglio riposta nella forza della vita come insieme che trascende le parti e ciclicamente porta espansione e fioritura. Fiducia e attenzione da coltivare, come seme antico e rassicurante, nella relazione con se stessi e il mondo, come natura, animali e esseri umani. Attenzione, che fa percepire lo spazio sorprendente che possiamo abitare tra terra e cielo.
Monica Vitti nel suo incontro con gli allievi della scuola di cinematografia, sostiene che per fare l’attore bisogna coltivare la propria essenza, riconoscendo uno stato d’animo specifico di ognuno e proteggersi dagli inquinamenti dell’anima, perché è facile indurirsi, creare difese coriacee davanti alle fregature della vita, a prezzo della libertà di sentire e di esprimersi creativamente.
Il senso di vivere gioca a nascondino con gli esseri umani, appare e scompare, è capace di far muovere mari e monti con gioia, anche nel dolore, quando abita nel cuore e nell’intenzione e di ritirarsi e scomparire quando la materia prende il sopravvento e la realtà visibile diventa unica e accecante, annullando lo spazio brulicante di vita, “tra” questo e quello, tra il prima e il dopo.
Se quello che ci accade lo mettiamo a servizio di una creazione, che sia nella terapia o in qualunque altra arte di vivere, allora possiamo amare i nostri difetti che ci rendono parte di una umanità più comprensibile e tollerabile pur con le nostre miserie. Monica Vitti propone ai suoi allievi che siano proprio le mancanze, la fragilità e emotività che permettono di far l’attore e di costruire il bene. Sono mancanze da preservare, da trattare con cura, come possibilità di esser toccati e vibrare alle note del creato. Ci sono lavori come l’attore, come il terapeuta e non solo, in cui qualunque esperienza si attraversi sarà strumento nella nostra valigia.
“L’attenzione tanto piena che l’Io scompare”,
usando le parole di Simon Weil, è una facoltà che la avvicinava a Rosa Luxemburg, figura politica del novecento. Entrambe danno un esempio di come abbiano vissuto il piacere di vivere, anche quello sotto i sassi, e non abbiano creduto a una gioia relegata alla realizzazione di sogni e progetti.
Rosa Luxemburg, nelle sue lettere dal carcere scrive all’amica Sonja: “E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa: la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare” (da Un’ po’ di compassione Rosa Luxemburg. Lettera a Sonja Liebknecht nel 1917, dal carcere femminile di Breslavia). “Mi sento a casa in tutto il mondo, ovunque ci siano nuvole, uccelli e lacrime umane” (Dappertutto è la felicità-Rosa Luxemburg).
Monica Vitti si considerava fortunata, faceva un lavoro che amava così tanto che avrebbe pagato per farlo. Lei parla della gioia di recitare, di stare sulle assi del palcoscenico, per poter giocare indisturbata, per avere uno spazio di libertà. È giocando che si ritrova il senso di vivere, giocando a giochi molto diversi, ma giocare è creare in ogni campo. Recitare, giocare permette per questa grande attrice, di rappresentare una situazione e rappresentandola distaccarla dalla realtà e farne un’altra realtà. L’attore, come il terapeuta, deve essere pronto a tutto, a parlare male di Dio, a parlare male di se stesso, a parlare male della mamma. Tutto questo non mette in dubbio l’esistenza di Dio, o di qualunque altra realtà in cui uno creda.
Mi colpisce un intreccio di dialoghi che si è creato dentro di me ascoltando le parole di Monica Vitti, leggendo le parole di Rosa Luxemburg e di Simone Weil, sua grande ammiratrice, come se da epoche diverse parlassero intorno a un tavolo, sulla vita.
Simone Weil spietatamente, ma con grazia, afferma: “Nel regno dell’intelligenza, la virtù d’umiltà non è altro che il potere di attenzione.
La cattiva umiltà porta a credere che si è nulla in sé, in quanto si è quel certo essere umano particolare.
L’umiltà vera è la conoscenza che si è nulla in quanto si è un essere umano e, più generalmente, in quanto si è creature. (…) Questo “io” irriducibile che è il fondo irriducibile della mia sofferenza; renderlo universale.”
Il narcisismo in tutti gli esseri umani è la pelle dell’anima, come dice Paolo Quattrini. Imparare ad amministrare il proprio è il cammino di tutta una vita. Gli investimenti narcisistici da qualche parte vanno fatti, alcuni portano beneficio solo a se stessi, altri ne portano anche ad altri. La mamma di Monica Vitti, vergognandosi del mestiere della figlia le ripeteva che “le tavole del palcoscenico corrodono anima e corpo”. La Vitti come attrice insegnava che fare l’attore è utile a se stessi e agli altri, insegnava a non provare vergogna ad esprimere qualunque emozione umana e a diventare qualcun altro.
Nella vita ci sono sogni irrealizzati, frustrati e pianti,
che parevano promettere una sicura felicità e che, solo con il tempo, si può considerare un bene il non esserne stati accontenti. Il limite interno e esterno diventa risorsa verso il nuovo e verso il valore, se umilmente accettato: non sappiamo cosa sia bene e male neanche per noi stessi spesso, figuriamoci per gli altri. Non vorremmo mai perdere, né rinunciare a niente. Eppure, capita che un certo sapore di serena felicità, senza botti, cominci ad affiorare proprio nelle situazioni di smarrimento, di perdita di qualche sogno e aspettativa.
La caduta delle illusioni può far venire dei bei bernoccoli,
specie quando spieghiamo il nostro sentire con idee strampalate, con cause e nemici esterni che ci fanno nascondere a noi stessi e ci impediscono di cambiare rotta. Possiamo confondere gli amici con i nemici.
La rabbia quando sbaglia mira va contro chi non è causa del nostro dolore e crea desolazione. La rottura di un sogno è vissuta spesso come la fine di un film in cui si è creduto, stando poco in contatto con quello che c’era, e porta con sé la ferita di lasciare andare un’immagine incrinata di noi. Sembra che tutto crolli con quell’impalcatura, ma l’essenza della vita non può essere fermata. Il fiume continua a scorrere.
“Tutto quel che concepisco come vero è men vero delle cose di cui non posso concepire la verità, ma che amo” (S. Weil).
La vita va avanti con una forza inimmaginabile e piena di sorprese, anche se non eclatanti. Il sapore della felicità ha a che fare con cose piccole, con piccoli miracoli del giorno. Le grandi imprese magari sono crollate, come fossero alti alberi a cui abbiamo sempre guardato, aspettando l’assenso. Dopo i capitomboli può apparire davanti ai nostri occhi la vita di universi paralleli.
Possono spuntare sorrisi misti a nostalgia, tristezza, delicatezza struggente; possono spuntare amici inaspettati. Ci possiamo ritrovare tutti in braghette, esposti similmente alle intemperie. I contatti tornano a emanare calore umano, alleanza.
Una delle iniziazioni ricevute da mio padre, da bambina, è stata l’osservazione della vita delle formiche. Lunghi distesi sul prato, seguivamo silenziosi i loro andirivieni tra i fili d’erba, verso la discesa nel formicaio.
È stata una vera rivelazione sull’esistenza di più mondi paralleli tra cui ti puoi spostare quando uno diventa asfittico. Il “mondo reale” diventava immenso tra un metro e l’altro del giardino.
Più avanti la ricerca e la fascinazione per gli spazi TRA si è allargata alle note musicali e ai comportamenti degli esseri umani; incredibile come la possibilità di alternative tra un evento e le molteplici risposte porti ognuno a fare i conti con andamenti molto diversi alle storie personali. L’odore dell’erba tagliata davanti a quella casa di montagna è un richiamo tutt’ora vivo che mi invita a seguire quello che c’è ma non si vede.
Rinunciare con grazia, è uno dei grandi insegnamenti che la Gestalt di Paolo Quattrini propone. È l’aggiunta di grazia che può rendere la rinuncia dolorosa, un atto di valore: la grazia in sé appunto.
Vivere con grazia o senza gli eventi della vita, fa un enorme differenza nella qualità dei giorni. Simone Weil in “L’ombra e la grazia” scrive: “sappiamo, mediante l’intelligenza, che quanto l’intelligenza non afferra è più reale di quanto essa afferra”.
Un punto di vista che implica un limitato grado di controllo sulla vita, che le cose non vanno sempre come le volevamo, che sappiamo ben poco, anche se pensiamo il contrario e pensiamo di sapere cosa è giusto, cosa è sbagliato, adottando una visione che non prevede ambivalenza.
Ma cosa sia la realtà, nessuno può dare una risposta univoca, la verità poi non se ne parla.
Di sicuro tutto cambia, sia che stiamo fermi o che ci muoviamo.
Penso ai bambini che hanno paura di dormire al buio, e stanno svegli per arrestare il tempo e per paura del domani incerto.
Il tentativo di controllare la paura più antica, quella di sparire, può portare a stati di immobilismo esistenziale che non fanno certo assaporare la gioia di vivere. Ci sono quotidianamente tante preoccupazioni, ansie, giudizi e pregiudizi che distolgono l’attenzione da quello che c’è, dalla realtà così come è, né bella, né brutta.
Prescindere dal tormentone interno che classifica continuamente gli accadimenti e le persone in buoni, cattivi, brutti e belli, e accogliere con curiosità stati d’animo nuovi, è un’esperienza che passa attraverso il disorientamento e la curiosità.
“Si degradano i misteri della fede facendone un oggetto di affermazione o di negazione; mentre essi devono essere un oggetto di contemplazione” (S. Weil).
Qualunque intuizione mi arrivi su una via che avvicini all’esperienza della trascendenza nella vita, si può trasformare in un attimo in una cosa, in un concetto che perde immediatamente il senso del mistero, dell’invisibile, dell’ineffabile. La tendenza degli esseri umani a trasformare facilmente tutto in concetti digitali, in cose ferme, prive di vita, in qualcosa che cerchiamo di maneggiare per averne il controllo e per sperare conferma alle nostre opinioni, è davvero sottilmente insidiosa.
Come dice Paolo Quattrini, il senso e la trascendenza viaggiano sempre su una lama di un coltello, dall’altra parte ci sono gli oggetti, le parole vuote prive di vita.
È facile innamorarsi di un’idea che ci ha fatto volare e volerla capitalizzare, ma che nel momento in cui diventa solo idea perde la linfa vitale dell’esperienza e rischia di diventare ideologia generalizzante.
“L’oggetto della ricerca non deve essere il sovrannaturale bensì il mondo. Il sovrannaturale è la luce: se ne facciamo un oggetto lo abbassiamo” (S. Weil).
Non si può sperare che il mondo interno sia fermo, stabile, funzionante e sempre produttivo brillantemente; il dialogo e contatto con la propria interiorità prevedono brancolamenti al buio, provare e riprovare, cascare e rialzarsi, come ci propone la Gestalt nello spingerci sempre a imparare in qualunque situazione e da chiunque.
Se non siamo qui per sapere tutto, il problema diventa come attraversare “Questo immenso non sapere”, citando il bellissimo libro di Chandra Livia Candiani.
Quelle parole scavate da noi, nel senso della propria vita, fanno attraversare questo grande mare, per creare i nostri solchi: scie che ci portino a esplorare una parte di questa esistenza che ci è stata regalata, ma che non sono destinate a arrivare a niente di esaustivo, in nessun luogo specifico.
Sarebbe come dire che per quanto uno viaggi non potrà mai vedere tutto il pianeta in ogni più piccolo anfratto, non potrà mai conoscere tutte le persone che lo abitano. Non potrà mai vedere tutti i film prodotti; né tutti i libri scritti potranno mai essere letti in una vita, come le lingue del mondo non potranno essere mai parlate tutte.
“Noi siamo fatti di tutti gli altri, seguiamo costantemente le orme di qualcuno, poi le abbandoniamo per seguirne altre (..) Ma arriva un momento in cui è importante scavare i propri solchi, fare una fatica nuova, più rischiosa, mettendo in gioco la propria capacità di errare.” (Questo immenso non sapere – Chandra Livia Candiani).
Intraprendere erranza, confidando che dietro la pioggia c’è il sole, anche quando si è confusi, anche quando non si sa bene come fare; intraprendere il viaggio per entrare nelle pieghe nascoste delle proprie giornate e confidare, errando, nell’incontro con una sorgente che non si origina solo dall’intelligenza, ma viene dal dialogo di questa con la conoscenza dell’organismo, capace di stare in contatto con l’ambiente interno e esterno. Il contatto tra le differenze in Gestalt è la chiave di volta della trasformazione nelle relazioni, da cui scaturiscono le intuizioni e la creatività.
Creatività come la capacità di tenere insieme il sublime con l’orrido, senza farsi catturare dalla paura dei contrasti che sempre convivono.
Contatto e creatività diventano due esperienze complementari che portano a sentirsi di nuovo vivi, presenti, anche se impauriti dal puntare con le proprie scelte su un cavallo che potrebbe essere sbagliato. Erranza come arte dell’improvvisazione nella vita in viaggio, invenzione come risposta allo stare in contatto nel momento presente con chi/cosa è diverso da me.
Osservando da questo puto di vista cambiano diversi panorami.
Per esempio, lo scrivere invece che un modo di parlare agli altri su qualcosa, può diventare un modo per dire a me stessa quello che non so, per cercare di fare luce su qualcosa che non conosco, in cui io mi perdo a me stessa.
Negli anni, a forza di terapia, ho imparato a cavalcare l’onda dell’avventura di vivere, mettendomi a fare cose che desideravo, che volevo imparare, non che sapevo già fare. La voce che si dimentica che imparare è il sale della vita ci sarà sempre, una coinquilina con cui dialogare.
Quando nel sogno o nella veglia incontro le mie gelosie, invidie, paure, ho un’opportunità di accoglierle e di sciogliere qualche grumo rimasto indigesto facendo dialogare parti interne. A volte si apre la via per nuove possibilità di interazione dentro e fuori; il confine della gabbia si allarga e una parte della sofferenza che viene dalle miserie si scioglie.
La gioia di vivere: La felicità si trova attraverso le piccole cose, non le grandi.
Se penso a attimi di felicità, penso a momenti in cui ho alzato gli occhi dai piedi fino al cielo, lasciandomi toccare, avvolgere dalla sorpresa di molteplici visioni inaspettate, per poi vedere cielo negli altri. Questo in genere succede in discesa, stanca dopo aver percorso sentieri ripidi, quando la stanchezza fisica vince sui pensieri nevrotici.
Scintille di calore della vita mi arrivano allora, con la sensazione di un assorbimento in un lago di piacere, come un bacino che accoglie e condensa sensazioni dove il tempo si ferma. La gioia può essere accompagnata da una strisciante e dolce malinconia, che la rende ancora più scintillante e prismatica, come cristallo trasparente.
Una panchina, un parco, le foglie che cadono con un soffio che le fruscia via, questo è il momento di una gioia che corre lieve come il vento all’altezza dell’erba.
Se scende il buio dentro, questo è un nuovo inizio in cui inoltrarsi seguendo sentire, pensare, immaginare, fare in qualunque forma ti piaccia, portando a ridere con se stessi con benevolenza.
Il buio, se esplorato come un sentiero di notte con la luna, apre le pieghe delle giornate, entro cui si trovano storie, come riserve di risorse vitali: miracolini della quotidianità che fanno sorridere alla sprovvista.
Bibliografia
– Bashō, “Lo stretto sentiero del profondo Nord”, traduz. a cura di Chandra Livia Candiani e Asuka Ozumi, Torino, Einaudi, 2022.
-Buber M., “Il principio dialogico e altri saggi”, Milano, Edizioni San Paolo, 2004.
-Chandra L. Candiani, “Questo immenso non sapere”, Torino, Einaudi, 2021.
-Luxemburg R., “Un po’ di compassione”, Milano, Adelphi Edizioni, 2007.
-Luxemburg R., Dappertutto è la felicità, Roma, L’Orma editore, 2021
-Quattrini G. P., “L’effetto che fa”, Roma, Armando Editore, 2021.
-Rilke, “Lettere a un giovane poeta”
-Weil S., “Rosa Luxemburg”, Farina Editore, 2021
-Weil S., “L’ombra e la grazia”, Firenze, Giunti/Bompiani, 2017.
https://www.youtube.com/watch?v=xC0_m69qz4Y Esclusivo: Monica Vitti al Centro Sperimentale di Cinematografia
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