L’altro nel pensiero di Hanna Arendt

Abstract

Hannah Arendt si può definire come “la pensatrice per eccellenza della diversità”. Ogni soggetto vale nella sua propria diversità, attraverso questa diversità si mette in comunicazione col prossimo e col prossimo intreccia un confronto a partire dalla propria singola soggettività. Questa è l’idea di mondo di Hannah Arendt e da questo punto di vista il termine alterità perde la sua forza dirompente ed anche la propria ambiguità di fondo: quella di pensare a un io come a “un soggetto forte che si apre e accetta l’altro”. L’invito è invece a pensarci tutti in una condizione universale di alterità. Hannah Arendt can be defined as "the thinker par excellence of diversity". Every subject is valid in its own diversity, through this diversity it puts itself in communication with the neighbor and with the neighbor intertwines a comparison starting from its own individual subjectivity. This is Hannah Arendt's idea of ​​the world and from this point of view the term alterity loses its disruptive force and also its basic ambiguity: to think of an "I" as a "strong subject that opens and accepts the other". The invitation is instead to think of us all in a universal condition of otherness. Keywords: alterità, altro, rapporti interpersonali

Katrin Tamara Tenembaum

di Katrin Tamara Tenembaum

Pubblicato sul numero 17 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

Abstract: Hannah Arendt si può definire come “la pensatrice per eccellenza della diversità”. Ogni soggetto vale nella sua propria diversità, attraverso questa diversità si mette in comunicazione col prossimo e col prossimo intreccia un confronto a partire dalla propria singola soggettività. Questa è l’idea di mondo di Hannah Arendt e da questo punto di vista il termine alterità perde la sua forza dirompente ed anche la propria ambiguità di fondo: quella di pensare a un io come a “un soggetto forte che si apre e accetta l’altro”. L’invito è invece a pensarci tutti in una condizione universale di alterità.

Hannah Arendt can be defined as “the thinker par excellence of diversity”. Every subject is valid in its own diversity, through this diversity it puts itself in communication with the neighbor and with the neighbor intertwines a comparison starting from its own individual subjectivity. This is Hannah Arendt’s idea of ​​the world and from this point of view the term alterity loses its disruptive force and also its basic ambiguity: to think of an “I” as a “strong subject that opens and accepts the other”. The invitation is instead to think of us all in a universal condition of otherness.

Keywords: alterità, altro, rapporti interpersonali

Innanzitutto vorrei ringraziare Anna Ravenna per avermi invitata a partecipare a questo convegno. La voglio ringraziare di cuore perché mi ha posto di fronte ad una sfida, la sfida di rivolgermi a un pubblico per me non consueto, nel senso che si pone in un altrove rispetto agli ambiti consueti e in qualche misura rassicuranti della mia professionalità.
Io insegno, insegnavo filosofia all’università. Definirmi una filosofa mi sembra un eccesso, però forse è bene assumersi questa responsabilità.
Mi ha fatto piacere cogliere nella tua introduzione Anna, il termine o il problema “accogliere la diversità”, perché mi ha confortato nella mia scelta di farmi aiutare o sostenere, nel percorso che qui voglio esporre, da una pensatrice come Hannah Arendt, perché Hannah Arendt si può definire proprio come “la pensatrice per eccellenza della diversità”.
Scavando più a fondo nel suo pensiero, cosa che ovviamente non posso fare qui stamattina, forse potremmo addirittura andare oltre e cambiare la formulazione: non ci sarebbe più bisogno di dire “accogliere la diversità”, perché proprio il binomio “accogliere la diversità” è, non voglio dire proprio un ossimoro, ma nel pensiero di Hannah Arendt lo è.
Perché la diversità, la distinzione è la struttura stessa della sua idea della condizione umana.
Allora se la diversità è questa, non c’è accoglienza, perché accogliere significa sempre una dinamica che ha sullo sfondo l’ambiguità sostanziale di essere unidirezionale: c’è chi sta e chi accoglie.
Arendt in questo senso ci può molto aiutare ad articolare in modo per noi più proficuo il concetto stesso di diversità.
Pensando un po’ al turbamento di avere davanti ad un uditorio come il vostro con, immagino, un percorso, degli interessi, delle competenze così diversi dal mio, mi verrebbe da dire che “l’altro siete voi”.
Quindi mi devo un po’, come dire, attrezzare per questo e, allora, per neutralizzare in qualche modo un’alterità problematica, avrei voluto intitolare il mio intervento con “l’altro non esiste”.
Questa è una provocazione, però penso che sarebbe un’ottima cosa se si potesse arrivare a poter dire in coscienza e affermare questo: “L’altro non esiste” o in una forma più attenuata “ l’altro siamo noi”, nel senso di uscire finalmente da una dinamica, cui accennavo prima, di una centralità e di una marginalità che io posso considerare da un punto di vista filosofico, sociale, politico sempre unidirezionale, c’è un centro e c’è una periferia.
Questa dinamica tra centro e periferia è il tema di cui parlerò, seguendo un certo percorso arendtiano.
Però prima vorrei come premessa dirvi che il mio intervento l’ho strutturato in tre momenti:
Ho pensato a una brevissima genealogia del concetto dell’altro, cioè andare a vedere nella storia della cultura e del pensiero occidentale da dove deriva, come si manifesta questo concetto e quindi fare una breve genealogia di due termini, di due idee, che sono l’idea di tolleranza e di universalità.
Una sorta di cronologia, un breve percorso storico concettuale.
In un secondo momento entriamo direttamente in casa Arendt ed entriamo letteralmente in un salotto, perché Hannah Arendt ha scritto una biografia di un personaggio importante, anche se da noi poco conosciuto, Rahel Varnhagen.
Rahel Varnhagen è una letterata che a Berlino ha aperto un salotto tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, ed è stato uno dei momenti chiave del passaggio dall’illuminismo al romanticismo, momento decisivo rispetto alla problematica dell’emancipazione ebraica e dell’emancipazione femminile.
Hannah Arendt ha scritto questa biografia negli anni Trenta del secolo scorso, seguendo il percorso di Rahel Varnhagen, che illustrerò molto brevemente. In questo contesto ella ha sviluppato il concetto di paria, che rimane fondamentale anche per i suoi lavori successivi, in particolare lo ritroviamo nel fondamentale “Origini del Totalitarismo”.
Il concetto di paria si forma in contrapposizione a quello di parvenu. E partendo da questo concetto di paria, che evoca direttamente quello della marginalità, e partendo dal testo su Rahel Varnhagen, Arendt ha elaborato successivamente una dimensione filosofica che forse ci può aiutare a capire meglio il concetto di diversità e di alterità.
Questo sarebbe il terzo punto, diciamo più teoretico, in cui esco dal salotto e chiamo in causa un gentile signore che si chiama Immanuel Kant. Svilupperò anche questo punto spero in modo leggero.
Allora, “tolleranza”, questo è il punto della genealogia da cui voglio prendere le mosse. Ho pensato a questo percorso perché storicamente ci sono dei concetti che quando appaiono sulla scena del mondo hanno un valore fortemente liberatorio e promettente.
E uno di questi sicuramente è stato “tolleranza”. Il concetto di “tolleranza” nasce in Europa, tra il ‘500 e il ‘600, nasce
nelle guerre di religione.
È un tema inizialmente interreligioso tra le varie denominazioni cristiane, dopo la riforma protestante. La tolleranza è l’accettazione di una diversità religiosa rispetto al monopolio del cristianesimo rappresentato dalla chiesa cattolica.
Rappresenta quindi l’apertura a un’idea di pluralità che tiene conto, se vogliamo usare questo termine, dell’altro, inizialmente in termini religiosi e poi in termini politici.
E’ dunque un termine che storicamente è sicuramente positivo, un segno di progresso di un rapido sviluppo che prepara poi i fondamenti dell’illuminismo. E’ l’inizio del percorso della modernità.
Però, come tutte queste apparizioni sulla scena del mondo che all’inizio hanno una valenza liberatoria, è un percorso che, proprio perché libera delle nuove forze, mette in campo anche dei nuovi soggetti che finiscono col doversi misurare con i limiti di quella stessa idea.
E allora anche il termine di tolleranza porta alla luce un problema: il problema dell’unidirezionalità. C’è un centro che accetta una periferia o una minoranza. È il centro detentore di una giustezza e c’è una minoranza relegata alla marginalità.
Mi sono andata a guadare la definizione di tolleranza su uno strumento essenziale in una bibliotechina personale che è la Garzantina di filosofia, che risolve un sacco di problemi e che ci dice:
“Tolleranza: termine che nel suo senso originario e ancora oggi più proprio indica la rinuncia alla repressione di opinioni ritenute false o di comportamenti ritenuti dannosi o comunque sbagliati […] Presuppone quindi un sistema di credenze e di giudizi di valore negativi nei confronti dei comportamenti e delle opinioni tollerate.”
Vale a dire che nella tolleranza, anche se c’è la rinuncia a una prevaricazione, a una persecuzione, rimane anche in termini legali una centralità, che è una centralità di valore.
Questo per far vedere l’ambiguità di un termine che nasce, che è positivo, ma che presenta nel corso della sua evoluzione dei limiti di cui soffre ancora oggi.
Da un lato, infatti, questa idea di tolleranza è l’apertura alla pluralità, un’apertura che ci porta all’idea illuminista di universalità di ragione. Cioè, se tutti, nelle loro diversità, hanno diritto comunque alla considerazione e non alla persecuzione, pian piano si sviluppa questa idea che tutti gli esseri umani dotati di ragione godono di una pariteticità, proprio perché, al di là delle differenze, fanno capo a questa uguaglianza universale.
Lo sviluppo da una tolleranza tra le varie fedi cristiane si sviluppa in quello che è stato chiamato deismo, cioè l’identificazione nel fondo di tutte le posizioni religiose di un nucleo comune, che è un nucleo che si richiama alla religione naturale, di cui tutti sono dotati, tutti gli esseri umani, il che li rende uguali, li rende, diciamo, comunicabili e li instrada sulla via di un’auspicata unificazione delle fedi.
Anche questo di nuovo è un progetto liberatorio, dirompente, ugualitario che porterà alla famosa triade della rivoluzione francese: liberté, fraternité, egalité. Però anche questo concetto dell’unificazione e della pariteticità delle fedi ha i suoi limiti. A indicare questo limite chiamo a testimone un filosofo illuminista ebreo tedesco, che opera nella seconda metà del ‘700, un interlocutore di Kant, che si chiama Moses Mendelssohn (nonno tra l’altro del famosissimo compositore ottocentesco Mendelssohn Bartholdy). Il nostro filosofo ha scritto un testo molto importante, Jerusalem del 1783, in cui argomenta a favore dell’emancipazione politica degli ebrei, che in quel momento erano privi di diritti civili e che erano vessati da una serie di leggi che li tenevano assolutamente al margine della società.
“Una riunificazione delle fedi – dice Mendelssohn – se anche dovesse riuscire non potrebbe avere che le conseguenze più funeste per la ragione e la libertà di coscienza. La riunificazione delle fedi non è tolleranza, è proprio il contrario della vera tolleranza”.
Con che cosa polemizza Mendelssohn? Sullo sfondo c’è un progetto, che è un progetto illuminista, che dice: gli ebrei sono sul margine sbagliato della civiltà, la loro religione è carica di superstizione, non è una religione razionale. Ma anche al fondo dell’ebraismo c’è un nucleo razionale, che si richiama a una religione naturale che caratterizza tutti gli uomini. Quindi gli ebrei, nonostante il loro ebraismo, sono anche esseri umani e in quanto tali devono godere degli stessi diritti e delle stesse libertà civili di tutti gli altri.
Mendelssohn intuisce che dietro questo progetto ‘tollerante’ si nasconde una pesante ambiguità. Ve la illustro brevissimamente con un testo che è il testo principale dell’emancipazione ebraica di fine ‘700, scritto da un funzionario prussiano che si chiama Wilhelm von Dohm, autore di un’opera dal titolo Del miglioramento civile degli ebrei.
Pensateci bene, il miglioramento civile degli ebrei è un genitivo, che può essere oggettivo oppure un genitivo soggettivo. Nel primo senso sono gli ebrei ‘oggetto’ del progetto innovatore, è la loro condizione sociale e politica deve essere migliorata. Ma il miglioramento ha anche un’altra valenza, che coinvolge gli ebrei come soggetto. Sono essi che si devono migliorare, devono liberarsi dalla scorza esterna della loro ritualità, della loro, come viene chiamata, superstizione, dimostrare di essere esseri razionali, universali come tutti gli altri e solo a questo punto hanno diritto a entrare in società in posizione paritetica.
La tesi di Mendelssohn è l’opposto: lo stato è separato dalla chiesa (nel senso di organizzazione religiosa di qualsivoglia confessione) e quindi lo stato non deve entrare nel merito delle intenzioni e delle opzioni religiose dei suoi cittadini. Ne consegue che gli ebrei in quanto ebrei, cioè rimanendo nella loro tradizione, rimanendo nella loro identità, hanno in uno stato moderno diritti paritetici di cittadinanza.
Vedete che anche in questo caso ci si scontra con un limite, un’aporia, di un’ idea, quella dell’universalità della ragione umana, che in sé è un valore positivo innegabile e irreversibile.
Il fatto interessante è che proprio quest’apertura illuministica rende possibile, dà la parola a dei soggetti che fino a quel momento non avrebbero potuto, come dire, parlare in nome proprio.
E’ interessante che negli stessi anni viene pubblicato un libro, sempre in Prussia nell’ambiente intorno a Kant, che porta il titolo Del miglioramento civile delle donne. Esso compare anonimo, come in una sorta di concorrenza al testo di cui si parlava prima, del miglioramento degli ebrei. E’ una concorrenza, come spesso avviene, tra due marginalità. Vi compare una frase molto icastica, l’autore è un uomo che a un certo punto dice: “Perché la donna non può poter dire IO?”, cioè, perché non può parlare in nome proprio? Questa frase, trovo, ci dice con grande evidenza cosa sia in gioco sul terreno dell’emancipazione.
Allora, sull’orizzonte dell’ideologia illuminista, si affacciano dei soggetti che proprio grazie a questa nuova apertura sono in grado di ampliare il discorso e di metterne in evidenza le contraddizioni, proprio grazie allo spazio che si è liberato del nuovo concetto di umanità.

L’essere ebrea e l’essere donna costituisce il filo paradigmatico che caratterizza il percorso di vita di Rahel Varnhagen, giovane donna animatrice di un salotto letterario nella Berlino di fine ‘700. In esso si ritrova il fior fiore dell’intelligenza tedesca e vi regna, o quantomeno viene ricercata una consonanza di spiriti. Tutte le differenze di religione, di sesso, di classe sociale, vengono messe da parte, in una temperie che già annuncia l’avvento dell’emozionalità e della sentimentalità romantica. In realtà, nella ricostruzione biografica che ne dà Hannah Arendt questo ideale di ‘società neutrale’ fallisce e l’ebraismo non accettato si rivela per Rahel la radice di una rimozione che si fa ferita esistenziale permanente. C’è un suo sogno, ripreso da Arendt, che è molto incisivo, e che vi voglio raccontare. Un sogno raccontato da Rahel stessa, in cui ritorna anche un’altra suggestione, il tema della notte. Perché in questo libro di Hannah Arendt c’è proprio un capitolo dedicato all’alternarsi tra “giorno e notte” e alle differenze tra lo sguardo che si può avere su di sé e sul mondo durante il giorno e la notte.
Qua siamo nella notte e il sogno inizia così: “Eravamo ai margini del mondo”.
Sono tre donne le protagoniste di questo sogno, “serve della terra” le chiamerà Rahel, che si trovano su un giaciglio, lontane dal mondo che però rimane visibile in lontananza. Il loro dialogo è una sorta di confessione catartica, in cui passano in rassegna le loro più segrete sofferenze, s’interrogano, parlano di umiliazione, di pene d’amore, di ingiustizia, di gioventù assassinata. Sono tutte esperienze dolorose che nominate nella confessione raggiungono un esito liberatorio. E’ questo il clima, l’aura del sogno.
Alla fine però Rahel rimane con un fardello, un’esperienza non condivisa e non comunicabile. La sua domanda “conoscete la vergogna?” introduce una separazione senza rimedio dalle altre due donne. La sua è la vergogna di una nascita infame, che non condivide con le altre, e questa nascita infame è la ferita originaria di essere nata ebrea.
Tutta la vita di Rahel, questo in base alle sue lettere, che sono copiosissime, e ai suoi diari, che sono materiale letterario straordinario e che Hannah Arendt elabora, si svolge intorno a questa ferita originaria, a questa idea di vergogna e alla volontà caparbia di nascondere la ferita originaria, in una società che non è disposta al riconoscimento della diversità e quindi mette in moto nella vita di Rahel valenze che, quanto più sono tese al nascondimento, tanto più alimentano questa ferita.
Insomma il percorso di Rahel è il percorso di un tentativo di entrare in società, di comprarsi il biglietto d’ingresso in società, attraverso anche il matrimonio, tanto è vero che dal nome originario di Rahel Levy lei diventerà la signora Varnhagen, perché sposa un nobile prussiano. È questo ciò che Arendt chiama il percorso del parvenu.
Proprio attraverso questa biografia Arendt elabora il dualismo parvenu e paria.
Il parvenu è caratterizzato dal tentativo di emancipazione che, partendo da una diversità, rinuncia a essa per omologarsi ai valori dominanti di una società che, essendo una società cristiana e antisemita, com’era tra il ‘700 e l’’800 quella tedesca e non solo quella, costringe il parvenu a un percorso di autonegazione.
Rahel invece alla fine della sua vita ritorna all’accettazione della sua diversità, della sua diversità originaria e le sue parole finali, dette sul letto di morte, sono riportate dal marito. Lei si è convertita, si è fatta cristiana e tale rimane fino alla fine. Ma allo stesso tempo si riconosce nelle sue origini ebraiche.
La frase commovente di cui il marito porta testimonianza è questa: “…quello che per tanto tempo della vita è stata l’onta più grande, il più crudo dolore e infelicità, l’essere nata ebrea, non vorrei ora che mi mancasse a nessun costo.”
Questo è il percorso di Rahel, che si svolge per tappe e attraversa molte vicissitudini, ma serve a Hannah Arendt per contrapporre questa Rahel alla figura del parvenu e per definirla come “paria consapevole”, cioè come una persona che alla fine accetta la propria ‘diversità’.
Arendt elabora dunque un modello, il modello del paria, la cui rilevanza trascende le vicende di Rahel e permette di affrontare in una prospettiva originale il tema della marginalità.
Nel momento infatti in cui questa marginalità viene assunta consapevolmente, essa ci parla non solo e non tanto di esclusione e di invisibilità, ma ci mostra invece, in una dimensione di relazionalità, uno sguardo al mondo totalmente opposto a quello del parvenu. Ci dice che la diversità e non la somiglianza (sia essa una somiglianza di ragione come nell’illuminismo o una somiglianza di sentimento come poi sarà nel romanticismo) è il veicolo della comunicazione e della comprensione intersoggettiva. Il paria con la sua presenza porta in prima istanza la divergenza delle periferie contro la convergenza del centro. Il centro che nella sua autoreferenzialità è cieco.
La grande forza della figura del paria elaborata da Hannah Arendt è che in essa c’è il riconoscimento di una capacità di una visione ampia a 360°, perché nella dimensione del paria il centro non esiste più, ogni individualità è decentrata e da questa posizione si pone in relazione con le altre individualità.
Ciò significa che se io voglio essere visibile nella mia marginalità, devo anche accettare nelle loro marginalità tutte le alterità.
Non c’è più un discorso centripeto, non c’è più un centro, perché centro, in questa dimensione autoreferenziale, è cieco, non è in grado di cogliere i nessi, non è in grado di cogliere le relazionalità e la marginalità. Ci dà, se lo pensate come una sorta di diagramma, un’immagine essenzialmente diversa delle relazionalità sia sociali che psicologiche.
Il parvenu, dice Hannah Arendt, paga la perdita delle sue qualità di paria con l’incapacità definitiva di comprendere la totalità, di riconoscere i nessi, di interessarsi a qualcosa di diverso dalla propria persona.
Il paria invece decentra, disarticola un tessuto unitario centripeto, introduce il pluralismo delle prospettive, che è un pluralismo relazionale. Non c’è soltanto la pluralità in Hannah Arendt come pluralità di diversità, ma queste diversità hanno senso solo se sono relazionali.
Io sono diversa e posso, come dire, essere accettata nella mia diversità se io accetto la diversità altrui e non mi misuro con una centralità. Questo fa veramente la diversità della prospettiva arendtiana.
Allora la prospettiva del paria che non abbandona la sua marginalità è sostanzialmente una posizione di apertura, appunto perché, se vuole essere visto e considerato dagli altri nella sua diversità, deve saper guardare agli altri nella stessa prospettiva. Se non vuole rinnegare la propria diversa individualità non si può riferire agli altri attraverso la mediazione di un concetto astratto universale di uomo, uno e universale, ma si deve porre in rapporto con la singolarità e la diversità di ciascuno.
Allora l’universalità è e rimane un concetto di conquista dell’illuminismo, ma ci dice semplicemente che noi siamo tutti uguali perché siamo tutti diversi. E’ in questo senso, dicevo all’inizio, che forse il titolo del mio intervento potrebbe essere “l’altro siamo noi, l’alterità siamo noi”. È questo intreccio tra una pluralità di prospettive radicate nella diversità che costituisce il mondo e chiama in causa ciascuno di noi.
Per Arendt il mondo è qualcosa in movimento, è qualcosa di relazionale, è qualcosa in cui operano in comunicazione e in distinzione gli esseri umani.
Scrive in Vita activa, che è un altro suo testo importante: “Noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è identico a qualcun altro che visse, vive o vivrà”.
Quindi c’è in questa pensatrice, come dire, quasi una metafisica della parzialità, del prender partito, del posizionarsi, perché solo a partire da questo ci si può relazionare con gli altri.
Quindi l’esempio di Rahel nelle parole di Arendt ci dice questo, cioè che l’effettiva possibilità di essere nel mondo degli uomini dipende dal riconoscimento da parte di ciascuno singolarmente, che è necessario prendere le mosse dalla propria diversità e solo così si possono incontrare le altre diversità.
La fine del percorso di Rahel non è edificante, non è liberatorio. E’ il riconoscimento di una vita che è stata costellata di fallimenti proprio per quel suo tentativo di costituirsi come una parvenu, ma si conclude nonostante tutto con un esito aperto al futuro, proprio per aver assunto consapevolmente la prospettiva di paria alla fine della sua vita.
Questo è lo snodo di passaggio nel percorso che volevo presentarvi: Il fatto che storicamente e concettualmente idee e valori, che si presentano in forma dirompente e propositiva, proprio per questo creano un terreno in cui si possono aprire nuove e diverse potenzialità che le mettono in questione ma che ci permettono di costruire e di andare avanti.
Il terzo passo conclusivo di cui vi volevo parlare è di vedere come poi Hannah Arendt su questa figura storica del o della paria ha costruito una tematica teorica altrettanto rilevante per il tema di cui siamo qui a discutere.
A questo punto mi è venuto il dubbio che forse due parole su Hannah Arendt andavano spese… . Io la do per conosciuta….ma la tentazione è troppo forte!
Hannah Arendt nasce all’inizio del ‘900, col suo percorso personale filosofico copre tutto il secolo, è stata un’allieva di Heidegger , cosa universalmente nota, si è formata come filosofa negli anni ’30, di famiglia ebraica di Koenigsberg, che non a caso è stata anche la patria di Kant ha una formazione strettamente ed elitariamente filosofica. Ma quando i tempi chiamano lei risponde e l’inizio del nazismo la vede operativa, la vede partecipare ad attività clandestine. Deve lasciare la Germania e la lascia già nel ’33, ci sono anni di esilio a Parigi dove lavora in stretto contatto con Walter Benjamin. Riesce a salvarsi uscendo clandestinamente dalla Francia occupata e anche dopo qualche mese di campo d’internamento, approda negli Stati Uniti e diventa una grande personalità nel mondo intellettuale americano. Rahel Varnhagen: Storia di un’ebrea. È un libro che Hannah Arendt comincia negli anni ’30 in Germania, finisce a Parigi ….
Si sente molto l’aria del tempo ed è interessante perché dall’esperienza, dal lavoro su una figura di ebrea tra il ‘700 e l’800, Arendt sviluppa dei paradigmi filosofici che poi funzionano e arricchiscono il suo successivo pensiero filosofico.
Rahel Varnhagen letto con attenzione è un libro che ci dice molto sulla filosofia di Hannah Arendt.

In conclusione vorrei passare da questa esposizione storico-biografica della figura del paria o della paria che fa Hannah Arendt negli anni ’30 a un testo finale, in realtà mai scritto da Hannah Arendt e che avrebbe dovuto far parte di una trilogia, La vita della mente (rimasta inedita e pubblicata postuma – Arendt muore negli Stati Uniti nel 1975).
Si tratta dunque della terza parte: Giudicare. All’argomento erano già state dedicate le lezioni che ella aveva fatto negli anni ‘70 a New York, che si ricollegano direttamente al discorso del paria. La figura del paria diventa una sorta di modello euristico, di spiegazione di una problematica filosofica. Quindi a questo punto quella figura prende corpo come discorso filosofico, che io cercherò di rendere il meno pesante possibile.
Abbiamo visto come il paria si presenta come quella figura che dalla sua marginalità, dalla sua particolarità e proprio grazie a essa (la particolarità e la marginalità non vengono mai abbandonate) nell’elaborazione di Arendt riesce ad acquisire uno sguardo comprensivo del tutto. Mentre il parvenu nella sua autoreferenzialità, come autoreferenzialità del centro, non sa cogliere i nessi.
Dice Hannah Arendt “il paria, essendo un escluso può guardare la vita come una totalità e arrivare al grande amore per un’esistenza libera”. Il grande amore per un’esistenza libera è quella dimensione di comunicabilità e di relazione, quella capacità di essere nel mondo che per Hannah Arendt è la dimensione politica dell’essere umano, cioè della polis allargata a tutta l’umanità.
Arendt definisce questa capacità dello sguardo di posarsi sulla totalità come la disposizione a prendere sempre partito, nel senso letterale di presa di posizione, di parte, nell’interesse del mondo, perché, cito Arendt, “la fine del mondo comune è destinata a prodursi quando esso viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in una sola prospettiva”. Qui è in gioco la pluralità come fondamento della condizione umana, che però non è una pluralità universale assunta da un centro che è disposto ad accettare anche punti di vista diversi. Qui si tratta, se vogliamo visualizzare l’idea in forma di diagramma, di un posizionamento circolare di marginalità in relazione. Quindi ognuno per essere visto deve vedere e relazionarsi agli altri, senza un centro, senza una disposizione che conferisce una priorità rispetto alla secondarietà dell’altro.
State attenti che nell’idea dell’altro rischia di esserci sempre questa disparità e questa unidirezionalità, ossia c’è un centro e c’è l’alterità. Hannah Arendt non usa mai il termine alterità.
Per capire meglio che valore teoretico può avere questa idea arendtiana del paria, chiamiamo in campo molto brevemente e spero comprensibilmente Immanuel Kant.
Cogliamo in Arendt l’idea di un’aspirazione a una generalità che però non è un’universalità omologante, in cui tutti quanti si devono riconoscere allo stesso modo. Arendt distingue questa generalità dall’universalità del concetto. Seguendo una traccia kantiana, Arendt spiega che questa universalità risponde a un’esigenza teoretica della conoscenza scientifica, per cui è necessario portare la molteplicità all’unità, altrimenti non vi è possibilità di comunicazione e di lavoro scientifico. Ovviamente Arendt non rifiuta questo tipo di conoscenza, è però interessata a sviluppare una prospettiva diversa.
“La generalità non è l’universalità del concetto” ci dice Hannah Arendt, “essa è al contrario strettamente legata al particolare, alle condizioni particolari dei punti di vista, attraverso cui si deve passare per conseguire il proprio punto di vista generale”.
Ciò significa che il proprio punto di vista generale non è dato a priori e non si sussumono, ovvero si annullano le particolarità all’interno di questo punto di vista generale. Il punto di vista generale deve essere costruito, deve essere raggiunto a partire da queste particolarità. Hannah Arendt si ispira a un concetto kantiano di tipo particolare che si chiama giudizio riflettente.
A noi interessa questo punto: si tratta di un giudizio che parte dal senso più intimo e personale che esista, dal gusto. Il gusto non è comunicabile perché è qualcosa che di più soggettivo non si può. Com’è possibile che il gusto, senso soggettivo quant’altri mai, possa costruire una dimensione d’intersoggettività e quindi di comunicazione e di conoscenza? Quello che è rilevante per Hannah Arendt è che il gusto è discriminante perché si riferisce al particolare in quanto particolare, e la ricerca del generale avviene attraverso questo punto di discriminazione. Per raggiungere il generale, che è il piano della comunicabilità, il giudizio deve costruirsi partendo da un punto di vista soggettivo che si allarga visitando, sostando, facendo tappa (è questo il termine kantiano che Arendt fa proprio) nei diversi punti di vista degli altri.
Torna qui, anche se non più nominata come tale, l’antica idea arendtiana del paria che sta al margine, che per farsi vedere e capire deve accettare e capire la diversità degli altri.
Il giudizio riflettente è appunto un giudizio che si forma facendo tappa nelle diversità degli altri, nei punti di vista degli altri. La soggettività, il punto di vista soggettivo si deve misurare con altre soggettività, ma senza misurarle a partire da un centro, dal proprio centro.
Poi il discorso arendtiano, sulla scia di Kant, diventa complesso, perché entrano in gioco degli elementi quali l’immaginazione, il riconoscimento di una facoltà che si chiama senso comune, che in realtà è proprio quasi un senso e non una facoltà cognitiva una facoltà di giudicare, che nella riflessione tiene conto a priori di un modo di rappresentare di tutti gli altri.
La definizione di Hannah Arendt di questa capacità, di questo giudizio riflettente è che “l’elemento non-soggettivo dei sensi non oggettivi consiste nell’intersoggettività”. Mi rendo conto che è una formulazione complessa, ma di essa mi preme sottolineare qui soprattutto il concetto di intersoggettività, perché questo è l’aspetto che ci aiuta a pensare un’idea di universalità non omologante. L’intersoggettività è universale ma non annulla le particolarità.
Nell’intersoggettività si pensa una relazionalità paritaria tra tutti i soggetti e questa relazione si sviluppa tra soggettività e oggettività. Non è l’oggettività scientifica che deve basarsi su una struttura totalmente diversa, è un’intersoggettività che presuppone quanto è comune e universale nel riconoscimento e nella tutela della diversità di tutti gli esseri umani.
È un concetto complesso che Hannah. Arendt purtroppo non ha sviluppato ma di cui ha tracciato i primi elementi solo in appunti di lezioni tenute alla fine della sua vita. Possiamo però dedurne che avesse in mente un’idea di generalità o universalità che non opera attraverso la sussunzione del particolare ma che si pone come universalità non oggettiva ma intersoggettiva.
Questo piano di universalità non annulla dunque le diverse soggettività ma le fa comunicare e valere nel giudizio, dando luogo a quella che ella con terminologia Kantiana chiama mentalità allargata. La mentalità allargata è una dimensione non strettamente razionale ma relazionale, in cui le diverse soggettività si mettono in comunicazione. Ma, attenzione, non si tratta qui semplicemente dell’accettazione ecumenica di tutti i punti di vista, perché cadremmo nel più assoluto relativismo. È invece l’identificazione e la preparazione di un terreno in cui si svolge poi il confronto, combattuto e contrattato, tra le diverse soggettività. Qualcuno ha addirittura definito il pensiero arendtiano come “pensiero agonistico”, tanto forte è l’attenzione al confronto e alla contrattazione.
Quello che è importante è che in questo terreno che Hannah Arendt chiama mondo, c’è una relazionalità intersoggettiva spaziata, che mantiene cioè le distanze e le distinzioni; non c’è una simbiosi, non c’è una coincidenza dei soggetti. Ogni soggetto vale nella sua propria diversità, attraverso questa diversità si mette in comunicazione col prossimo e col prossimo intreccia un confronto a partire dalla propria singola soggettività.
Questa è l’idea di mondo di Hannah Arendt e da questo punto di vista forse il termine alterità perde la sua forza dirompente e spero perda anche la propria ambiguità di fondo perché non scordatevi mai che quando si parla di alterità bisogna sapere che c’è in agguato una trappola. La trappola è quella di pensare a un io come a “un soggetto forte che si apre e accetta l’altro”. Riaprendo così surrettiziamente il circolo della falsa tolleranza. L’invito invece è di pensarci tutti, ma proprio tutti, in una condizione universale di alterità.

Please cite this article as: Katrin Tamara Tenembaum (2011) L’altro nel pensiero di Hanna Arendt. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/numero-17/laltro-nel-pensiero-di-hanna-arendt/

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