Meccanismi di difesa e resistenze al contatto
di Sergio Mazzei
Direttore dell’Istituto Gestalt e Body Work
Pubblicato sul numero 12 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.
Nella psicoterapia della Gestalt i meccanismi di difesa vengono chiamati “resistenze” e la domanda quindi è: da cosa ci si difende, da cosa si resiste?
Le difese vengono utilizzate quando c’è paura, quando c’è troppa angoscia e ci si sente in pericolo. Si sente, più o meno consciamente, che ci si deve trattenere dal fare qualcosa o dall’essere e dal manifestarsi in un qualche modo, principalmente davanti a qualcuno ma anche con se stessi. La resistenza infatti si applica nel contatto interpersonale, nell’incontro Io-Tu, ma anche nella relazione intrapsichica tra me e me stesso, quando per esempio evito di prendere consapevolezza di aspetti della mia esperienza di cui ho timore. Avere una resistenza implica la presenza di un Io che sceglie o aspira ad essere in un qualche modo e che evita, rifiuta di essere in qualche altro. Nella sua modalità di resistenza specifica la funzione “Io” applica nel ciclo del contatto principalmente l’introiezione (devo …, non devo …) e la proiezione (andrà male… sarò punito …) per interrompersi.
Com’è noto l’Io si forma attraverso il contatto e in risposta all’ambiente: il bambino scopre precocemente che in certi modi può ottenere soddisfazione ai propri bisogni ed in altri no. Ecco allora che si struttura l’Io, che nella sua prima manifestazione è dunque una forma di adattamento all’oggetto primario rappresentato dalla madre, una struttura che permette al bambino la sopravvivenza fisica ed emozionale.
I Polster sottolineano che la posizione originaria del bambino è quella dell’unione. Il bambino, quando è ancora feto è in uno stato fusionale con la madre, non vive una esperienza di separazione e sperimenta uno stato di soddisfazione dei propri bisogni pressoché totale. Col nascere, poi, c’è l’inizio della separazione, c’è dunque questa polarità unione/separazione che comincia a presentarsi e c’è la tendenza dell’organismo ad andare verso l’unione e quindi a ritornare nella condizione originaria. Nel corso del suo sviluppo, però, dopo qualche tempo il bambino si rende conto che tale condizione non è più praticabile e sorge in lui la necessità di sviluppare la separazione dalla madre o comunque dalla sua figura primaria di attaccamento. In ogni caso, in tutto il ciclo di vita, ogni individuo procede attraverso questa polarità tra la tendenza ad essere unito con l’oggetto, quindi con l’ambiente, e la necessità di esserne separato e cioè di sviluppare una differenziazione, ed è proprio in mezzo a questa polarità, nello spazio compreso tra l’unione e la separazione con e dall’oggetto, che di fatto si sviluppano tutte le possibili forme di resistenza.
La capacità creativa di adattamento e di muoversi in maniera armoniosa all’’interno di questa polarità è ciò che potremmo definire un buon contatto. Quindi, un buon contatto non è unione, non è separazione, ma è, da una parte, la capacità di essere uniti con l’oggetto, e dall’altra, la capacità di mantenere un’identità separata, dunque una capacità di auto-sostegno e di differenziazione dall’ambiente. Quando l’individuo si sviluppa in modo sano, manifesta questa elasticità che permette di essere in armonia e allo stesso tempo di non essere dipendente e di funzionare separatamente.
Per Perls, le resistenze sono chiamate anche “disturbi al confine del contatto”, cioè disturbi nella relazione organismo/ambiente secondo la definizione gestaltica o nella relazione sé/oggetto in quella psicoanalitica.
In generale quindi, quando si parla di resistenze, dobbiamo immaginare che qualcosa accade nella zona intermedia fra l’Io ed il Tu. L’Io ed il Tu sono la diade della relazione del contatto interpersonale e la zona intermedia dove si applicano i meccanismi di difesa o resistenze è il confine del contatto e quando, in questo spazio, la relazione non è armoniosa, si manifestano disturbi di vario genere.
Le resistenze principali sono sette, anche se Perls e Goodman ne sottolineano cinque:Confluenza, Introiezione, Proiezione, Retroflessione, Egotismo, Deflessione e Desensibilizzazione. Crocker ne aggiunge un’ottava, la Proflessione.
Perls descrive la confluenza, la proiezione, l’introiezione e la retroflessione e marginalmente la desensibilizzazione. Goodman descrive l’egotismo. I Polster descrivono la deflessione.
Queste resistenze si manifestano in tutti gli essere umani in misura variabile e non è ragionevole pensare di esserne al di sopra. D’altra parte in psicoterapia della Gestalt esse non sono considerate “ignobili” o qualcosa di necessariamente negativo, ma piuttosto esprimono metodi e strategie che l’individuo ha utilizzato per poter stare nel mondo. Ognuno di noi ha cercato di fare del suo meglio per sopravvivere in un ambiente difficile. Dobbiamo a mio avviso comprendere il significato delle resistenze che ci hanno aiutato a sopravvivere e rispettarle. Dicono i Polster: “Ciò che generalmente viene definito con il termine resistenza non è una barriera sorda da rimuovere ma una forza creativa la cui funzione è quella di gestire un mondo difficile.”
Rispettarle naturalmente vuol dire non negarle né comunque subirle, ma piuttosto divenirne consapevoli, conoscerle, osservarle, anche eventualmente allo scopo di trovare nuovi modi di rispondere alle proprie difficoltà. Infatti il principio di base della psicoterapia della Gestalt è la consapevolezza e lo sviluppo della capacità di risposta (respons-abilità). Dobbiamo cioè allargare i confini dell’Io, cercare di non funzionare più in quei soliti modi di sempre, diventare consapevoli e cercare di migliorarci, di superare i nostri limiti. Ancora citando i Polster:” Lo sviluppo delle tendenze vecchie non più utili, e il muoversi verso altre nuove, costituisce il processo centrale della psicoterapia”.
Dopo aver sottolineato l’importanza dell’astenersi dal giudicarsi e dello sviluppare la consapevolezza, vediamo ora a una descrizione delle resistenze:
Confluenza:
è uno dei disturbi più seri perché quando è eccessivamente presente l’individuo non ha la capacità di avere un’identità separata. Essere confluente con l’ambiente, con l’oggetto, significa che non si sa chi si è o che si sperimenta davvero e si risponde soltanto alle aspettative dell’ambiente. Quando sono confluente non ho gusti miei o meglio evito di averli, non ho preferenze, sono fuori contatto dalle mie emozioni, dai miei sentimenti, non mi faccio domande e sono scarsamente o per nulla consapevole di tutto ciò.
La confluenza può essere più o meno grave. Nella sua forma più severa non vi è la minima capacità di differenziazione. Si è totalmente fuori contatto e si vive in uno stato di simbiosi, di fusione, originato dal rapporto con la madre, come se si avesse una specie di corpo con due teste (io e te siamo uno). Le persone confluenti in genere evitano di sperimentare ed entrare in conflitto con gli altri e preferiscono conformarsi alle aspettative del prossimo. Sono tipi pacifici con forti caratteristiche protettive e con la tendenza a sminuire l’intensità dei problemi e ad aggiustare tutto “come se non fosse successo niente”. Non accettano e nel fondo sperimentano rancore quando qualcuno trasgredisce gli accordi impliciti del vivere quietamente e in pace e sono attraversati da tremendi sensi di colpa quando sono loro a trasgredirli o quando semplicemente contraddicono qualcuno e rompono l’equilibrio. Sono pieni di aspettative e sospettosi verso tutto ciò che è nuovo. Hanno poca interiorità e preferiscono di gran lunga l’inconsapevolezza e “l’anestesia” dai propri vissuti evitando in tal modo di scoprire le proprie risorse perché non vogliono saperne di sviluppare interiorità e potere personale in quanto ciò potrebbe costituire un fattore destabilizzante.
Tutte le resistenze hanno anche degli aspetti che sono considerati auspicabili.
Per esempio la confluenza è un aspetto positivo quando c’è la necessità di lavorare come gruppo per un obiettivo comune, il cosiddetto “gioco di squadra”. Infatti in certe circostanze l’eccessivo individualismo va a discapito del collettivo. Il vantaggio dell’atteggiamento confluente oltre che nei lavori di squadra e nelle organizzazioni lo si può osservare anche nel rapporto terapeutico: l’empatia rappresenta una utile manifestazione della confluenza, nell’essere insieme, un essere insieme con solidarietà. Anche nella sessualità, l’orgasmo simultaneo può essere considerato una buona confluenza nel rapporto con il proprio partner per il raggiungimento di una intimità maggiore o di una gioia condivisa. Se si suona in un’ orchestra tutto funziona certamente molto meglio se ci si adatta agli altri strumenti evitando di prendere troppo spazio per i propri virtuosismi.
Introiezione:
è un disturbo “classico” cioè molto diffuso e ben conosciuto, e si manifesta in modo particolare in quell’atteggiamento che Perls chiama “shouldism (doverismo)”: si tende fortemente a conformarsi alle direttive delle autorità. I libri di scienza o di religione o comunque ampiamente accreditati rappresentano fonti di riferimento e non vengono mai messi in discussione. Si deve fare così come ha detto il professor tal dei tali o Sua Santità che sanno meglio di noi cos’è giusto e quale è la verità! Non c’è dunque spazio per il dubbio e si tende a non assumersi la responsabilità della propria esperienza. Ci si adatta alle aspettative ambientali esigendo peraltro che anche gli altri si comportino allo stesso modo. Così come “io devo o non devo” anche tu “devi o non devi” fare o essere altrettanto. C’è la caratteristica dell’ essere molto esigenti, calcolatori e predicanti. Si dogmatizza attraverso l’applicazione di atteggiamenti logici e della razionalità su ciò che è giusto o sbagliato. Se la confluenza sfocia nei disturbi della personalità nel tratto isteroide, l’introiezione sfocia nel tratto ossessivo compulsivo. La personalità che presenta questa caratteristica ha spesso la tendenza a “mettersi in cattedra” spiegando comportamenti e atteggiamenti degli altri secondo i “suoi sani principi” con la tendenza naturalmente a giustificare i propri. E’ un moralista ed enfatizza continuamente ciò che è bene e ciò che è male, le cose giuste e quelle sbagliate e pretende che ognuno si adatti alla sua visione delle cose. Introiezione significa incorporare per intero dei valori che in origine sono di qualcun altro senza metterli in discussione, ma naturalmente in certi casi può essere anche considerata un atteggiamento adeguato. Se per esempio io sono malato e un buon medico mi suggerisce una medicina, farò certo bene ad introiettare il suo punto di vista se voglio risolvere il mio problema. Altro esempio di buona introiezione è il fidarsi di qualcuno che ti insegna qualcosa, un docente, un falegname, un tecnico esperto di qualche argomento, uno che ha una qualche autorità che riconosci. Infatti se non si dà ascolto non si può imparare niente, fermo restando che ciò che si introietta va comunque elaborato, scartando eventualmente ciò che non torna, lasciando dunque spazio alle proprie riflessioni e considerazioni: in questo modo, l’introiezione sta alla base dell’apprendimento.
Proiezione:
è un tratto fortemente presente nella personalità con disturbo paranoide e si manifesta con un temperamento fortemente critico e opprimente. Il proiettivo è spesso un tipo aggressivo che giudica continuamente gli altri colpevolizzandoli e lamentandosi perché “le cose non vanno come dovrebbero andare”. Proiettare significa mettere fuori, attribuire all’esterno ciò che in realtà appartiene al sé. E’ un meccanismo per cui l’individuo non riesce ad accettare la consapevolezza delle proprie pulsioni, cariche d’eccitazione e di distruttività, sia di tipo sessuale che di tipo aggressivo, che non riconosce in sé e per questo motivo butta fuori. Un esempio tipico è il pregiudizio razziale o sessuale sulla diversità tra gli uomini in genere e le culture. Si demonizza il prossimo attribuendogli caratteristiche negative, perverse, discutibili poiché l’individuo non riconosce o rifiuta certi aspetti di sé preferendo rigettarli sul mondo. Purtroppo la storia passata e presente ci dice quante sono state le guerre o i conflitti esterni ed interni sorti da questi atteggiamenti di intolleranza. Non si accettano i propri sentimenti e le proprie azioni, non si ammettono i propri torti, che vengono, così, attribuiti agli altri. Il proiettivo in genere è un tipo freddo e chiuso ed è inconsapevole di respingere il contatto con gli altri. In generale è un disturbo caratteristico di persone fortemente aggressive che giustificano il proprio vissuto per difendersi dalla cosiddetta minaccia degli altri: “non sono io che sono arrabbiato o ostile … siete voi che mi guardate male e con diffidenza… che ce l’avete con me!”
A volte la proiezione ha anche una sua utilità. Un romanziere per esempio, se non è un po’ proiettivo, come fa ad inventarsi le sue storie ed i personaggi? Le storie infatti sono le proiezioni di aspetti interni messi all’esterno. Anche molti giochi, come ad esempio il gioco degli scacchi si basano sulla proiezione, che ha in questo caso la funzione di anticipare i movimenti dell’altro.
Più in generale il pensiero strategico ha bisogno di un po’ di proiezione.
Retroflessione:
si retroflette quando piuttosto che manifestare sull’ambiente un nostro impulso lo rivolgiamo a noi stessi.
Ci sono due tipi di retroflessione, la prima è fare a se stesso ciò che in origine avremmo voluto fare all’’ambiente e la seconda fare a se stesso ciò che in origine avremmo voluto che l’ambiente avesse fatto a noi. Nel primo caso per esempio anziché esprimere la nostra aggressività o disagio nei confronti di qualcuno ci mangiamo le unghie o contraiamo la nostra muscolatura, le spalle, lo stomaco, i piedi, ecc.: mi contraggo, mi faccio venire le palpitazioni o un attacco di mal di pancia per non incidere sull’ambiente, sul genitore, sul capo ecc. Faccio a me qualcosa di equivalente a ciò che avrei voluto esprimere a loro. Nel secondo caso invece per esempio mi dico da solo delle belle cose su di me, mi tratto bene, mi incoraggio, ecc. che sono tutte cose che in realtà avrei voluto che qualcun altro facesse con me. Anche la masturbazione può essere un esempio di questa seconda possibilità.
Come per le altre resistenze anche i comportamenti retroflessi non sono per forza negativi, in quanto ciò che è negativo non è l’utilizzo della resistenza, ma la sua cronicità. Se io mi impedisco di urlare in una certa situazione perché non sono d’accordo o mi trattengo dall’aggredire qualcuno che mi sta antipatico non significa che questo sia un mio tratto malato, un disturbo al confine del contatto. Evidentemente a volte è certo più opportuno tollerare un po’ di frustrazione nell’autolimitazione e nel controllo degli impulsi piuttosto che “scaricare” tutta la propria rabbia, dolore o insoddisfazione sul mondo, anche perché se si è coattivamente espressi non è detto che la qualità della propria vita migliori. Altro è non esprimere mai il proprio disaccordo, il proprio desiderio, la propria esperienza. Certamente, affermare “io sono arrabbiato con te” oppure esprimere il proprio desiderio “mi piacerebbe sentire il tuo apprezzamento” a volte si può fare.
Il vero carattere retroflessivo è un tipo che evita più o meno in continuazione. Tende a non disturbare mai con richieste proprie, bisogni, ed anzi quando si sente particolarmente coinvolto si trova in difficoltà e preferisce cambiare argomento o far finta di non capire.
In generale quando si applica la retroflessione si preferisce subire piuttosto che assumere una posizione.
Egotismo:
Perls e Goodman la definiscono anche come sindrome dello psicoanalista o dello psicoanalizzato ma certo per estensione può anche esserlo dello psicoterapeuta e dello psicoterapeutizzato di qualunque approccio o dell’enneagrammatizzato e in generale di chi pensa di avere la verità in tasca poiché esprime una sorta di atteggiamento di “colui o colei che ormai sono arrivati e sanno già tutto!”. Tutto sommato è uno stato che denota anche un certo livello di realizzazione perché l’individuo ha trovato un suo equilibrio: manca però la spontaneità e la vitalità. Chi applica l’egotismo è come imbalsamato, sempre uguale a se stesso, non ha più emozioni e tende a controllare ogni cosa. Spesso si trova questa resistenza nelle personalità arroganti e narcisiste, in individui che si manifestano come spettatori e osservatori di se stessi senza coinvolgersi, privi di bisogni e di interessi, consapevoli della proprie cose ma mancanti di innocenza e di impulsi spontanei. Tendono a credere di saperla più lunga degli altri su ogni cosa e sentono che nulla li tocca essendo “ormai” al di sopra. Sono spesso freddi, hanno atteggiamenti controllanti e programmati, evitano ogni forma di manifestazione autentica e non si identificano nel prossimo nei confronti del quale applicano una distanza emozionale “di sicurezza” non permettendosi di sperimentare alcuna forma di empatia, piacere o dispiacere.
Naturalmente per quanto l’egotismo sia di fatto una posizione arroccata di tipo narcisistico ciò non significa che si debba considerare il narcisismo come un tratto di per sé solo negativo. Il narcisismo infatti è in polarità con la relazione d’oggetto. Nella relazione si può essere orientati all’io (narcisismo) o al tu (oggetto) e se non vi è almeno un po’ di narcisismo, che poi di fatto è l’autostima, non è detto che la relazione funzioni meglio. Avere una posizione di auto-sostegno, auto-apprezzamento e auto-valorizzazione è certo una cosa positiva e quindi a mio avviso, una parte di egotismo, per cui ci si dà credito, valore e magari ci si mette un po’ al di sopra di certe cose, è auspicabile.
In generale io credo che un po’ per tutte queste resistenze il concetto base è quello della “giusta misura”. E’ un po’ come, per usare la metafora della quantità di sale da mettere nell’acqua quando si cuoce la pasta, quando se ne mette troppo l’acqua è salata e la pasta diventa immangiabile, ma se il sale è troppo poco la pasta rimane insipida, troppo “bamba”. Quindi ci vuole sempre una misura adeguata.
Deflessione:
è stata descritta dai Polster ed è un modo per diminuire l’intensità dello stimolo esterno, una tecnica che l’individuo utilizza per smorzare l’intensità dell’impatto del contatto. Per esempio spostare gli occhi mentre si guarda o si è guardati è una forma di deflessione oppure cambiare la posizione del corpo per evitare un contatto più diretto, ecc. Usando la deflessione si tende ad essere un po’ a distanza, generalizzanti ed ad entrare poco in merito della sostanza delle cose. Si evita di manifestare i propri sentimenti e si tende semmai a cambiare argomento o a prendere tempo spostandosi su qualcos’altro se chiamati in causa. Chi deflette va sovente sul piano astratto, intellettuale, usando un linguaggio spesso diplomatico e stereotipato; gira la frittata e non lo si prende mai, è una specie di scimmia che salta di cosa in cosa. Evita un po’, ma non del tutto come per esempio accade nel caso della retroflessione, di stare in contatto con le situazioni, ha piuttosto la caratteristica di starci ma non di esserci del tutto. Le sue relazioni sono superficiali e si sposta da una cosa all’altra senza fermarsi su ciò che vede o sente. Spesso è un tipo molto loquace, verbale, però quando si arriva un po’ al sodo è già andato via. In genere non fa delle richieste perché non vuole correre il rischio di avere delle risposte in quanto questo significherebbe in qualche modo compromettersi. Alle volte parla troppo o ride su tutto ciò che dice. Freud chiamava questo aspetto del meccanismo di difesa “catarsi faceta”, che significa che si stempera la serietà di una richiesta ridendoci sopra, non prendendola troppo sul serio.
D’altra parte, alle volte anche la deflessione è un utile meccanismo di difesa. Per esempio pensiamo al telecomando che ci permette di cambiare canale quando vogliamo! Non è certo una buona idea rimanere nel contatto con scadenti programmi televisivi, e saltare di canale in canale, fare un po’ di “zapping” per non essere catturato, per proteggersi da propagande e pubblicità invadenti, aiuta a sopravvivere meglio. In questo caso, la deflessione non è un meccanismo automatico nevrotico, ma un’azione deliberata che ha lo scopo di proteggersi dall’invasione di ciò che diventa negativo. Naturalmente questo meccanismo è evidentemente utile anche in generale quando ci si trova in situazioni troppo noiose e non si vuole essere “troppo diretti e respingenti”.
Desensibilizzazione:
poco citata nei riferimenti sulle resistenze. Il desensibilizzato è comunque una specie di “anestetizzato”, un individuo che cerca di rendersi del tutto insensibile a ciò che gli capita. Troviamo spesso questa resistenza nel mondo politico e degli affari, ma anche nello sport (specie in quelli che si dopano). Sono persone che non sentono lo stress, non sentono la fatica e continuano a fare…fare, a produrre…produrre, correre…correre. Staccano la percezione o il sentimento da ciò che sperimentano. Sono quelli che camminano sui cosiddetti “carboni ardenti”, gli fumano i piedi e non sentono niente. In questo caso si impediscono di far emergere la consapevolezza, il dolore, il disagio e comunque l’aspetto del sentimento in generale. Spesso sono noncuranti dei propri bisogni corporei e si vantano che nulla li mette in difficoltà. E’ evidentemente presente un elemento un po’ goliardico, narcisistico grandioso nell’affrontare il mondo. Si è desensibilizzati dal dolore, dalle ferite, dai dubbi ed incertezza, dalle cose della vita. Spesso c’è anche la caratteristica dell’eccesso: molte droghe, molto sesso, molto alcool, molta alta velocità … tanto si è “invincibili”.
L’aspetto positivo della desensibilizzazione è che poiché non ci troviamo sempre in condizioni ideali, possiamo trovarci in condizioni di emergenza nelle quali alle volte è utile accettare di sforzarci e di “desensibilizzarci” sopportando il disagio almeno un po’ per superare l’ostacolo che altrimenti ci impedirebbe di procedere. Se per esempio devo fare una salita molto ripida e non posso farne a meno forse immaginarmi di essere una gazzella che corre leggera può aiutarmi; oppure se ho paura di affrontare una certa situazione che mi mette in ansia ed assumo un atteggiamento di tipo contro-fobico per cui “nulla mi tocca”, in questo modo, magari, posso trovare coraggio e portare avanti un’azione anche pericolosa e riuscire nel mio intento. Tutto dipende dalle circostanze.
Abbiamo visto che l’aspetto negativo delle resistenze sta nella sua cronicità. In psicoterapia della Gestalt si sottolinea che il processo della consapevolezza si manifesta in sequenze di figure e sfondo. Le figure sono pensieri, emozioni, posture fisiche, atteggiamenti che vanno in primo piano. Se si sta conversando con qualcuno che si conosce o con il quale si ha confidenza si parla in un certo modo, magari un po’ familiare, un po’ intimo ma se per esempio si va a prendere un caffè al bar o all’edicola per comprare il giornale o al panificio per comprare del pane, certo non si può continuare a parlare nello stesso modo perché in figura, cioè in primo piano, c’è qualcos’altro, c’è una situazione diversa. Un aspetto del problema nevrotico è quando la figura è rigida, cioè non recede nello sfondo e ci si comporta con tutte le esperienze nello stesso modo.
Lo sfondo è indifferenziato, è ciò che contiene il potenziale per ogni cosa, il potenziale di tutto ciò che può accadere. La figura è ciò che emerge dalla consapevolezza, la figura è il bisogno emergente. Ognuno è portatore di un bisogno primario rispetto agli altri ed è questo bisogno che crea la figura emergente. Se anche qualcuno fosse povero, malato e con un sacco di problemi ma in una data circostanza si trovasse in un arido deserto con molta sete, in quello specifico momento in figura ci sarà il bisogno di acqua e solo poi si presenterebbero gli altri bisogni.
Il punto nella psicoterapia della Gestalt è lavorare sulle figure che emergono; quando chiediamo “cosa provi qui e adesso”, la consapevolezza ti trasmette quelle che sono le figure in primo piano. Una volta che lavori con le figure, queste precedono lo sfondo e danno la possibilità di far apparire altre figure. Se uno è un ossessivo, avrà sempre la solita figura in primo piano.
Noi, continuamente siamo in un processo di creazione e distruzione di Gestalt. La creazione sono i bisogni che emergono nel momento, la distruzione, è la loro realizzazione, il loro superamento. Quindi, questo continuo processo di creazione e distruzione di Gestalt, quando si manifesta, sottolinea la natura sana della personalità. A volte però, quando si lavora in psicoterapia, abbiamo a che fare con Gestalt aperte che risalgono a Noè, allora bisogna inquadrarle, lavorarle e sviluppare una capacità differente di rispondere perché nel caso della personalità disturbata la risposta resistente è pure il suo sintomo.
ESERCIZIO SULLE RESISTENZE
Come è stato detto negli individui le resistenze in una certa misura sono tutte presenti, ma, come succede nell’enneagramma, una caratteristica è predominante rispetto alle altre. Bisogna intanto scoprirle tutte e poi vedere, masticandole un po’, quale torna di più, quale sembra appunto predominante. Anche se non ci si pone il problema di quale è più e quale è meno, ma di quali sono le principali questo va comunque bene, in modo tale che uno si rende conto, nel proprio processo di vita, di cosa sta facendo, quale meccanismo sta mettendo in atto.
Esercizio pratico:
Dopo aver presentato e schematizzato le caratteristiche generali delle principali resistenze, in gruppo (o in piccoli gruppi di 7-10 persone) uno alla volta riferisce delle proprie caratteristiche relative alle singole resistenze. Ci si osserva senza giudicare (approccio fenomenologico) prendendo atto di quello che c’è.
Per esempio si comincia con la confluenza:
“mi sento confluente quando non oso esprimere il mio punto di vista e seguo la corrente … oppure … quando mi rendo conto che cerco sempre di minimizzare quello che sento per evitare il conflitto … ecc.”
Il lavoro si accompagna con la presa di contatto con il proprio vissuto esperienziale.
“Ora che riferisco di questa mia esperienza mi rendo conto di sperimentare …”
Si fa il giro di tutte le resistenze e dopo ognuna i partners del proprio gruppo danno i propri feedback.
Per esempio “Ti ho sentito così e così, mi torna quello che dici … oppure non mi sono mai reso conto di questo tuo aspetto, ecc.
In seguito si può riflettere e condividere con il gruppo sulle seguenti domande:
- in che misura queste resistenze si applicano a voi?
- fare un’immagine di com’era la situazione nella vostra famiglia d’origine, cioè “io sono retroflesso, magari assomiglio alla mia mamma!”. I meccanismi spesso si apprendono da qualcuno che ce ne dà un esempio.
- cosa provate verso i partners del vostro gruppo di lavoro?
COMPLIMENTI
apprezzo molto i tuoi articoli, chiari, formativi e generosi
Grazie
Gaetano Barone
Bologna