Architetture del silenzio e psicoterapia
Shobha Arturi – Medico e psicoterapeuta della Gestalt
Pubblicato sul numero 45 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
… restare in bilico come fa la pioggia sui fili del bucato…
C.L. Candiani, La domanda della sete
Mi riempie, il silenzio di questo pomeriggio estivo, assolato. Sola con questo inizio di scrittura e il suono quasi incessante di una cicala. Forse più d’una. Quasi incessante. Improvvisamente un arresto, che sia in ascolto? Io sono in ascolto… ed esplode il silenzio… oppure era esploso prima, contornato, sottolineato, esaltato dal suono costante. Ma ora è come se il mondo intero si fosse fermato, sospeso fra un canto di cicala e l’altro. Aspetto, ascolto: com’è ampia questa sospensione. Ampia feritoia in cui posso per un attimo entrare e sparire, oppure esserci, lì sospesa e vibrante in attesa. Semplicemente appagata e viva, nell’attesa.
Che lavoro immenso quello delle cicale: fabbricare così alacremente istanti di silenzio stupito. Infaticabili. Cominciano presto al mattino, a un’ora precisa, quando il sole ha scaldato il giusto le elitre umide e la vita le chiama, a ubriacarsi e ubriacarci di canti e richiami.
Poi improvvisamente più niente. Un niente intarsiato di arabeschi ininterrotti in cui perdere lo sguardo, o aprirlo, frattali magici, come merletti al chiacchierino, o come all’Alhambra a Granada, un contorno così sottilmente intricato che impiega la materia per esaltare i vuoti: un modo per rendere visibile l’invisibile, rappresentare il divino che non ha forma e tutto pervade. Così il silenzio fra un suono e l’altro, fra una parola e l’altra, esalta l’ascolto, lo rende più attento e intenso: si ascolta il riverbero delle parole dette, che dà accesso a molto più di quel che vien detto.
ASCOLTO E SILENZIO
Ascolta, figlio, il silenzio.
È un silenzio ondulato,
un silenzio,
dove scivolano valli ed echi
e che piega le fronti
al suolo.
F. G. Lorca – Poema del cante jondo
In un incontro, che sia di psicoterapia o di tutti i giorni, perché ci sia incontro e non casuale adiacenza, occorre ci sia ascolto. E non c’è ascolto di se stessi o di un altro se non c’è capacità di stare in presenza del silenzio. Addirittura di scovarlo e stanarlo in mezzo alle frasi e alle parole dette in fretta, gettate a caso. Fare silenzio non è proprio stare zitti, anche se ogni tanto può aiutare. Fare pause, creare pause, cercarle, invocarle. Così che il discorso diventi musicale. Parole come note, intercalate da pause. Parole che son dette e accolte, che lasciano segno di sé, un segno come le onde intorno al sasso gettato nell’acqua. Molto più del sasso che incontra l’acqua…
E anche conta nell’ascolto come sono dette, con che suono, con che incertezza o sicurezza, come il corpo le accompagna; occorre ascoltarle con la pelle, gli occhi e con il naso oltre che con le orecchie. Un tale ascolto evoca atmosfere e risonanze.
C’è imbarazzo e un certo evitamento dello stare in silenzio, sia da soli, sia insieme. Mi colpisce spiacevolmente che nella stazione di una metropolitana delle nostre città, già così piene di suoni e rumori, ci impongano il suono delle pubblicità. Una cacofonia, dove un suono ne copre un altro, impedendoci di incontrare un attimo di silenzio.
Silenzio che è possibilità di vedere e sentire davvero, di rigirarsi quel che sentiamo come una caramella sulla lingua, assaporando.
Silenzio che è stare nell’attesa che una parola ne evochi un’altra, mentre se ne coglie il gusto e l’eco. Un invito alla sospensione, a non riempire tutti i vuoti e le pause. In psicoterapia bisogna che il terapeuta sia in grado di proporre e insegnare il gusto della pausa, dando un ritmo allo scambio e al discorso, lasciando che il respiro abbia spazio e crei spazi, fra le parole, ma anche nel corpo di chi parla e di chi ascolta. È un’attesa attenta e al tempo stesso non concentrata, sospesa in quella che Freud chiamò “attenzione fluttuante”.1
Parlare, ascoltare, essere ascoltato in questo modo, costruisce un ponte relazionale di grande valore: ci si sente al centro dell’attenzione propria e dell’altro, come se davvero il mio dire risuonasse nella presenza dell’altro e acquistasse valore alle mie stesse orecchie. Diventa una co-costruzione, il dialogo, in cui il mio dire è voluto e cercato mentre ne sento l’eco nell’ascolto dell’altro.
INIZIAZIONE AL SILENZIO
Lasciare spazio intorno ai gesti ordinari, dargli una stanza…
C.L. Candiani, Il silenzio è cosa viva
Affinché l’attenzione fluttuante non sia pura distrazione e pensare ad altro, occorre essere iniziati e iniziare il paziente, all’attesa e al silenzio. Silenzio evocatore del vuoto da cui possono emergere intuizioni e nuove visioni. Silenzio presente e attento alle risonanze e alle sfumature, in cui le parole acquistano senso sia per chi le ascolta che per chi le dice. L’interlocuzione del terapeuta è punteggiatura, immette pause, provoca il ritmo, segue il respiro, apre nuovi orizzonti di senso.
Coltivare il silenzio e l’attenzione è la via che molte pratiche meditative2 indicano, non per sfuggire a se stessi, ma al contrario per entrare in un contatto più articolato e fertile con sé, per scoprire angoli e stanze poco frequentate, a favore della ridondanza di alcuni aspetti di noi che riconosciamo e ripetiamo per abitudine. È trovare ombre e luci e sfumature infinite del proprio mondo interno, non esattamente ciò che ci piace, ma una molteplicità che può essere foriera di novità.3 Meditare è essere presenti, è una pratica di contatto intimo diventare consapevoli.
È solo a partire dalla consapevolezza della molteplicità interna (non si parla qui di buono e cattivo, o di giusto e sbagliato) che possiamo iniziare un viaggio verso qualcosa di inedito, un viaggio trasformativo, quello che ci auguriamo quando iniziamo un percorso di psicoterapia: lasciare vecchi comportamenti e inaugurarne di nuovi. È un percorso impegnativo: solo il dolore di alcune situazioni esistenziali ci spinge all’impresa, e un anelito verso qualcosa di meglio ci attira. Un bisogno di cambiare qualcosa nel nostro modo di vivere e di intendere la vita ci porta a chiedere aiuto e andare in psicoterapia. L’ascolto di un altro diventa nuova possibilità di visione.
E la vita, anche nella sua fragilità, comincia a sembraci un’avventura che valga la pena di essere vissuta, in cui l’imprevisto nasce proprio qui, proprio ora, proprio dal pieno contatto con quello che è presente.4
UN SILENZIO CHE GENERA
Il valore del ritmo delle parole che portano al silenzio
Maria Lai
Questo silenzio ha un suono che mi porta immagini e sensazioni ineffabili e il desiderio sospeso e assetato di metterle in parole, che non ne violino il sapore.
Mi porta il desiderio di scriverle, di cercarle, le parole da scrivere, di mandarle su carta in giro, perché arrivino lievi e risonanti agli occhi e agli orecchi di qualcuno che legga. Un ponte leggero e solido, che porti la sospensione di ogni parola in modo che possa essere assaporata, soppesata, annusata… magari a portare un aroma di caffè o di gelsomino, o un ricordo marino. Parole che evocano l’eco di silenzio assorto, di speranza, di senso di mistero e di stupore rinnovato.
Il suono e il silenzio. Le parole e il silenzio. Un vuoto sospeso che genera.
Parole che portano senso oltre che significato, hanno dentro il profumo dei silenzi impiegati per avvolgerle e farle nascere. Ma anche del desiderio di chi le pronuncia o di chi le scrive, di andare verso qualcuno e di portargli in dono qualcosa (il silenzio come carta da pacchi, carta-da-zucchero) e in cambio… in cambio di un dono… la gioia necessaria di donare.
Gioia necessaria è quella del dono, del dare più che ricevere. O forse del doppio viaggio che dare parola implica. Dare parola perché ci sia ascolto, perché io e te possiamo infine esistere a fianco uno dell’altro ad ascoltare un’eco e i riverberi diversi che ha in noi. Lanciarsi eco come nel gioco da bambini, per contornare la maestosa solitudine di una valle montana. Io e te esistiamo in questa sospesa meraviglia, in solitudine, ma non soli, in una relazione da soggetto a soggetto, in cui ognuno si riconosce come umano.5
Occorre attenzione e intenzione, occorre una tensione attenta nel cercare di non gettarle a caso le parole, di farle venir su dense e leggere insieme. La gioia puntigliosa e lo sforzo di cercarle, ricamarle come sui teli della poetessa… Come Maria Lai ha fatto instancabilmente tessendo fili, poesie, relazioni.6
Che siano esposte, le parole ritrovate, che tu le veda, che tu le scriva nell’anima, che tu ne scriva di nuove e le mandi nel mondo… così io e le cicale le potremmo ascoltare.
LE PAROLE SECCHE
“Non gettare oggetti dai finestrini”
Ferrovie dello Stato
Le parole non contornate dal silenzio possono diventare vuote, dette tanto per dire. Oppure sono pesanti. Sono sedie e rocce, destinate a non risuonare. Possono essere secche, asciutte e a volte davvero utili: “Non gettare oggetti dai finestrini”. “Senso unico”. Utili, funzionali. Ci dicono lo stretto necessario, ne abbiamo bisogno. Ci affidiamo a loro per andare di qua e di là, seguendo indicazioni più o meno precise, “prendi la seconda a sinistra”. Ne abbiamo bisogno per comprare un chilo di pane. E’ la parola digitale, precisa come un numero: dice quello che dice. O almeno così pretende. Facciamo finta che sia così e così le possiamo usare come oggetti, e spostare e aggiungere e togliere. “Due ciliegie. Due.”
Ogni parola pesante ha poi un eco immateriale ma sensibile, fatto del tono e dell’accento con cui viene detta, scritta, ascoltata e di ciò che tutto insieme evoca, per ciascuno diverso… Il sapore di quelle ciliegie, il colore, il ricordo di quel viaggio in treno, quando ancora i finestrini si potevano aprire e io… col vestito leggero d’estate, ricamato a nido d’ape, andavo verso il mare, con il vento e i capelli scompigliati e sudati, e il sogno e l’avventura. E lo spavento del vetro di una bottiglia che si infrange vicina allo sportello. Mille frammenti, appena in tempo… Urla di qualcuno. Ecco, “Non gettare oggetti dai finestrini”.
SEDIE CHE NON ESISTONO
Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo
Archimede Pitagorico
È utile, spesso serve portare attenzione solo al significato: non sempre l’eco occorre alla bisogna. Ci semplifica la vita avere parole che significano e possiamo mandarci messaggi e descrivere accuratamente come suturare una ferita, punto per punto, movimento dopo movimento. Grande invenzione il linguaggio che ci permette di far viaggiare treni senza muoverci di casa, di comprare i biglietti, scambiare oggetti con oggetti. Grande invenzione il linguaggio che crea un mondo di mezzo dove possiamo manipolare sedie che non esistono, immaginare di costruirle e sistemarle in una casa, così come ci piace. Con le parole e i concetti che rappresentano, possiamo costruire mondi.
La scienza con i numeri e le parole fa miracoli, fa, piano piano e a volte velocemente, esistere oggetti che non esistevano. Possiamo dire parole che indicano particelle invisibili agli occhi umani, e con quelle parole le rendiamo concettualmente maneggevoli e possiamo inventarci modi, usando i loro nuovi nomi, per aggregarle o separarle creando nuove sostanze. La fisica e la matematica, insieme alla chimica, con le loro parole/concetti, ci aiutano a inventare strumenti che ci cambiano la vita. Ci fanno andare veloci e lontano, ci danno possibilità di esplorare l’infinitamente piccolo, o l’inimmaginabile vasto e distante. Come avrebbe potuto immaginare tutto ciò il nostro progenitore che articolava i primi suoni. Ma anche forse un nostro antenato molto più vicino nel tempo, un nostro nonno o bisnonno. Stupefacente, meraviglioso come il linguaggio abbia potuto portarci a scoperte e invenzioni.
Il significante e il significato di ogni parola, con il loro portato astratto e simbolico sono stati così importanti per lo sviluppo della scienza e della tecnica e di tutti i progressi materiali che ne sono conseguiti. Vivremmo in un altro mondo se così non fosse, con spostamenti lenti, fatiche fisiche molto più pesanti, vite materialmente più povere. Viviamo anche per questo in un’epoca e un mondo favoloso. Certo, possiamo anche causare immensi pericoli e disastri mai visti.
Ogni nuova scoperta ci pone davanti a scelte e responsabilità inedite. A interrogarci su come vogliamo vivere e come vogliamo usarle quelle invenzioni. Il senso del valore etico diventa sempre più importante: possiamo immaginare, progettare e creare strumenti meravigliosi e potenzialmente pericolosi. Come usarli e in che direzione andare. In questo sembriamo più lenti, meno allenati, meno raffinati di quanto la velocità e la pervasiva possibilità di generazione della tecnologia richiederebbe. Il senso dell’etica usa altre parole, quelle incartate di silenzio e di desiderio di contatto.
EVOCA IL MISTERO, LA PAROLA
La parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, mai. Lo avvicina.
Giuseppe Ungaretti
Non possiamo scordarci, proprio per la ricchezza dell’uso utilitaristico e funzionale delle parole, che c’è un altro portato, ugualmente ricco: quello evocativo e analogico, quello favoloso che fa ponte fra persone ed epoche. Un portato che pare meno preciso, anzi lo è. Il potere evocativo di ogni parola ci porta oltre allo spazio e al tempo che viviamo, oppure più profondamente a contatto proprio di questo tempo e di questo spazio. Apre una verticalità, in cui l’eco diventa spazio e intervallo: il vuoto restituisce il suono della parola come musica a fare ponte fra me e il mondo. Un’ eco che non ci lascia soli, che è fatto della tensione stessa di stare nel vuoto fra me e te, lanciandoti un invito. Sono parole che creano ponti fra umani, quelle che evocano immagini di vicinanza e distanza, di somiglianza e differenza, di scandagli dell’anima in cerca nel buio della sua luminosità. Sono le parole con cui a poesia e l’amore si dicono. Forti e gentili, contornate, incartate, risuonanti di silenzio. Parole che non coprono il silenzio, ma che ne hanno bisogno, ne sono nutrite e lo evocano, come alla fine di una buona musica.
Occorre allenarsi ad usare le parole in entrambi i modi, le parole usate in modo secco, asciutto, digitale, utile e funzionale e le parole usate in modo evocativo, poetico, onirico, amoroso.
Distinguerne i modi e i contesti. Decidere quando ci serve un modo e l’altro. Allenarsi, come in palestra. Nella maggior parte dei casi, veniamo molto più allenati all’uso digitale della parola (anche se confusamente e non sempre impegnando la capacità di ragionamento) dalla scuola in avanti. Per questo è prezioso il richiamo delle cicale al silenzio che solo ci può interrogare sul bisogno di parola sognante, di sogni comunicati e lanciati a qualcuno. Prezioso il richiamo dei poeti e della musica che col silenzio si nutrono e ci nutrono. Preziosa l’attenzione al sentire quel che abbiamo nel cuore e dove vuole andare e trovare le parole per dirlo.
SU DUE FRONTI
To man the world is twofold, in accordance with his twofold attitude and the primary words which he speaks. The primary words are not isolated, but combined words.
Martin Buber – I and Thou
In psicoterapia, incontrando qualcuno, abbiamo bisogno di usare entrambe le capacità delle parole, la capacità di indicare e significare oggetti astratti e concreti e la capacità di aprire squarci e risonanze in cui lo sconosciuto si annuncia come una nuova possibilità di cambiamento e trasformazione. Perché è chiaro che non si viene in psicoterapia per raccontare fatti più o meno dolorosi. Se fosse solo un raccontare fatti, basterebbe un registratore. E non è nemmeno raccontare a un amico, come succede, per sentirsi confortati. Si viene in psicoterapia per farsene qualcosa di quei fatti e di quel dolore. Per impastarli e farli diventare una storia inedita.
È un’esperienza strana e comune, nel raccontare una fiaba a un bambino, mille volte la stessa, che lui cerchi le stesse parole, le suggerisca. Sembra voglia vivere sempre esattamente la stessa storia. Ma è così? O non sta vivendo e ascoltando ogni volta una storia diversa, riempita via via, dall’attesa e dallo stupore, che anche sapendo, come va avanti, si rigenera come fosse la prima volta, anzi di più: i particolari acquistano colore e spessore, cose mai viste appaiono dietro un immaginario sipario… le emozioni rinnovano e si rinnovano, lasciando il narratore e il piccolo ascoltatore con gli occhi sgranati… E allora… cammina, cammina… e continuiamo insieme ad allenare l’immaginazione che riempie la storia di senso e di sfumature.
Così in psicoterapia il racconto di un fatto e di un episodio è un’invenzione, una riscrittura in cui il passato viene ricreato nel presente e si sporge verso un futuro aperto. Gabriel Garcia Marquez, scrittore e inventore di miti, in “Vivere per raccontarla”, scrive: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Erving Polster, grande maestro e ispiratore fra gli psicoterapeuti della Gestalt, scrive a questo proposito un testo imperdibile dal titolo “Ogni vita merita un romanzo”. Spesso si arriva in psicoterapia con un senso di disorientamento e poca capacità di apprezzarlo, il proprio romanzo. Di fatto in psicoterapia si comincia a sentirlo, ascoltarlo, riconoscerlo, scriverlo, narrarlo. Gli eventi narrati prendono forma, a volte inaspettata; ciò che narriamo nel presente del passato assume un senso, diventa un’occasione, passo che annuncia il prossimo,
DIREZIONE E SENSO: VERSO L’INFINITO
“…Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura…”
G. Leopardi, l’infinito
È un tempo speciale, ed è un incontro speciale quello che avviene in una seduta di psicoterapia in cui le parole hanno risonanza e sono cercate, assaporate, lasciate andare a volte, ritrovate, rinnovate, perché abbiano e diano senso a ciò che viviamo.
Una ricerca antica, vivere una vita che abbia senso. Una vita in cui il caso sia un filo da tessere, per creare arazzi, tele, paesaggi, non solo un groviglio inestricabile. Prima che si spezzi e la parola fine dia il suo segnale perentorio. L’inesorabile, la fine e la consapevolezza che ne abbiamo, ci spinge a non accontentarci, ci spinge paradossalmente a qualcosa che vada verso l’infinito. Immaginare che la vita abbia senso e cercarlo, e crearlo è un salto verso l’infinito che allude e apre al mistero per cui vale la pena essere vissuti e anche morire.
La religione è un modo in cui la ricerca di senso ha trovato casa nella vita umana. Prova a dare risposte. E per qualcuno porta pace, solleva dall’angoscia che ci accompagna e ci affianca se e quando consideriamo la nostra finitezza. Sono risposte che in molti hanno cercato e che hanno il valore di un lenimento per l’anima facilmente smarrita. In molti ne hanno e ne hanno avuto bisogno perché lo smarrimento non diventasse disgregante. E poiché a molti ha fatto e fa bene, trae dai suoi effetti il suo validarsi. Ci si crede perché ci fa bene crederci. Ci si appoggia e ci si sente sostenuti e la vertigine si calma.
C’è chi non si accontenta o ha altre disposizioni. In tutte le religioni ci sono persone che hanno accolto il sostegno così come proposto dal corpus dei dogmi e dei precetti e persone che hanno deciso di fare proprie le domande e non le risposte. Gli eretici. Eretico in greco antico vuol dire “che sceglie”.
Sono i pionieri che scelgono, quelli che tracciano sentieri sconosciuti, gli eretici, quelli che si permettono di errare. Ci spinge, come umani, un farci eroi quotidiani che non si accontentano di una comunque illusoria sicurezza e hanno desiderio d’altro.
“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir vertute e canoscenza”.
Dante a parlare così il suo Ulisse e ci indica con queste parole sia la fame che la direzione. È un errare, un vagabondare che segue un orientamento preciso, quanto ineffabile: è il senso di valore che nella vita chiama. Vertute e Canoscenza.
Un allenamento, quello al senso del valore, etico, estetico e logico che non viene insegnato in scuole e istituzioni, che non è dato, non ubbidisce a dogmi, ma va cercato, invocato, a partire da un richiamo che è più interno che esterno e da un ascolto attento a tale richiamo.
La psicoterapia è oggi uno dei rari luoghi di esplorazione e di apprendimento del proprio senso del valore, è luogo di incontro con il proprio mondo interno, luogo aperto, dove dare ascolto, voce ed espressione a parti di sé neglette e ignorate, a bisogni e desideri che possono disegnare nuovi paesaggi da esplorare, nuovi sentieri da scegliere. Alla ricerca del proprio preciso modo di trovare senso e gusto nella vita. Ad affacciarsi nel proprio unico modo al mistero che ciascuna vita è.
La presenza e l’esperienza del terapeuta permettono l’evento maieutico del cercare la propria via, del permettersi l’avventura dell’esplorazione e della scoperta di sé, correndo qualche rischio, ma non senza punti di appoggio. Come Virgilio per Dante, lo psicoterapeuta può accompagnare un altro in questo viaggio avventuroso, perché ne ha fatto uno analogo per sé, da questo trae la sua competenza e il suo stesso senso empatico ed etico che non lascerà il paziente andare dove il dolore e la frustrazione sarebbe disgregante, ma solo dove sia forgia del nuovo metallo. Come gli alchimisti è un accompagnare attraverso la confusione, verso la trasformazione. Ma sempre a partire da quello che c’è.
Un viaggio fatto in punta di piedi, in ascolto.
Bibliografia
Chandra Livia Candiani, La domanda della sete. Einaudi 2020
Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi 2018
Federico Garcia Lorca, Poema del cante jondo. Ed. Passigli 2019
Sigmund Freud, (1912a), “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, in Tecnica della psicoanalisi (1911-12), tr. it. in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1989 vol. 6
Maria Lai, Tenendo per mano il sole. A cura di B. Pietromarchi, L. Lonardelli, G. Melandri, Maxxi, 5 Continents Edition 2019
Giuseppe Ungaretti, Intervista a G. Ungaretti, Rai 1961. A cura di E. Della Giovanna
Martin Buber, I and thou, T. & T. Clarck Ltd, Edinburgh 1987
Gabriel Garcia Marquez, Vivere per raccontarla, Mondadori 2004
Erving Polster, Ogni vita merita un romanzo, Astrolabio 1988
Giacomo Leopardi, Canti, Garzanti 2002
Dante Alighieri, La divina Commedia, BUR 2007
Paolo Giovanni Quattrini, Per una psicoterapia fenomenologico-esistenziale, Giunti 2011
1 In “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico” (1912) Freud fornisce una serie di indicazioni perché l’analista non lavori su un piano cognitivo, ma su un piano analogico/associativo. Lasciandosi libero di fare, mentre ascolta, quel che chiede di fare al cliente mentre parla, associare liberamente.
2 Vipassana (meditazione del buddhismo) è forse una delle pratiche più diffuse. Vipassana significa “chiara visione” ed è uno stato di possibile esperienza, il frutto che può accadere perseverando nella pratica della Samatha (dimorare nella calma), per cui attraverso l’attenzione e la “guida” del respiro si sta in presenza di qualsiasi fenomeno interno o esterno che si presenti alla nostra consapevolezza, non rifiutando nulla.
3 Chandra Livia Candiani, poeta, traduttrice di testi buddisti e conduttrice di pratiche meditative come il Vipassana, nel suo libro Il Silenzio è cosa viva, scrive “la meditazione buddhista di visione profonda è un percorso che porta a guardare in profondità fino a vedere in trasparenza la condizione umana, non solo la propria, ma quella che attraverso le miriadi d differenze ci accomuna”.
4 “La teoria paradossale del cambiamento”, di Arnold Beisser, allievo di Perls e la cui vita fu segnata, ma non piegata, dalla poliomielite che lo rese tetraplegico a 17 anni, propone come via, appunto paradossale al cambiamento, una profonda accettazione e conoscenza di ciò che si è. Cambiare, non è più solo ambizione o lotta che di fatto sono ulteriori ostacoli alla possibilità di trasformazione, ma sviluppo fisiologico dell’antico detto, “conosci te stesso” iscritto sulla porta del tempio di Delfi e adottato da Socrate come guida del suo metodo maieutico di insegnamento.
5 Per Martin Buber esistiamo nel binomio inestinguibile Io e Te che segna nella relazione intersoggettiva il senso, a un tempo concreto e trascendente,dell’esistere come umani. Non è un caso che Buber scriva “I and Thou” in una prosa che è poetica, allusiva, evocativa, piena di silenzio. Non si può leggere un tale testo senza sprofondarvi.
6 Maria Lai, artista di origine sarda, poliedrica, poeta, tessitrice, narratrice e creatrice di miti, ha esplorato diversi linguaggi artistici, creando ponti relazionali fra genti ed epoche. Di seguito i titoli delle sezioni tematiche della grande mostra che il MAXXI di Roma ha dedicato a lei nel centenario della nascita nel 2019. Evocano la ricchezza del suo percorso creativo.
Essere è tessere. Cucire e ricucire;
L’arte è il gioco degli adulti. Giocare e raccontare;
Oggetto paesaggio. Disseminare e condividere;
Il viaggiatore astrale. Immaginare l’altrove;
L’arte ci prende per mano.
Incontrare e partecipare
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