Laboratorio gestaltico ed elementi di pratica psicoterapeutica
di Sergio Mazzei
Pubblicato sul Numero 11 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Ciò che intendo per laboratorio gestaltico è una esperienza non strutturata. La gestalt lavora nel qui ed ora con ciò che c’è. Normalmente nei miei laboratori di formazione propongo un tema di base e poi lo sviluppo, trovo però sempre opportuno vedere cosa sta succedendo, cioè quale è l’esperienza delle persone. Per definizione l’esperienza è normalmente di due tipi: una è quella che viene detta intrapsichica che si riferisce al proprio vissuto personale riguardo a se stesso, per esempio l’idea che ho di me o le emozioni o fantasie che mi attraversano, e l’altra è quella interpersonale che ha a che fare con le relazioni, con il mio rapporto col mondo, con il rapporto io-tu. Quando si parla dell’esperienza che si sviluppa all’interno di un gruppo questa si definisce anche come “group process”, cioè processo di gruppo. Noi siamo legati gli uni con gli altri, abbiamo emozioni gli uni verso gli altri e nella psicoterapia della Gestalt si favorisce la comunicazione, la dichiarazione ovvero l’esprimere, il manifestare i propri sentimenti e pensieri per cui un aspetto importante del lavoro sta proprio nel lavorare con chi vuole su qualunque argomento lei o lui voglia proporre sia che riguardi i propri aspetti intrapsichici che interpersonali: vanno bene cose non dette, cose che si ha voglia di comunicare o di approfondire, siano esse belle o brutte, ecc. Chi vuole lavorare semplicemente dichiara che vuole esprimere qualcosa in generale o a qualcuno e lo fa oppure parla del vissuto o argomento che vorrebbe approfondire.
Io lavoro principalmente con chi lo richiede e nei gruppi di formazione cerco ogni volta di presentare una certa varietà di tecniche ed interventi in modo tale da offrire un esempio delle diverse modalità di intervento che poter meglio poi, spiegando ciò che ho fatto, presentare il metodo gestaltico. Vorrei ora ricordate alcuni concetti che hanno che fare con tale metodo.
LA GESTALT NON È CENTRATA SULLA TECNICA
Per prima cosa voglio sottolineare che la Gestalt non è centrata sulla tecnica e questo significa che non si deve pensare che quando si conoscono le tecniche va tutto bene. Per me l’approccio gestaltico è centrato principalmente sul grado di coinvolgimento del terapeuta con il paziente da un punto di vista empatico, umano; cioè ha che fare con la sua presenza, con il suo esserci fenomenologicamente. Dice Paolo Quattrini “Una delle difficoltà consiste in genere nel fatto che conoscendo fenomenologicamente si è costretti a conoscere contemporaneamente anche se stessi, e non si può rimanere in posizione asettica, o comunque fuori dal contesto del rapporto, o insomma non centrata su se stessi. Conoscere fenomenologicamente è una lama a due tagli che obbliga il terapeuta a fare i conti con la propria realtà esistenziale anche mentre è in seduta con i pazienti, cosa che non pochi preferiscono evitare.”
Ricordo che Perls metteva in guardia dalla posizione dell’“intornismo” (aboutism). Bisogna stare dentro la relazione, è necessario raggiungere il paziente con il proprio stare onestamente con lui, bisogna avere la capacità di un “Io” che raggiunge un “Tu”. Naturalmente l’Io del terapeuta non deve essere “perfetto”, non è pensabile che debba essere esenti da limiti o da difetti perché questo sarebbe solo un ideale grandioso, irraggiungibile. Non esistono persone che non abbiamo dubbi o aspetti problematici del sé e quelli che dicono che non è vero secondo me semplicemente mentono o ingannano se stessi. Siamo tutti esseri in evoluzione. Forse un Buddha o qualche altro Maestro illuminato è uscito dal limite dell’essere un “io nevrotico”, ma sicuramente questi hanno comunque manifestato una posizione ben compassionevole e certamente umile nei confronti della sofferenza umana e non certo altezzosa o arrogante. Quindi un terapeuta non deve avere paura di quello che prova e vive; non deve avere vergogna, anche se in senso paradossale può permettersi di averla, di sperimentare confusione, tristezza, che “oggi non è giornata”, ecc., al contrario deve essere in grado di usare e di avere la capacità di trasmettere questo tipo di vissuti che è normalmente molto rilassante per il paziente e lo aiuta ad accettare le proprie difficoltà con maggiore dignità. La terapia si fa con la presenza, ovvero avendo realizzato dentro di sé questa umanità.
Beisser, lo psicologo americano che ha inventato la “Terapia paradossale del cambiamento”, dice che solo accettando di essere quello che si è si cambia; cioè, nel momento in cui l’individuo smette di manifestare il falso sé, ovvero la maschera, ed è in grado di dire per esempio: “io sono questo, sento contrazioni alle budella, sono in ansia, mi sento confuso, eccitato, arrabbiato o mi viene da piangere e via dicendo”, quando l’individuo è centrato su ciò che è, allora è in contatto con ciò che è, ed in questo modo, paradossalmente, non cercando di cambiare a tutti i costi, si ritrova. Il problema è che noi non ci si ritrova perché abbiamo dei fantasmi nella nostra mente che sono chiamati “introiezioni” che formano il nostro “top dog”, espressione proposta da Perls e che corrispondente al super-Io psicoanalitico. Il top-dog è costituito dalle ingiunzioni parentali o del nostro immediato ambiente. Queste introiezioni ci dicono come va bene e come non va bene essere, ciò che è bene e ciò che è male, quale aspetto di sé mostrare e quale nascondere. Ci costringono ad obbedire pena il senso di colpa o di inadeguatezza. Sono una presenza costantemente ossessiva che decide della nostra felicità. È infatti difficile essere felici se il nostro top-dog non ci appoggia. È in questo modo che si struttura il carattere. Il carattere è sovente considerato come una risposta conflittuale all’ambiente e quindi di fatto un meccanismo di difesa, una difesa dalla paura di non essere accettato, di non essere “riconosciuto”, di non essere amato. Quindi un terapeuta deve avere la capacità di mantenere la presenza ovvero l’attenzione su ciò che sperimenta in senso fenomenologico senza giudicarsi.
USO DEL CONTROTRANSFERT
Una delle tecniche che considero molto importanti nella pratica psicoterapeutica è quella dell’uso del contro-transfert . Per contro-transfert intendo tutto ciò che il terapeuta sperimenta nel contatto con il paziente. Una parte di questi sentimenti vengono direttamente dal paziente e un’altra parte viene invece dal passato del terapeuta e in questo caso si tratta di “transfert” del terapeuta. Non bisogna confonderli ed è necessario prestarci un po’ di attenzione. Il contro-transfert è in generale l’effetto che il paziente fa sul vissuto del terapeuta quando questi non aggiunge il proprio contributo personale (transfert) alla relazione anche se va considerata l’indicazione di Erving Polster secondo cui nella Gestalt non tutto ciò che il terapeuta prova verso il paziente è di natura controtransferale: ”Quando io esprimo tristezza di fronte a ciò che qualcuno dice, può trattarsi semplicemente della mia tristezza e può essere l’espressione della mia emozione nell’ambito del contatto attuale e non necessariamente una posizione controtransferale ”.
Quando il terapeuta presta attenzione a ciò che il paziente produce in lui può rendersi conto di sperimentare sensazioni, emozioni, pensieri e fantasie e questi vissuti possono fornire informazioni preziose sulla natura dei problemi del paziente. Si potrebbe dire che ciò che il paziente produce nel vissuto del terapeuta è in qualche modo corrispondente a ciò che altri hanno fatto sentire a lui. Per esempio se davanti a un paziente molto disturbato il terapeuta sperimenta paura o angoscia è quasi certo che queste emozioni hanno anche riguardato il vissuto del paziente che lo comunica attraverso i propri sintomi. Il terapeuta peraltro può anche rendersi conto che la comunicazione del paziente lo mette in contatto con qualcosa del suo passato che gli appartiene, come sue antiche insicurezze, rabbia, paure, ecc.. Può ricordarsi di suoi antichi modelli di relazione, di unità sé-oggetto per usare l’espressione di Kernberg che meglio vedremo più avanti. Sempre il disturbo del paziente mette a dura prova le difficoltà o gestalt aperte del terapeuta, ma questo non significa che per questa ragione il terapeuta non debba sentire o parlare di ciò.
Esprimere tali vissuti nella condivisione, cioè dichiarare il proprio contro-transfert per il beneficio del paziente e non per il proprio (nel senso per esempio di volersi mettere a tutti i costi a proprio agio) è appunto una tecnica specificamente gestaltica molto diversa da quella psicanalitica, la tecnica del silenzio e dell’astensione, ove al contrario in linea di massima non si dovrebbe esistere come individuo ma essere solo come una specie di specchio che riflette. Nella Gestalt invece, come del resto in genere negli approcci a orientamento umanistico, il contro-transfert non solo è permesso, ma è utile.
Naturalmente, bisogna capire che queste manifestazioni vanno calibrate perchè non è che uno dice tutto quello che gli passa per la testa. Ritengo opportuno “pesare” le parole che si dicono specie quando esprimerebbero cose di una certa intensità, e non per un motivo moralistico, ma per un motivo di valutazione di idoneità a dirle. Bisogna infatti sempre chiedersi: il paziente può sostenere una comunicazione forte? Posso dirgli che sono irritato con lui o lei? Oppure che ho una fantasia sessuale? Che mi fa paura? Facendo così cosa ottengo? Lo farei per soddisfare un mio bisogno oppure per dargli una mano, per fare qualcosa di utile?
Bisogna quindi stare un po’ attenti e sempre mantenere una valutazione delle proprie azioni.
Dopo che un terapeuta è in grado di fare una valutazione allora può decidere se dire e quanto dire di quello che sente del proprio contro-transfert. Con il paziente si deve imparare ad andare lentamente, non bisogna aver paura di andar piano, non c’è l’obbligo di concludere tutti i problemi all’interno delle singole sedute. Le sedute possono anche rimanere “aperte”, cioè non concluse. Continueranno per conto proprio anche dopo l’uscita del paziente dallo studio. Vi ricordo l’effetto Zeigarnik che significa che se si lascia una gestalt aperta questa per sua natura cerca una chiusura ed è quindi utile per il paziente lavorare per conto proprio a questo compito. Nel corso della seduta successiva il paziente parlerà della sua elaborazione del problema e del suo modo di gestirlo.
In terapia bisogna trovare le gestalt aperte nelle persone e un concetto importante di cui voglio parlare è che la psicoterapia della Gestalt non è centrata sul sintomo ma è piuttosto centrata sulla persona. Non si cerca di curare un sintomo ma si aiuta piuttosto la persona a crescere, si aiuta la persona a scoprire la propria capacità. Non è una terapia “materna”, a Perls non piacevano i bambini, lui frustrava i suo pazienti per costringerli ad usare la propria energia anziché delegare il terapeuta a risolvere i loro problemi.
Il terapeuta, se ci riesce, può solo risolvere i suoi problemi, e per ciò che riguarda il paziente, invece, lo può aiutare a trovare la forza per badare a se stesso. Naturalmente ci sono situazioni in cui è necessario fornire più o meno sostegno, per me nella maggior parte dei casi è necessario almeno inizialmente essere accoglienti, essere almeno un po’ caldi, essere una “persona umana”, questo non solo in terapia ma anche nella vita mi sembra un’ ottima idea.
Bisogna comunque imparare che in seduta non si deve cercare di risolvere tutto ma si deve lasciare un po’ di spazio al paziente per trovare le sue proprie soluzioni che, tra l’altro, in questo modo sono molto più durature.
IL LAVORO SULLA CONSAPEVOLEZZA E SULLA RESPONS-ABILITÀ
Ciò che a mio avviso nella fase di avviamento del processo psicoterapeutico bisogna fare è cominciare a stimolare la consapevolezza del paziente nei suoi tre ambiti: corporea, emozionale e cognitiva. Alcune suggestioni preliminari sono: “cosa sperimenti qui e adesso? Di cosa sei consapevole?”.
Per approfondire la consapevolezza sul piano corporeo si può dire: “Osserva ciò che stai provando nel tuo corpo! Nota il tuo respiro! Presta attenzione a come sei seduto. Sii consapevole delle tue tensioni muscolari e di qualunque sensazione tu sperimenti come pruriti, solletichi, contrazioni, fastidi, ecc.”. Da un punto di vista emotivo si può suggerire: “ Presta attenzione a quali sentimenti affiorano alla tua consapevolezza. Nota qualunque emozione tu possa sperimentare anche se si tratta di ansia, di paura, di rabbia, vergogna, ecc.”.
Per ciò che riguarda l’ultimo aspetto, quello cognitivo si può chiedere: ”Quali sono i pensieri che ti vengono in mente? Presta attenzione, magari puoi chiudere i tuoi occhi e guardare cosa c’è dentro. Cosa appare?”.
Ciò che appare normalmente è la figura sullo sfondo, la figura in primo piano che richiede attenzione, integrazione.
Il concetto di figura nella psicologia della Gestalt si riferisce a ciò che emerge alla consapevolezza tra le tante possibilità mentre lo sfondo è più o meno l’inconscio freudiano, anche se i gestaltisti rifiutano la nozione di inconscio, in quanto questo viene generalmente considerato come un rifiuto di vedere, di entrare in contatto, per cui c’è un po’ la convinzione che Freud fosse per certe cose “fobico” e che abbia preferito definire una parte di sé come “inconscio” così da non prendersi la sua responsabilità direttamente di dire: “Non voglio entrare in contatto con queste cose”.
Se io presto attenzione, l’inconscio diviene conscio. Allora, dallo sfondo emergono delle cose in primo piano che possono essere la nostra tristezza, la nostra rabbia, la nostra impotenza, il nostro dolore e così via ….
Bisogna cercare di aiutare il paziente a definire la figura che emerge dallo sfondo, quindi cosa emerge dalla consapevolezza dell’ora. Questo è il primo modo, la prima cosa da fare.
Dopo aver avviato il processo della consapevolezza la seconda cosa da fare è aiutare il paziente a trovare una risposta funzionale ai problemi emersi. Abbiamo visto che per respons-abilità si intende “abilità a rispondere”.
Quasi sempre noi diamo per scontata la nostra identità, ci identifichiamo con ciò che gli altri hanno creduto e pensato di noi, con i valori e i riconoscimenti che ci hanno dato, per cui abbiamo una tendenza un po’ familiare a rispondere nei soliti modi. Se nostra madre davanti ad un circostanza di vita rispondeva deprimendosi allora c’è questa trasmissione del suo sistema di riferimento per cui la figlia tende a rispondere nello stesso modo anche se non vuole o magari in modo controfobico facendo esattamente il contrario, che peraltro rimane la stessa cosa solo rovesciata. Quindi c’è una tendenza ad ereditare un modo di rispondere, la nostra respons-abilità. Le risposte alle circostanze peraltro non sono obbligate e lo scopo della psicoterapia è appunto aiutare il paziente a modificarle, a trovare nuovi modi di rispondere per andare al di là delle sue fantasie fisse, bloccate dall’ auto-definizione.
Quando c’è una modifica della propria risposta si ha anche una modifica dello schema corporeo e per esempio l’individuo, anziché camminare gobbo e curvo, magari dopo cammina un po’ più dritto e con un respiro più ampio. Si modifica anche l’immagine del sé e a seguito della modifica della risposta; per esempio, anziché continuare a pensare di essere “il solito sbagliato e pieno di difetti”, può arrivare a sperimentare un buon livello di autostima che gli permette poi di accrescere l’autostima complessiva di sé in quanto questa si sviluppa proprio con il darsi valore. Non solo aumenta l’autostima, non solo si acquista più libertà, ma accresce anche la capacità di stupirsi e di meravigliarsi, la curiosità per tutte le cose che succedono. Miriam Poster diceva che i pazienti guariscono quando recuperano appunto la capacità di meravigliarsi, non dando più per scontato che le cose stanno in un certo modo. Si tratta in altre parole di recuperare un po’ dell’innocenza infantile che permette all’individuo di aumentare la curiosità per la vita.
Da un punto di vista tecnico per aiutare il paziente a sviluppare la sua capacità di risposta bisogna osservare le sue interruzioni. Per Perls la nevrosi era prodotta dal processo del continuo auto-interrompersi. L’accumulo delle gestalt aperte, delle sue personali auto-interruzioni produce poi la specialità in cui uno è nevrotico. Per esempio se qualcuno sperimenta un impulso a fare una certa cosa, o a dire o semplicemente a pensare in un certo modo e a procedere in quella direzione magari interviene un “no, no, no” interno perché squilla l’allarme di famiglia, una specie di circuito omeostatico nella mente per cui quando si va più in là di una certa temperatura scatta l’allarme. Si produce una sequenza immaginativa in stile paranoide del tipo: la mamma disapprova e urla, al papà viene un infarto, i vicini cominciano a criticare … e allora uno si ferma, si auto-interrompe. Non dico che bisogna buttare via del tutto il sociale, ma certo una grande quantità di pregiudizi e “piccinerie e meschinità” vanno proprio eliminate, spesso sono zavorre inutili. Naturalmente vanno tenuti i comportamenti civili perchè non è che uno alle quattro del mattino si mette urlare e sveglia tutto condominio, perché è “libero”, non vuole auto-interrompersi e vuole esprimere le emozioni. Certo bisogna avere una considerazione e un rispetto per il prossimo. E’ una questione di “dosaggi e circostanze”. Non si tratta di non permettersi mai certe manifestazioni perché sono moralmente sbagliate, perché sono controllate dal super io/top-dog. Bisogna aiutare il paziente ad andare al di là di queste auto-interruzioni. Gli studi di psicoterapia dovrebbero essere attrezzati per permettere ai pazienti queste manifestazioni. Non si deve pensare di poter fare tutto sottovoce, c’è anche bisogno di piangere, di urlare, ecc. Bisogna quindi osservare le interruzioni.
Una delle caratteristiche dell’approccio Gestaltico è che si capisce sperimentando. Ho introdotto sinora dei concetti generali ma quando si lavora in sedute all’interno del gruppo ci sono due cose che possono succedere: la prima è che un paziente lavora su di sé; la seconda è che tutti gli altri lavorano su di sé attraverso quello che lavora. Non è che gli altri partecipanti del gruppo sono spettatori, non è che si può dire: “no non è interessante, cambia canale!”. Questo accade nella TV perché non c’è un’identificazione, ma nel gruppo quando la gente piange, ride o si arrabbia, vi posso garantire che nessuno rimane indifferente. Quelli che sono indifferenti fanno finta di esserlo oppure scappano perché hanno paura perché magari ci si avvicina a quel famoso termostato di cui parlavo… quindi c’è anche questo lavoro dell’esserci.
CORNICE TERAPEUTICA E MODALITA’ DI RELAZIONE CON IL PAZIENTE
Un’ultima cosa che voglio dire è che è importantissimo stabilire un contatto con il paziente prima di iniziare a lavorare. Il paziente ha tutti i diritti di odorarti, di tastarti il polso, di sentirti, di chiedersi se si può fidare di te, dopo che è stato tanto deluso in passato. Tenete presente che per il paziente c’è il rischio di stabilire un rapporto di dipendenza. Allora dipendere da qualcuno evoca i fantasmi di quando si è dipesi da quello che papà o mamma dicevano… Quindi c’è molta resistenza, si deve cercare di non produrre dipendenza. Io sono contrario a quelle pratiche psicoterapeutiche che richiedono di vedere tutti i giorni i pazienti; subdolamente forse per guadagnare un sacco di soldi e non certo per risolvere i loro problemi esistenziali. Non si dà il tempo al paziente di vedere se ce la fa, se ci riesce, se può applicare ciò che ha appreso e sperimentare nella sua solitudine; certo se uno è un bambino di dieci mesi, è giusto, va bene garantire della simbiosi perché ne ha bisogno. Resnick ha scritto un articolo intitolato ” il brodo di pollo è veleno”, che parla proprio di questo, questo dare la pappa: “mangia che è buono, ti fa diventare grande”. Questo atteggiamento non permette all’individuo di sviluppare una propria identità e di differenziarsi. Personalmente preferisco mantenere una certa “ distanza” sia nella relazione che in riferimento al setting terapeutico. Per esempio non accetto inviti a pranzo, magari per buona educazione o per non essere eccessivamente rigido posso prendere un caffè al bar. Non accetto regali e non permetto di essere contattato più di tanto nella mia vita privata. Ho questo atteggiamento per proteggere il paziente. Magari se non avessi questo scrupolo terapeutico molti dei miei pazienti mi piacerebbe averli come amici ma sono convinto che è meglio rinunciarci. Questo è il mio parere: non stabilite rapporti di amicizia con i vostri pazienti per il loro bene, perché poi dopo si entra in dinamiche per cui la cornice terapeutica non regge più.
La cornice terapeutica funziona quando rimane stabile. Non deve mutare. Magari il paziente si frustra perché pensa: “lui non mi accontenta, non prende il caffè con me, non accetta regali”. Magari piccoli regalini si possono anche accettare per non mortificare eccessivamente ma quelli troppo importanti non è il caso. Il paziente da una parte si sente frustrato da questa distanza ma dall’altra è contento perché dice: “Ah, ma questa cornice terapeutica regge, io mi posso fidare. È un riferimento. ”
Quindi bisogna stabilire una cornice e parlare chiaro. Lo si dice con grazia, delicatezza, con rispetto, con amore e anche magari con dispiacere: ” lo farei volentieri ma non lo voglio fare perché ho un principio, allo stesso modo per cui un chirurgo non opera suo figlio”. Meglio che non ci sia promiscuità e troppo coinvolgimento. Bisogna stabilire un rapporto che viene detto di transfert positivo, cioè un rapporto di fiducia. Quando il paziente comincia a fidarsi, sa che ti può dire le cose perchè si sente a suo agio e incomincia ad aprirsi.Anche il terapeuta darà i suoi feedback sempre adeguatamente alle sue valutazioni di idoneità come abbiamo visto a proposito del contro-transfert. Quando si stabilisce questa relazione di fiducia allora si può collaborare.
Riguardo alla gestione del lavoro all’interno della seduta e in modo particolare quando si raggiunge una certa intimità ed intensità emozionale, a mio avviso è un errore dire al paziente come si deve comportare, cosa deve comunicare, condividere col terapeuta o che deve pensare o fare. Considero invece più appropriato dirgli qualcosa del genere: ” decidi tu quando e se vuoi parlare o riferire qualcosa. Se vuoi possiamo continuare ed andare avanti oppure possiamo fermarci… io sono qui e sono disponibile”, cercando naturalmente di non dare mai l’impressione che se non si va avanti allora vuol dire che qualcosa non ha funzionato.
Non è che si deve pensare che solo quando c’è lo scoppio di lacrime o l’esplosione di rabbia o il paziente si mette a ballare allora la seduta è riuscita. Queste cose vanno bene se devono accadere ma spesso sono una sorta di show e non esprimono la verità del paziente. L’angoscia è una esperienza seria e spesso lenta nella sua elaborazione, va rispettata, va seguita adeguatamente, con molta calma, anche se ci si impiega degli anni non è tempo sprecato: è il suo passo. Quindi stare attenti al passo del paziente, bussare prima di entrare e non dare mai per scontato che il terapeuta lo può fare: è un errore, è un errore di invasione. Devi bussare, prestare attenzione ed essere delicato. Quando c’è questa interazione allora si può andare un po’ più avanti.
SULLE “GESTALT FISSE”: DISTURBI DI NATURA OSSESSIVA E PARANOIDE
Voglio esprimere le mie considerazioni su alcuni aspetti del disturbo ossessivo e paranoide derivati dalle mie osservazioni e tengo peraltro a precisare che si tratta solo della mia opinione in proposito basata su un numero ristretto di pazienti.
Trovo che una delle caratteristiche di questo genere di disturbo sia che la si riscontra in presenza di personalità che manifestano una particolare sorta di implacabilità e durezza. Si tratta di persone molto rigide che mantengono soventemente una posizione dalla quale non vogliono arretrare.
E’ come se si evocasse e richiamasse continuamente questa posizione rigida perché v’è una convinzione di fondo che essa sia funzionale e che solo facendo in questo modo si possa mantenere la propria posizione non scappando davanti alla minaccia rappresentata dal proprio “oggetto del conflitto”, il nemico immaginato del momento che è l’idea fissa. Si tende a ripetere continuamente il processo con possibili complicanze nella compulsività e nella ritualizzazione che ancora maggiormente hanno una funzione di mantenere tale posizione ancora più rigida, di marcare ancor di più il confine del contatto. Si vigila continuamente lungo la linea del confine “perché il nemico potrebbe arrivare in ogni momento”. Si può dire sostanzialmente che è un meccanismo di difesa. A mio avviso le emozioni che stanno alla base di tale disturbo sono la paura e la rabbia per l’oggetto del conflitto, per il nemico dal quale ci si vuole proteggere e che si vive come fonte di minaccia. Si rimane bloccati, come paralizzati all’interno di questa gabbia rituale come gestalt fissa sempre in primo piano che non recede nello sfondo non permettendo quindi la possibilità del rilassamento. Vi è uno stato di cronica tensione che non riesce ad alleviarsi perché si ha paura che non essendo all’erta la minaccia diventerebbe maggiore. Ci potrebbe essere il rischio di sentirsi impreparati in caso il nemico si ripresentasse. C’è uno stato di confabulazione continua, un dialogo interno con il nemico allucinato per trovare sempre nuovi modi di rispondere alla sua possibile aggressione. Si confabula in che modo lo si possa meglio respingere, punire, distruggere, ecc. Il desiderio di fondo è di far trionfare la propria posizione. Più c’è paura più c’è rabbia. Questo è un processo che rischia di essere senza fine se non si trova un modo di interromperlo. E’ importante scoprire la presenza di questa durezza e implacabilità che non si manifesta solo nei confronti dell’oggetto ma soprattutto nei confronti di sé. C’è una richiesta eccessiva nei confronti di se stessi.
Dal punto di vista terapeutico credo sia importante riuscire a promuovere un processo di auto-tenerezza nel paziente affinchè egli possa intervenire per spostare l’attenzione altrove piuttosto che mantenerla sull’idea fissa. Per amore di sé deve imparare a pensare ad altro, per farsi un piacere, per non ricascare nella stessa buca. E’ utile il lavoro con la doppia sedia in cui gli si chiede di identificarsi sulla tristezza per la sua perduta serenità da una parte e l’oggetto ossessivo dall’altra enfatizzando dalla parte del sé triste il concetto che “per amor mio prendo distanza da te …. quando arriverai ti volterò le spalle…”.
Di seguito una poesia di Portia Nelson che trovo in proposito molto eloquente. Si intitola:
AUTOBIOGRAFIA IN CINQUE PARTI
1
Cammino per la strada.
C’è un buco profondo nel marciapiede.
Ci cado dentro.
Sono perduta, sono disperata.
Non è colpa mia.
Ci vorrà un’eternità per uscirne.
2
Cammino per la stessa strada.
C’è un buco nel marciapiede.
Fingo di non vederlo
e ci cado dentro di nuovo.
Non posso credere di essere allo stesso posto.
Ma non è colpa mia.
Ci vorrà molto tempo per uscirne.
3
Cammino per la stessa strada.
C’è un buco nel marciapiede.
Lo vedo.
Ci cado dentro, è un’abitudine.
I miei occhi sono aperti,
so dove sono.
E’ colpa mia.
Ne esco immediatamente.
4
Cammino per la stessa strada.
C’è un buco nel marciapiede.
Ci giro intorno.
5
Cambio strada.
Per ciò che riguarda poi l’atteggiamento proiettivo investito sull’oggetto nemico immaginario ho l’impressione che una caratteristica sia il non riuscire a coglierne le sfumature. Il nemico è demonizzato, è un diavolo che non ha più tratti umani e che la sa sempre più lunga di te: “ … e se io faccio così allora lui farà cosà … e allora io farò o dirò … ecc.” in una escalation senza fine. Questa dinamica aumenta sempre più la rabbia e la paura. Può essere utile alle volte in un processo terapeutico aiutare il paziente a vedere l’essere umano sotto il demone, aiutarlo a cogliere le sfumature, a vederne altri lati, a diminuire la sua carica di odio alleviandola con la possibilità di sviluppare una maggiore “tolleranza e accettazione” che può comprendere i punti di vista dell’altro. Ci si deve rendere contro che si è troppo duri e bisogna cedere un po’ da questa posizione. Bisogna mollare la presa. Se non proprio perdonare per ciò che si immagina il proprio nemico possa averci fatto, almeno ammettere qualche ragione in lui, vederlo più umano, dargli delle soddisfazioni e riconoscimenti, dargli dei meriti e delle ragioni identificandosi nel suo punto di vista. Ci si deve ammorbidire verso il suo comportamento. Al finale, così facendo in realtà non si fa un vero favore al nemico, che nella maggior parte dei casi è appunto solo immaginario, ma principalmente lo si fa a se stessi poiché ci si libera dalla morsa della sua presenza fissa come un chiodo nel cervello.
In questo modo si può intervenire sul tratto ossessivo compulsivo derivato da una antica rabbia per una reale o presunta offesa subita al proprio sé.
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