Pandemia, nelle parole del mito una narrazione ulteriore

Silvia Contini

Silvia Contini – Counselor filosofica

Pubblicato sul numero 43 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

Un termine invade tutti i nostri circuiti comunicativi oramai da febbraio (2020 ndr); e sembra non cessare il suo dominio. Definisce una situazione planetaria, sottende condizioni individuali; inaugura un tempo che interrompe rituali e consuetudini. Ognuno di noi è stato costretto a ridisegnare il proprio perimetro relazionale, a saggiare una situazione di complessità dove la narrazione soggettiva parla di smisurate solitudini e dolorosi e intermittenti isolamenti. Una trama narrativa intrisa prevalentemente di ansia, angoscia, paura.

Tutti siamo implacabilmente non più solo connessi, ma interconnessi virtualmente da una situazione definita da un virus, una malattia del corpo che può essere contratta dal contatto, dal respiro, dalla vicinanza, dalla presenza. La situazione sembra renderci tutti accomunati, commisti da una condizione di rischio. Pandemia, del resto, sta a significare tutto il popolo: e tutto il popolo abita paradossalmente nel suo nome una distanza dal corpo dell’altro, un’alienazione declinata dalla possibilità di contagio, una scansione temporale definita da bollettini sanitari.

Una parola che contiene il dio dello scuotimento, Pan, e che ricorda anche uno degli appellativi con i quali si invocava la dea dell’amore e della seduzione amorosa, è divenuta identificazione planetaria di malattia, di miasma.

Cosa facevano gli antichi in caso di malattia o quando venivano contagiati dal miasma di una colpa?

Di solito si mettevano in cammino verso la risposta: che proveniva dall’accenno di un oracolo, o dal suono delle fronde di una quercia. Oppure sognavano. In ogni caso, ripercorrevano segni e parole rintracciando radici, allargando feritoie da ferite per trovare la traccia di un riinizio.

Quando il presente è narrato e fagocitato da parole che sanno di statistica e medicamento, l’orizzonte simbolico si restringe sempre di più; per arginare un contagio, in virtù della sintesi e dell’efficacia comunicativa si è recintata e si è chiusa la possibilità di lettura simbolica che può esistenzialmente aprire a una catarsi e a un senso più ampio ed individuale.

La rinascita parte dall’interno e per capirlo abbiamo bisogno dell’immagine dell’uovo, che se si dischiude da dentro apre alla vita, mentre se è violato dall’esterno segna la morte. Il presente medico-statistico che talvolta sembra sommergerci ha necessità di essere riconsiderato attraverso una narrazione ulteriore che parta da immagini e risonanze di significato che siano in grado, considerando realisticamente la morte, di far dialogare la vita; come accade all’uovo che dischiude dal di dentro il suo guscio, così noi siamo responsabili delle immagini che accogliamo e delle parole che usiamo per inserirci nel qui ed ora di questa narrazione mondiale.

Le parole sono contenitori di simboli antichi capaci di traghettarci dentro un ordine di senso profondo che può riconsegnarci significati che risuonano nel mito; ma nel mondo della tecnica le parole spesso echeggiano come lemmi disincarnati, se ne è smarrito il significato profondo perché nella velocità comunicativa non c’è tempo per accoglierne la profondità ed il corpo antico.

E così, ciò che era di tutto il popolo è divenuto ora accostabile al solo significato di malattia, miasma, contagio.

Il linguaggio non ha perso, però, la sua forza narrativa e simbolica; come noi, è stato accerchiato dallo snocciolamento statistico e dai termini medici; ma non ha smesso di parlare, ha smesso di essere recepito nella sua interezza mitologica e visionaria. Interezza che invece ritroviamo nel politeismo greco, che, come osservava Dario Sabbatucci, “pensa per dèi anziché per concetti”.1

Ma chi era Afrodite Pandemos? Chi era Pan?

Vi sorprenderà sapere che Pandemia, un tempo, era la dea Afrodite, la dea non solo della bellezza, ma anche dell’armonia e dell’equilibrio da cui scaturisce il bello che seduce e abbaglia.

La dea della bellezza e dell’amore celeste, uranico, era nata da una lacerazione cruenta: Urano il cielo era stato evirato dal figlio Crono, i genitali gettati in mare.2 Afros significa schiuma, la stessa da cui emerge la dea in un’immagine resa immortale dal Botticelli. Esiste l’Afrodite Urania ed esiste l’Afrodite Pandemia, come ci ricorda Platone in un suo celebre dialogo3 per bocca di Pausania. Ha un volto celeste ed uno terreno; solo ad alcuni è accessibile l’amore uranico, il restante è pandemia, per tutto il popolo. In realtà le due epiclesi della dea non si escludono, ma si richiamano anch’esse in un’interconnessione4; un’interconnessione vitale, non malata come quella che sembra oggi prevalere.

Afrodite Pandemia per molti ancora oggi è sinonimo dell’amore corporale, lussurioso o comunque fine a sé stesso, alla portata di tutti. Sembra di vederla ora, a cavallo di un capro, e di sentire la sua voce roca e animale risalire dai lupercali, morso di vita fugace che nel suo essere fine a sé stessa dispensava lo scaturimento animale come forma di bisogno e benessere. Ma la lettura, forse dovuta all’apparente opposizione tra l’Afrodite Urania e la Pandemia, non è esaustiva riguardo al reale ruolo delle epiclesi della Dea prima e durante l’epoca di Platone.

Apollodoro, ne Sugli dèi, racconta dell’antico tempio della dea, situato accanto all’antica agorà di Atene, e di come fossero lì tenute le assemblee pan-demos, di tutto il popolo, a significare l’aspetto politico, e non solo carnale, della dea. Da altre testimonianze emergono gli effetti armonizzanti e normativi della dea e la sua connotazione politico-sociale5; non la carne pandemica che si oppone in contrasto alla manifestazione uranica, ma una congruenza interna di due possibilità manifeste, esattamente come, nel più celebre mitologema della sua origine dalle acque del mare, la dea dell’amore nasce da un cruento atto di mutilazione filiale agito da Crono con lo scopo di liberare la madre Terra.

Nell’attributo della dea risiede la capacità attrattiva di colei che seduce letteralmente ‘portando in disparte’; ma la stessa attrazione che fa scaturire può diventare un’affiliazione morbosa.

La passione che può divenire malattia è da tempi immemori un topos letterario dell’antichità; tanto che Tucidide, nel descrivere la sintomatologia degli afflitti dalla peste ad Atene, riprese gli stessi termini con i quali la poetessa Saffo descriveva i patimenti del corpo e della mente di chi era afflitto e provato da una passione.6

Ma pandemia contiene un altro mitologema che per noi è ancora forse più interessante attraversare ed immaginare dentro l’eco della parola; contiene simbolicamente il suono dei passi di capro del dio Pan.

Il dio Pan è morto! -faceva annunciare Plutarco in un suo oscuro passo.7

Noi sappiamo due cose: che un dio non può morire, e che grazie a lui Psiche tornò alla vita dopo aver desiderato la morte8. Il nome del dio Pan, Tutto, risuona da quasi due anni dentro una parola che ricorda oggi una malattia invisibile che colpisce emozionalmente anche chi non è malato; poiché chi non si ammala vive sopra un patibolo emozionale costellato da ansia, angoscia, paura e panico.

Siamo attaccati ovunque, nella psiche e nel corpo; e da un virus che colpisce nel respiro e diviene asse di ridefinizione di tutti i parametri, individuali e comuni.

Chi era Pan?

É una figura mitologica per certi versi oscura e dibattuta; ha un’anima più antica degli antichi stessi e la sua stessa origine è controversa.9

Per molti viene dall’Arcadia, terra selvaggia e inospitale dove abita una popolazione rude; presso questo popolo, la musica aveva la funzione di accogliere ed addolcire i costumi. Per alcuni è figlio di Hermes, il dio psicopompo che sovrintende le trasformazioni, e di una ninfa. Per altri sempre di Hermes ma ha Penelope per madre. Per altri ancora suo padre è Zeus e per madre ha la ninfa Eneide, o Hybris, personificazione dell’insolenza e madre a sua volta della sazietà. O è figlio di nessuno perché è simbolo del tutto, Pan, come narra il suo nome.

Il suo nome, anche quello ha avuto varie letture; alcuni fanno derivare Pan dall’essere il dio dei pastori e delle greggi, altri lo ricollegano alla radice indoeuropea con il significato di “far prosperare”, o dall’illirico con un significato simile, che è “gonfiarsi, crescere”. Altri lo considerano un nome preellenico somigliante a quello di un dio che si occupava di guarigione e che era identificato con Apollo. Queste tracce parlano di un dio antico e nutriente, selvaggio e vitale, con capacità rigenerative e di guarigione, inserito dai greci nell’Arcadia in origine, terra già per loro antica.

Il suo aspetto era spaventoso, tanto che alla sua nascita fu abbandonato dalla madre terrorizzata. È un essere ibrido e mostruoso; è un puer, un giocherellone, un bimbo peloso con il viso di capra. Ha dell’uomo il busto, le mani e la stazione eretta del corpo; e dell’animale le zampe, il sesso, il pelo, la piccola coda e soprattutto la testa.

Vive nascosto in una grotta e vaga per i boschi; può indurre il terrore con il suo urlo, la sua solavista può provocare il panico, accelerare i battiti cardiaci, far perdere il controllo. Portare fuori da sé stessi.

Ma produce anche il riso in tutti gli dei dell’Olimpo, porta allegrezza, scuote le membra dal torpore ed accompagna verso nuove e più lievi consapevolezze.

È Pan che salva Psiche dal suicidio dopo l’abbandono di Amore.10

E Iambe, figlia sua e della ninfa Eco, sarà l’unica a scuotere dalla tristezza Demetra con una danza oscena; grazie a Iambe, Demetra si desta dal torpore del dolore.11

È la parte antica e selvaggia che cresce dentro ed esplode ridando spazio al riso; rapporto antico tra paura profonda e gioia intensa.

Gli Dei guardano con favore a questo nostro bambino con i piedi caprini”, ci ricorda Hillman; “essi lo considerano come un dono per il divino, ciascuno di loro scopre di avere un’affinità con lui; Pan li riflette tutti”.

Poiché “in quanto Dio di tutta la natura, Pan personifica per la nostra coscienza (…) il comportamento nel suo corso massimamente naturale”, ed è un comportamento naturale, è in un certo senso divino perché “trascende il giogo umano degli scopi: è interamente impersonale, oggettivo, inesorabile. (…) Come la genealogia di Pan è oscura, così è l’origine dell’istinto. “(…) l’esperienza di Pan sfugge al controllo del soggetto volitivo e della sua psicologia egoica”.12

Pan è il dio del corpo che torna a riannodarsi alla mente, e lo fa con il fragore della paura che “come l’amore, può diventare un richiamo per la coscienza; si incontra l’inconscio, l’ignoto, il numinoso e incontrollabile restando in contatto con la paura, che eleva dal cieco panico istintuale del gregge al sagace, astuto, riverente sgomento del pastore”.13 Partecipa alla saggezza del corpo e si rivela con la saggezza della natura facendo recuperare la consapevolezza del corpo tramite l’istinto. Poiché “essere senza paura, privi di angosce, invulnerabili al panico, significherebbe perdita dell’istinto”14 e la perdita della connessione con il dio-capro che ci può riportare verso la vita come ha fatto con Psiche; perché quando viviamo la paura, la fame, la sessualità e l’aggressività, “le immagini assumono un’irresistibile vitalità e l’immaginale non è mai stato tanto vivido come quando siamo legati istintualmente con esso”.15

Pan è terrore, ma anche la visione che annuncia vittoria e terrorizza il nemico, come fece per ben due volte a Maratona e Salamina.16

Pan può essere l’incubo che toglie il respiro; ma anche preannunciare nei sogni i rimedi per guarire dalle malattie.17

Dio enigmatico e profetico18 con un fuoco perenne a lui dedicato19, è invocato anche da Socrate20per avere “la bellezza interiore dell’anima” accordando l’esterno con l’interno di sé stesso.

L’apparente divisione, l’ambivalenza dei significati del dio è fittizia; più che dià-ballein (da cui diavolo) guardato nella sua interezza ed apparente ambivalenza si rivela essere sun-bàllein(mettere insieme), simbolo anche di quel panico e di quella paura che divengono sensazioni ed emozioni sorte dal corpo quando la mente non ha adeguata capacità di esprimere visceralmente ed autenticamente cosa si prova e cosa si sente.

Il mito ci ha traghettato in questa greca cartografia del senso, luogo che non è geografico ma immaginale, regno “che ospita gli archetipi sottoforma di Dei”21 e che può portarci verso una strada interna per dialogare con i nostri passi solitari e caprini anche quando sono sopiti.

Entrambi i mitologemi agiscono nell’anima con una narrazione che parla del corpo e dei suoi sconquassi, e di quanto queste vicende mitiche riflettano ancora oggi quelle umane: il panico che sfugge al controllo trattenuto della mente e rompe il suo copione, la possessione d’amore che divelle ruoli ed abitudini.

La possibilità della malattia è una condizione del corpo che riguarda in potenza tutti, e ci predispone a sua volta in una piazza di comunanza virtuale che solo se edotta può divenire non dipendenza dai dati statistici, ma apertura all’empatia ed alla compassione. La nostra condizione umana ci viene rivelata nel suo dato di fragilità che è però anche germinativo; una fragilità nutriente che ci permette di attraversare le emozioni tristi22 provocando uno scuotimento, una crisi generatrice di cambiamento.

Ma la possibilità del contagio può divenire anche gabbia di paura, l’urlo panico del Dio, sofferenza fine a sé stessa poiché diviene un circuito di ansia, angoscia e inquietudine che girano in cerchio scandendo le ore della vita di un singolo; invece, l’urlo del Dio che sembra annunciare la morte, è vita, anche se il panico sembra annunciare la morte.

È la voce del corpo quando la mente non sa trovare parole corrispondenti; quel corpo che, tra tutti gli eventi simbolici, seppur scarnificato da anni ed anni di tentati assassinii perpetrati ai suoi danni dal virtuale, dalla tecnica, dal progresso senza regole, propaga ancora la sua eco simbolica seppur tramite sintomi.

È l’irruzione dell’elementare nel quotidiano, la possibilità che la ruota giri per il verso non razionalmente voluto ma intimamente cercato, la rottura del torpore consueto dato dall’irrompere della vita che terrorizza, spiazza, avvolge mente e collo fino a portarci allo svenimento.

O alla guarigione; passando per la crisi più profonda, quella della presenza.

La crisi della presenza di demartiniana memoria irrompe in mezzo alla pandemia, evocando Pan ed Afrodite, per chiamarci ad attraversare questo momento e sostare in questa zona liminale costellata di simboli e dialogare con loro, più che con la statistica.

Ci sentiamo vinti dalla vita quando navighiamo dentro le acque stagnanti di un amore infelice, sbattuti dai flutti delle emozioni come un naufrago che rimane attaccato a quel poco che lo sostiene; ci sentiamo sovrastati dalla vita quando l’urlo di Pan ci priva del respiro percuotendo il nostro cuore. In queste situazioni-limite, la vita sembra ristringersi e respingere i nostri tentativi di sopravvivenza.

Ma è proprio lì che avviene la rinascita, il riinizio, l’iniziazione alla vita che può essere facilitata assumendo su di sé la consapevolezza della crisi (che nel suo etimo ci riporta al significato originario di separare, scegliere) ed utilizzando parole diverse per una narrazione ulteriore, più umana e che recuperi la simbolica e vitale danza tra vita e morte. Questo tempo può essere patito, manipolato strumentalmente dalle nostre proiezioni o usato amplificandone il senso; Pan ed Afrodite conducevano dentro il solco del limite, la difficoltà come soglia rituale verso un vivere più autentico.

Nelle logore e generiche frasi confezionate da altri non possiamo trovare aderenza e connessione con i significati profondi della nostra singola esistenza negli accadimenti del qui ed ora; quelli sono copioni di plastica che smarriscono l’eco della nostra voce umana. Sono parole scarnificate, che non trovano risonanza nel nostro corpo e nella nostra vita.

È piuttosto nella nostra elaborazione antica e personale insieme che si incontra la possibilità di vivere questo periodo pandemico mondiale non come una bolla o una sospensione della vita ma piuttosto come un lungo rito di passaggio che può essere il “naufragio che rivela”, il generatore di cambiamento che ci riporta dai margini al centro della nostra vita.

1 D. Sabbatucci, Politeismo, Roma, Bulzoni, I, 1998, pag.224.

2 Platone, Cratilo, 406 c-d e Simposio in Platone, tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 2000, pagg.153-154. Come specifica reale, che Afrodite, dea della bellezza, dell’amore e del matrimonio fosse nata dalla spuma del mare era già stato testimoniato da Esiodo in Teogonia 195-198 (ibidem, nota 76 pag. 188). Tale nascita appartiene alla tradizione orfica (cfr. Colli, La sapienza greca I, Adelphi, Milano, 1977, pag. 261, Proclo, Commento al Cratilo di Platone 406 c-d). L’Afrodite Pandemia, ovvero sensuale, aveva invece per genitori Zeus e Dione.

3 Platone, Simposio, 179 d-182 a, in op.cit. pag.492-493

4 Cfr. G. Brivio, Paradoxa Aphroditae. Le origini antiche della duplice dea e l’amor platonico, Genova, Il Melangolo, 2007, pag.13 e seg.

5 Cfr. ibidem, pag. 64.

6 Cfr. P.M. Liuzzo, “Saffo, Tucidide, Plutarco e la peste d’Atene”, su Histos I0 (2016, 27 May), pagg. 65-84.

7 Plutarco, De Defectu oraculorum, in Triakonta, Bologna, Zanichelli, 2006.

8 Apuleio, La favola di Amore e Psiche, Firenze, Barbès Editore, 2012, pagg. 61-62.

9 Igino, Miti, a cura di G. Guidorizzi, Milano, Adelphi, 2000, cfr. nota 965 pag.491.

10 Apuleio, op.cit.

11 Inni omerici, a cura di G. Zanetto, Milano, Bur, 2000, Inno a Demetra, p.79, vv.192-205

12 J. Hillmann, Saggio su Pan, Milano, Adelphi, 1977, pag.52.

13 Ibidem, pag.73.

14 Ivi.

15 Ivi, pag.74.

16 Ivi, pag.52.

17 Pausania, II, 32,6, in A. Michaelis, Il dio Pan colle Ore e con le Ninfe sui rilievi votivi greci, Roma, Tipografia Tiberina, 1863.

18 Ibidem, pag.318, dove si dice che aveva presso Lycosura la ninfa Erato come profetessa.

19 A. Nibby, Elementi di archeologia ad uso dell’Archiginnasio romano, 1828, pag.227.

20 Platone, Fedro, 279 b.

21 J. Hillman, op.cit.pag.16.

22 B. Spinoza, Ethica, citato da G. Schmit e M. Benasayag, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinalli, 2004.

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