DALL’INCONTRO FERITO ALL’INTIMITA’ SOSTENIBILE
Abstract
di Marco Mazza
Psicologo – Psicoterapeuta
Pubblicato sul numero 25 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.
Abstract: La psicoterapia della Gestalt può aiutare chi vive la realtà della droga a prendere contatto con una realtà diversa e può fornire gli strumenti per sopportare il dolore, trasformarlo e permettere rapporti con gli altri nel mondo che non sono percepiti come scottanti, insopportabili, frustranti.
Abstract: Gestalt psychotherapy can help those who live the reality of drugs to make contact with a different reality and can provide the tools to withstand pain, transform it and allow relationships with others in the world that are not perceived as burning, unbearable, frustrating.
Keywords: tossicodipendenza, droga, sostanze, terapia, intimità, ciclo del contatto.
Per una psicoterapia gestaltico-fenomenologica della dipendenza da sostanze
Come sa ogni gestaltista, non esiste la Gestalt, esistono i gestaltisti, non esiste la tossicodipendenza esistono persone dipendenti da sostanze. Tuttavia, in questo lavoro, voglio riprendere alcuni temi cari alla Gestalt e descrivere come mi sono stati utili nella terapia con persone tossicodipendenti.
Breve lettura fenomenologica della dipendenza sostanze
Quando ero allievo al corso di Psicoterapia, per scherzare, ma mica tanto, una volta, a lezione, un nostro docente, Leonardo Magalotti ci chiese, “sapete perché uno se droga?” e noi lì in classe a cercare risposte intelligenti, psicodinamiche, psicologiche, psicomediche, psicoattive…ma lui ne diede una che nella sua ovvietà mi fece rimanere di sasso: “perchè a’ robba è bbona!”. A mio avviso, una delle difficoltà principali nel lavoro terapeutico con persone dipendenti da sostanze è quella di mettere sullo stesso piano la realtà non mediata da sostanze e la realtà da sostanza. É, spesso, una battaglia impari.
Mi ricordo di un episodio che mi è successo durante un turno con l’unità di strada di Villa Maraini, che fa servizio di prevenzione e riduzione del danno, fornendo siringhe pulite in cambio di quelle sporche. Quel giorno alla stazione Termini c’era un po’ meno gente del solito e io stavo dentro il camper un po’ timido, un po’ curioso. Ad un certo punto venne un signore che ci comunicò che a suo avviso, quel tizio lì immobile alla fermata dell’autobus stava male. Io e l’operatore senior corremmo con la borsa medica e ci ritrovammo un ragazzone fermo in mezzo alla corsia del 310, in piedi, con le braccia tese, il volto pallidissimo, le labbra blu e gli occhi fissi verso il vuoto. L’operatore, ex tossicodipendente, si accorse subito che il ragazzone davanti a noi stava avendo una overdose da eroina. Decidemmo, anzi decise, di portarlo vicino al camper fintanto che quello riusciva a muoversi. Arrivati al camper mi chiese di non farlo cadere a terra mentre lui andava a prendere il Narcan, nome commerciale del Nalaxone, antagonista degli oppiodi, che si somministra per bloccare l’overdose. Glielo somministrò su una spalla e dove qualche minuto il ragazzone riprese a respirare in modo regolare e, con quello, anche un po’ di colorito “umano” quando siamo ancora vivi. Qui avvenne una cosa che mi creò un sacco di stupore. Quando riprese conoscenza abbastanza piena, il ragazzone cominciò a imprecare contro di noi accusandoci pesantemente che avremmo dovuto farci i fatti nostri. L’operatore mi spiegò, senza essere per nulla stupito o impensierito, che noi, somministrandoli il Narcan. gli avevamo tolto gli effetti di “30 euro de roba”. Gli avevamo tolto la realtà che voleva, quella mediata dalla droga, tra l’altro pagata, da lui, a caro prezzo. Se va via la realtà è comprensibile che la persona si senta arrabbiata, in quanto lotta per avere il suo territorio. Anche perché se non c’è la realtà, cosa rimane? Facendo un po’ di poesia, suppongo il vuoto. E mi immagino, facendo un grande sforzo di empatia, che precipitare nel vuoto non sia affatto una sensazione piacevole, ma una situazione carica di incertezza, terrore, dolore.
E in tal senso, si può facilmente sostenere la tesi, che sul piano emotivo, in genere, le sostanze fungono da sistemi di “automedicazione”. O per lo meno, uno degli effetti che si ricerca, che non è detto che ne sia la causa, ammesso che abbia senso parlare di causa, è quello, appunto, dell’automedicazione del dolore. Questo lo si può vedere abbastanza frequentemente nelle situazioni di astinenza, nei primi momenti di lavoro terapeutico e nelle molto probabili “ricadute”, dove, ascoltando i racconti dei pazienti, si nota come la droga è percepita, e in un certo senso funziona, come alleviatore del dolore, della sofferenza, del disagio provato e impossibile da contenere, calmare, gestire. Ma da cosa un tossicodipendente si automedica? Senza voler fare generalizzazioni, seguendo Di Petta (2009), i pazienti dipendenti da sostanze soffrono la depressione e cercano di curarsela. La depressione che sentono è la depressione dell’impotenza, del dolore che attraversa più o meno trasversalmente ogni pezzo della propria esistenza, della disperazione come mancanza di speranza rispetto ad avere una propria possibilità di amore, di contatto caldo che non ferisce e non tradisce, di rapporto umano autentico e non basato sulle grandiosità narcisistiche. La mia ipotesi è che nelle persone dipendenti da sostanze è molto frequente incontrare “bambini” feriti nella intimità, abusati in varie forme, umiliati e traditi nell’amore, che hanno imparato a dipendere o a contro-dipendere per sentire di avere una possibilità di incontro d’amore, avvicinandosi, allontanandosi rapidamente ma quasi mai entrando in contatto profondo. La sostanza è spesso il mezzo, l’unico mezzo che hanno a disposizione, per avvicinarsi al mondo e agli altri senza “rischiare” di cadere in una relazione intima con un altro da sé che possa essere fonte di un rinnovato dolore, rinnovata disperazione. Allora l’altro e il mondo diventano possibili pericoli, da cui difendersi, da tenere a distanza, al massimo da sfruttare, quasi mai da contattare, in quanto il contatto pur se piacevole, rischia diventare minaccioso, abusante, frustrante e pieno d’angoscia.
In questa ottica la dipendenza da sostanze è il non poter fare a meno di una realtà mediata dalla droga, la “drogaltà” che riempia il vuoto e che compensi il dolore.
La psicoterapia della Gestalt con le persone dipendenti da sostanze
La Psicoterapia della Gestalt, dal mio punto di vista, per come è interessata alla persona singola più che alla normalità, alla sua qualità della vita più che alle etichette diagnostiche, può aiutare a prendere contatto con una realtà diversa dalla drogaltà, e può fornire gli strumenti per sopportare il dolore e trasformarlo e permettere rapporti con gli altri nel mondo che non sono percepiti come scottanti, insopportabili, frustranti.
Chiaramente, il meccanismo della dipendenza da sostanze è un sintomo, quindi qualcosa che è stato utile, che ha permesso un adattamento a qualcosa di fortemente doloroso, e che piano piano sviluppa una propria autonomia, una vita “propria”. Comportamenti, azioni, processi mentali, idee, diventano schemi, routine, copioni difficili da riconoscere e dunque da modificare. Sono risorse per “vivere” che in una forte coazione a ripetere non danno spazio ad altro, vengono messe in gioco quando non serve, o servirebbe altro, si manifestano quando è inutile o dannoso che si manifestano. Il problema non è la sostanza di per sé, è il non poterne fare a meno, quella smania così forte che impedisce qualsiasi azione pienamente volontaria e responsabile, frutto dell’integrazione tra piano emotivo e cognitivo. Per inciso, vorrei sottolineare che la “smania”, quell’“annare a rota” come si dice a Roma, delle persone dipendenti da sostanze, ricorda il complesso del succhiotto di cui parla Perls (1947) in “l’Io, la Fame e l’Aggressività”. Come è noto Perls sostiene che se il bambino piccolo nel periodo in cui è svezzato dai cibi liquidi e comincia a mangiare i cibi solidi, non impara ad usare bene i denti, finisce con il non masticare e deglutire gli alimenti in modo non adeguato. È come se attaccasse i cibi senza “metterci il giusto” tempo per morderli, masticarli e aggredirli. Questo atteggiamento secondo Perls si traduce da adulti in un aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno, insomma nell’essere dipendente a qualcosa o qualcuno, senza fare gli sforzi necessari per raggiungere i propri obiettivi, senza pagare cioè i costi delle decisioni intraprese.
C’è differenza come è noto, tra azioni che nascono dall’ascolto delle emozioni e dalla scelta chiara e responsabile frutto di una valutazione cognitiva delle conseguenze e dei prezzi da pagare, rispetto alle azioni acting, ovvero im-mediate, non mediate dalla scelta. La dipendenza da sostanze è un sintomo che irrigidisce moltissimo i comportamenti e che toglie quasi ogni possibilità di avere un rapporto col mondo basato su uno scambio alla pari, perché scambio, al livello relazionale, vuol dire incontro tra un io e un tu reali, con pari dignità. Scambio vuol dire accettare la frustrazione e le conseguenze dell’incontro con un altro da sé che non può riempire nulla, non può togliere il dolore e la disperazione, che fa la sua cosa, come ognuno fa la sua cosa e che non è qui per lui, per parafrasare la vecchia cara preghiera di Fritz. Gli effetti nella qualità della vita, su cui cerca di agire la psicoterapia, di questo tipo di ideologia delle relazioni sono chiaramente devastanti. Se aspetto che sia l’altro a dover colmare un vuoto o a “rimediare” al mio dolore, l’altro diventa un altro impossibile, idealizzato e poi distrutto e distruttivo, così come viene distrutta ogni relazione. Non resta che la drogaltà.
Ed è proprio sul sostenere, sullo scoprire nuove possibilità di rapporto con il mondo, con gli altri da sé, che si può piano piano, in psicoterapia, sostituire alla drogaltà la realtà, forse meno sballante, forse più frustrante, ma l’unica dove si può costruire una vita umana piena di senso. Non che la vita delle persone con dipendenza da sostanze non abbia senso di per sé. É che sospetto, che il senso venga disperso nel vuoto d’animo, come l’ossigeno si disperde nello spazio aperto. Non si tratta, a mio avviso di riempire un vuoto, ma di imparare a vedere quello che c’è, portandoci l’attenzione e di trovare il senso. Una vita senza senso rischia di diventare una vita senza qualità.
Il ciclo del contatto e le interruzioni
Secondo Fritz Perls (1971), un organismo sano è un organismo che sta in contatto con il proprio ambiente avendo possibilità di scambiare con esso, per trarne nutrimento e poter permettere la soddisfazione dei suoi stessi bisogni. Secondo il fondatore della Gestalt il contatto organismo ambiente è vitale e permette l’accrescimento e l’evoluzione dell’organismo e dell’ambiente stesso e il tutto è guidato, da una sorta di saggezza organismica che permette il riconoscimento dei bisogni e consente all’organismo di muoversi nell’ambiente per soddisfarli. Senza ambiente il mio bisogno è insoddisfatto, ma muovendomi dentro l’ambiente la mia azione non è innocente, bensì produce degli effetti che modificano l’ambiente stesso. Per cui, tramite il ciclo del contatto l’organismo trova la sua sopravvivenza tramite l’ambiente e l’ambiente si assicura la sua trasformazione, per lo meno la sua mutazione, attraverso l’organismo stesso. Se si blocca il processo del contatto organismo ambiente, ne risente la qualità della vita in quanto si rimane paralizzati, fissati ad un bisogno, senza per altro riceverne il relativo nutrimento e non permettendo all’organismo di fluire verso altri bisogni o desideri. Questa blocca l’energia dell’organismo sul bisogno che rimane insoddisfatto e impedisce di mobilitarla verso altri lidi. La conseguenza è una vita nella ruota del criceto. Fatica, poco nutrimento e scarso senso.
Il ciclo del contatto, negli umani riguarda anche i bisogni più complessi, come quelli relazionali, di autostima e di autorealizzazione (Maslow, 1954) e i desideri, la cui soddisfazione non implica la sopravvivenza, ma il sentire piacere e qualità di vita. La Psicoterapia della Gestalt si occupa proprio di questo, ovvero di come consentire alla persona la soddisfazione dei propri bisogni e desideri nel e col proprio ambiente, in vista di una sperimentazione di una migliore qualità della vita.
Il ciclo del contatto come “cura” con persone dipendenti da sostanze
Nella mia esperienza con persone dipendenti da sostanze ho notato la difficoltà ad entrare in contatto con emozioni e sensazioni, a prendersi la responsabilità dei propri desideri, a impegnarsi nel portarli avanti e nel pagare i prezzi delle scelte, a godere dell’esperienza stessa in quanto “non basta mai”, in quanto le cose a disposizione non fanno mai superare la soglia della soddisfazione, e, come conseguenza, non si riesce a registrarla come interessante per se stessi. Ho osservato forte velocità, pochissima disponibilità ad affacciarsi alle emozioni, oppure ancora un certo grado di proiezione paranoica, rispetto alla difficoltà di soddisfare un bisogno, la quale dipende sempre da qualcosa di esterno, ingiusto e più forte.
Non credo ci siano, non è mia intenzione parlarne adesso (e nemmeno ritengo troppo utile interrogarsene) specifici modi di gestire il ciclo del contatto da parte dei tossicodipendenti. Invece ritengo molto utile terapeuticamente il ciclo del contatto così come è stato operazionalizzato da Quattrini per aiutare questi clienti a recuperare un contatto con la realtà e le sue risorse e ristabilire nuove possibili realtà interessanti e non così distruttive come la drogaltà.
Uso il termine recuperare, ma lo considero già improprio, in quanto si tratta più che altro, di imparare a guardare al proprio mondo interno, fatto di emozioni e sensazioni, senza temere di rimanere folgorati e bruciati, di riuscire, con pazienza a trovare modi per soddisfare se stessi senza pretendere che sia qualcun altro o qualcos’altro a farlo.
Quattrini ha tradotto il ciclo del contatto in quattro fasi:
che sento?
che penso?
che scelgo di fare?
che sento?
Questo modo di intendere il ciclo del contatto può funzionare come guida per il terapeuta e per il paziente per districarsi nel mondo dei bisogni e dei desideri, permettendo lo sviluppo della consapevolezza e dell’assunzione di responsabilità rispetto a se stessi e al proprio desiderare.
Nel lavoro con persone dipendenti per il terapeuta è molto importante andare con calma e pazienza, ascoltarsi di continuo e anch’egli fare attenzione ai propri bisogni e al proprio modo con cui si fa contatto o si sta evitando di fare contatto.
Per i pazienti, il ciclo del contatto così operazionalizzato, credo sia molto utile perché piano piano vengono accompagnati a fare scoperte interessanti di se stessi e del mondo, allargando l’orizzonte degli eventi verso nuove possibilità. Ecco che lentamente, non senza difficoltà, con un po’ di stupore e commozione, si può arrivare a vedere che oltre alla drogaltà c’è una realtà, che è anche abbastanza interessante, oltre che dolorosa, e che il vuoto non esiste, giacché esso non esiste in natura, perché, come dice lo stesso Quattrini, per scoprire se una cosa è vuota ci devi infilare qualcosa dentro…
Chiaramente, il ciclo del contatto non è una tecnica. O meglio, se è usato come una tecnica non serve a nulla. Il ciclo del contatto è un incontro e se per primo il terapeuta non è disponibile all’incontro autentico con se stesso e con l’altro non succede nulla di interessante. Importante dunque che il terapeuta sappia come muoversi per fare egli stesso contatto con se stesso nell’incontro col suo paziente e costruire un’alleanza che sia calda, umana, rispettosa dell’io e del tu. In questo modo, come dice Quattrini, tra i due si può aprire uno spazio abitabile da entrambi su cui si possono affacciare emozioni e contenuti interni. Nello spazio così creato si può attivare il processo di trasformazione, che è processo creativo, non volto a cambiare l’altro, ma volto a permettere all’altro ma anche al terapeuta, di sperimentare nuove possibilità di azione nel mondo. La terapia, come dice Rossi (2009), diventa processo di adattamento creativo che si gioca nell’incontro tra l’io e il tu del terapeuta e del paziente. In questo approccio, dunque, se il terapeuta non è disposto a coinvolgersi, a rischiare di incontrare se stesso con i propri tormenti e dolori, e incontrare l’altro per come è, e non per come dovrebbe essere, anzi, per come fa, e non per come dovrebbe fare, ecco se non c’è questa disponibilità, che in qualche modo ha a che fare con l’amorevolezza di cui parla Polster, non accade nulla di trasformativo. A “curare” è dunque uno spazio di intimità, spazio e tempo dove può avvenire l’incontro tra due io, un incontro rischioso sì, ma anche nutriente. L’intimità è come il ballo in coppia, dove le due persone si avvicinano, si allontanano, si com-muovono, si sentono, liberi e insieme. L’intimità richiede contatto con se stessi e con la relazione. Nella dipendenza invece l’altro è necessario a colmare un bisogno ma non è mai qualcuno, distinto da sé, con cui muoversi insieme.
Se il paziente fa esperienza che è possibile fare incontri intimi con il suo terapeuta, col suo tempo può imparare a fidarsi e a costruire incontri intimi con altre persone nel mondo. In questo modo può imparare a contattare il suo tunnel vuoto e non cercare qualcosa per uscirne o per colmarlo, ma “semplicemente” cercare dei modi e degli incontri interessanti per arredarlo e decorarlo.
Una possibile conclusione: dalla dipendenza all’auto-sostegno passando per l’intimità
L’incontro col terapeuta disponibile a lasciarsi incontrare diventa un gioco di intimità, un’intimità dove ciascuno ha il suo con-fine, ovvero due “frontiere” che si toccano senza togliersi il proprio territorio personale.
È questo tipo di incontro che piano piano, può permettere il passaggio dalla “dipendenza da sostanze” o “da qualcuno” per stare al mondo, al richiedere e ottenere un sostegno affidabile, caldo e grazie a cui si può sperimentare nuove possibilità, fino all’auto-sostegno intimo fatto cioè del calore del con-tatto, cioè del toccarsi a vicenda, con delicatezza e rispetto.
Un incontro in cui un Io, consapevole delle proprie emozioni e bisogni, responsabile e disposto creativamente verso l’altro, si permette di avvicinarsi e allontanarsi da un Tu, scegliendo di volta in volta, in base come sente e a quello che desidera e non sulla base di automatismi privi di intenzione consapevole.
Un incontro in cui Io non dipende da “esso”, non visto come un Tu, una cosa sprovvista di dignità e perciò da sfruttare; un Io che non dipende nemmeno da essa (la sostanza e la drogaltà) per entrare in contatto con qualsiasi Tu.
Un incontro in cui Io è capace di sostenersi da solo, e non sentirsi solo al mondo, in cui è capace di chiedere sostegno senza rimanere aggrappato, sentire di esser-ci lasciando all’altro lo spazio di esser-ci.
Un incontro in cui Io e Tu possono danzare insieme nel mondo la danza della vita.
Bibliografia
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- Rossi, O. (1998), L’utilizzazione clinica dell’attenzione e della consapevolezza nella Psicoterapia della Gestalt, Formazione in Psicologia, Psichiatria, Psicoterapia, 32-33.
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