Brevi lezioni di Gestalt

Direttore G. Paolo Quattrini

Istituto Gestalt Firenze

Di G. Paolo Quattrini

Direttore Scientifico Istituto Gestalt Firenze

Pubblicato sul Numero 37 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 

L’io

Da piccoli abitiamo nell’appartamento della nostra famiglia, dove anche se abbiamo una stanza personale, condividiamo la casa senza separazioni di territorio: come dire che il resto della famiglia entra e ed esce da questo nostro spazio senza chiedere il permesso e viceversa. Quando diventiamo adulti poi di solito si acquisisce una casa propria, nella quale per accedere gli altri devono suonare il campanello: abbastanza frequentemente però a livello intrapsichico le persone non costruiscono muri perimetrali che li separino dalle persone con cui hanno relazioni emotivamente rilevanti, ed è come se abitassero nella stessa casa, incapaci di contrapporsi agli altri chiudendo la porta nei momenti di attriti esistenziale. E’ come cioè se non avessero muri che li proteggono, come quelli di una casa che tengono fuori pioggia, freddo e seccatori, e conservare la propria integrità esperienziale è affidato a uno sforzo non di rado inefficace.

Lo sviluppo dei confini interni segue la stessa modalità della formazione delle perle: comincia con un granello che viene dall’esterno e poi procede per un successivo depositarsi di strati vari provenienti dall’interno che ne aumentano le dimensioni. Se l’evento si presenta in psicoterapia, il granello che viene da fuori può essere un deliberato intervento del terapeuta orientato allo sviluppo di strumenti per la gestione di tematiche esistenziali che generano sofferenza: gli strati successivi si depositano attraverso l’esperire le situazioni nel tentativo di gestire le proprie difficoltà esistenziali.

Come le persone in genere abitano a casa propria, così anche psichicamente sarebbe auspicabile che fossero protette dai confini dell’io, non intendendo con questa espressione un oggetto concreto che separa, ma il “come se” della metafora: come se ci fossero ci fossero delle pareti che semplicemente lasciano fuori persone e temi che non si possono o non si vogliono al momento affrontare. Il problema dal punto di vista psicoterapeutico è la costruzione di queste pareti: da dove si comincia, e come si procede, tenendo presente che si deve svolgere direttamente al livello dell’esperienza. In un’ottica fenomenologico esistenziale, dove non si può pensare in termini di strutture psichiche in quanto sono ipotesi e non fenomeni, i confini dell’io sono una metafora per evocare un’esperienza, cioè il limite fra quello che si è in grado e quello che non si è in grado di fare.

Spesso i pazienti portano in seduta la difficoltà di contrapporsi efficacemente alla volontà delle persone a cui sono legati, come se si trovassero su un piano inclinato in cui scivolano in una direzione obbligata: il problema si configura nei termini di trovare un appiglio per non scivolare. Si tratta naturalmente di un appiglio metaforico, ma l’esperienza a cui ci si può aggrappare deve essere concreta: di fronte alla paura di incorrere nella disapprovazione dell’altra persona, l’appiglio bisogna che sia sperimentare di sopravvivere a questa disapprovazione. In questo può essere centrale l’intervento dello psicoterapeuta, il quale può accompagnare attivamente il paziente in un ricordo o in una immaginazione in cui possa sperimentare l’effetto dirompente della disapprovazione subita e poi piano piano anche lo stato d’animo della tranquillità che ritorna. Il ricordo alimentato disciplinatamente di quella tranquillità, può costituire il grano di rena su cui si deposita la perla, se viene utilizzato dalla persona come indicazione per lo sviluppo della propria esperienza emotiva nella direzione di un superamento, per esempio, della paralisi indotta dalla paura.

Spostarsi verso “io” è allontanarsi dall’esperienza: “io” non esiste materialmente, è una funzione coesiva della mente, ma se non ho contatto con l’esperienza bisogna che la reifichi in un io, concreto come se fosse un Re di altri tempi. Se ho l’esperienza, che me ne faccio di un io! E’ come credere: si crede a quello che non c’è, mica si crede alla sedia su cui si è seduti. Insomma, mi aggrappo all’ io se non ci sono, se ci sono non ne ho bisogno. I freudiani, che si appoggiano sui concetti, ragionano in termini di strutture, e per loro l’io è una struttura mentre per i gestaltisti è un processo: per capire che in fondo è lo stesso bisogna considerare che le strutture sono processi lenti… Karen Hornay, l’analista freudiana di Perls, diceva: Es, Io e Superio sono elementi talmente incongrui fra loro che non c’è nessuna possibilità di articolarli. La realtà è che una persona è un conglomerati di personaggi con livelli di Io, di Es, e di Superio, che si intrecciano e scambiano fra loro: è come avere una città interiore. Per questo nell’ottica gestaltica è molto più funzionale guardare ai processi piuttosto che alle strutture.

La differenza fondamentale è il tipo di governo che si ha dentro: se è un governo monarchico si sembra una persona sola, se è un governo democratico si intravede una molteplicità. Purtroppo abbiamo questo sottofondo monarchico che non ci abbandona mai… malgrado che monarchico non sia bello, che non funzioni… siamo sempre lì a dire: “io sono io, devo fare questo e quello, altrimenti tutto diventa confuso”. Ci sono vari gradi di confusione in cui si può vivere: due poli abbastanza consistenti sono, per esempio, Monaco e Napoli, due realtà dove i livelli di confusione sono abbastanza differenti: a Napoli l’anima respira, a Monaco respira ugualmente, ma con più fatica…. Il problema sono i termini umani della faccenda: in un regime permissivo c’è più confusione, che può andare da livelli tollerabili a livelli intollerabili, ma la cosa democratica non implica per forza dei livelli intollerabili. Se si fa lo psicoterapeuta non si può essere troppo precisi, perché se si è troppo precisi non c’è posto per gli altri. Se sei abbastanza napoletano c’è posto per tutti, ma se sei di Monaco no: è importante sviluppare una tolleranza alla confusione abbastanza ampia per facilitare questo mestiere.

 

L’autostima

Si dicono pazzi quelli che sono narcisisticamente rotti, e non sono quelli che non hanno capito, ma quelli che hanno capito troppo: la follia è un po’ come essere senza pelle, e paradossalmente i pazzi sono quelli troppo in contatto. Per sopportare il mondo, un contatto sano necessita di uno strato di pelle, cioè di materiale mezzo vivo mezzo morto: la pelle dell’anima è l’illusione, le persone normali hanno uno strato di illusione che permette loro di muoversi nel mondo, di fare una serie di cose che senza l’illusione non farebbero mai. Quando usciamo di casa siamo illusi che ci ritorneremo, quando andiamo in motocicletta siamo convinti di riportare la pelle a casa, ma non sempre è vero: il pazzo non ha questa l’illusione e logicamente ha ragione, anche se poi statisticamente abbiamo ragione noi. Un’illusione indispensabile è l’autostima, l’illusione che gli altri apprezzino quello che si fa. Questo tipo di illusione appoggia sulle sbucciature delle ginocchia: un bambino deve sbucciarsi le ginocchia, senza rompersele. Se un bambino non si sbuccia le ginocchia diventa un semolino, se se le rompe diventa magari zoppo. Le ginocchia sono metafore del narcisismo: vivere in un uovo narcisistico mai sbucciato, comporta una impossibilità di accorgersi del mondo intorno. Per coltivare l’illusione dell’autostima, gli adulti devono consolare il bambino quando è ferito narcisisticamente, finché la ferita si cicatrizza e guarisce, il bambino allora non è più come prima, è più solido, cicatrizzandosi qua e là prende forma un narcisismo solido, sbucciabile e riparabile.

Se la persona è rotta narcisisticamente non si piace, e si può fare quello che si vuole ma non serve, e non c’entra niente come è: il narcisismo rotto non si ripara, chi è convinto di non piacere può avere tutte le conferme che vuole ma non funziona. Si può però rimediare spostando l’investimento da sé alle proprie opere, come fanno per esempio gli artisti, che sono in genere famosi per la trascuratezza personale, e anche molti scienziati, che investono il proprio narcisismo sul pensiero. Un paziente con un narcisismo rotto bisogna quindi accompagnarlo a spostare l’investimento da sé stesso a quello che fa.

L’etologia dice che gli individui più forti mantengono il territorio e gli altri se ne devono andare, e i neri sono quelli che sono rimasti sul territorio primordiale dell’umanità, la quale è comparsa in Africa: in altre parole sono gli aristocratici dell’umanità, mentre i bianchi sono i disgraziati che se ne sono dovuti andare. I neri con due stracci sembrano principi mentre un bianco per sembrare elegante deve spendere una fortuna, perché i neri sono investiti narcisisticamente su se stessi più dei bianchi. Perché i bianchi hanno la mistica del lavoro? Perché sono meno investiti narcisisticamente su di sé e più investiti sui loro prodotti. Perché i neri della tribù africane sono considerati primitivi? Perché non gli importa di bacarsi il cervello sulle cose astratte, stanno su quello che hanno e si divertono più dei bianchi: gli paracadutano sui villaggi dei viveri, loro mangiano quello che possono, poi vendono quello che rimane, ci comprano birra, se la bevono e una settimana dopo sono senza mangiare lo stesso perché sono poco investiti nel futuro! Perché l’italiano medio passa una vita a mettere da parte i soldi per comprare una casa ai figlioli? Perché è investito nei figli, nel futuro: la civiltà bianca ha vinto e stravinto perché era investita sul futuro. E’ la vecchia storia della formica e la cicala: se investi sul presente, ti diverti, ma non ne hai indietro prodotti. In caso di narcisismo rotto, si tratta insomma di investire invece che su se stessi sulle cose che si fa: se diventi una brava ballerina poi ti preoccupi di ballare bene piuttosto che di essere bella.

 

La proiezione

La proiezione è un concetto freudiano, ma può essere letto come una metafora e utilizzata così in un approccio esistenzialista: è come, cioè, se fosse il trasferimento di qualcosa che ha dei punti in comune con qualcos’altro, ed è anche un trasferimento di aspettative. Prendiamo un’autoradio comprata a Napoli, al mercato di Forcella, dove si trova di tutto a prezzi bassissimi perché spesso è merce rubata, ma altrettanto spesso è merce fasulla. Ci sono punti in comune fra una cosa che sembra un’autoradio e una che lo è: tra le due sono diverse molte cose, ma il riconoscimento si fa su pochi particolari. Il riconoscimento è una proiezione: riconoscere qualcosa significa proiettarci sopra un’immagine già conosciuta, e proiettare è riconoscere su troppi pochi particolari. I pochi particolari che servono per riconoscere qualcosa si chiamano costellazioni.

Riconoscere è sempre un’operazione approssimativa: per farlo bisogna proiettare. Come faccio a sapere quando compro un chilo di mele che sono davvero mele? Cerco di verificare i particolari, i dettagli, e il riconoscimento si fa per forza su pochi particolari. E’ chiaro in realtà che non c’è alternativa alla proiezione: proiezione e riconoscimento sono in un certo senso sinonimi. Io ti vedo per la strada e ti riconosco, cioè proietto che sei tu: ma se avessi un fratello gemello potrei sbagliarmi. Riconoscere significa proiettare sopra qualcosa o qualcuno un’immagine identificata da pochi particolari, tipo per esempio: il mio babbo era violento, tu sei violento ti riconosco come il mio babbo. Nel caso dell’autoradio a Forcella, la si identifica in base ai particolari esterni, ma mancano del tutto quelli interni: se si svitasse lo chassis si troverebbe al suo interno la sabbia che serve a simulare il peso. Si sa che il sistema per riconoscere veramente l’altro sono le impronte digitali, ma nella vita quotidiana non si possono riconoscere le persone in questo modo, e si fa per forza sulla base di pochi particolari.

I pochi particolari che servono a riconoscere qualcosa si chiamano costellazioni. Una costellazione in astronomia è un insieme di stelle su cui viene proiettato qualcosa: il carro, l’Orso, Orione … tutto quello che ci si vuole riconoscere. Ma che cosa c’entra Orione con quelle tre stelle? E ci vuole molta fantasia per riconoscere un carro dalle sette stelle. Il problema è che riconoscere da un minimo segno è importantissimo: se sono a caccia al cinghiale e sento un fruscio, non mi faccio prendere dal dubbio se sia o meno un cinghiale, prima sparo e poi ragiono. È meglio aver paura che buscarne, e così succedono gli incidenti. Proiettare è indispensabile. Non bisogna mica avere le prove che uno è una carogna per decidere di girargli alla larga: se puzza di carogna gli si gira alla larga. Non si può fare altro che proiettare, perché riconoscere è sempre necessariamente un’operazione approssimativa. La proiezione è comprensibile solo se si parte dal presupposto che identità è un termine approssimativo: se l’identità esistesse davvero non si potrebbe proiettare qualcosa su qualcos’altro. “Identità” è un concetto utile per spiegare la funzione: lui è un medico, qualcuno che mi cura, quello che chiamo “autoradio”, è quello che mi permette di ascoltare musica.

 

Identità

Cosa è l’identità? Io sono identico a me stesso? E se ci fosse un altro che è uguale a me, proprio identico, sarei io anche l’altro? Se uno avesse usato il trasferimento di materia della fantascienza e si trovasse in un altro aggregato di atomi, sarebbe lui o un altro? Qui si vede il limite del luogo comune “io sono io”, che non significa pressoché niente: cinque minuti dopo sono diverso, in che senso allora sono identico a me? In realtà solo nel senso che sono riconoscibile, ma anche questo entro certi limiti… in più, nel giro di pochi anni tutti gli atomi di un corpo sono cambiati: non siamo “identici” a niente, a mala pena siamo più o meno noi stessi. Se cerco la mia identità, mi appoggio alla memoria che ho di me stesso: ma se diventassi smemorato non riuscirei più ad avvicinarmi a un’identità? Il problema è che perdendo la memoria si perde la trasmissione del sostegno attraverso gli eventi della vita su cui costruiamo quella che si chiama la verità narrativa, quella con cui costruiamo la nostra storia e la nostra identità. La verità narrativa è una serie di avvenimenti composti insieme in modo tale da trasmettere un sostegno: perso questo, quello che probabilmente rimane aldilà della memoria è il senso del valore, etico estetico e logico. Il termine identità serve per tenere in piedi una stabilità: tu sei tu, e questo già è stabilizzante, e soprattutto ha un’importantissima funzione patrimoniale. L’identità infatti è fondamentale per la tutela il patrimonio: si può cambiare personalmente con il tempo, ma il possesso del proprio patrimonio rimane.

Il matrimonio è da tempo immemorabile l’amministratore dei patrimoni. La Chiesa si oppone tanto alle coppie di fatto che, come l’omosessualità, minacciano il matrimonio, a cui nella nostra cultura è legato il patrimonio, e quindi minacciano l’assetto patrimoniale e con questo la stabilità della famiglia: la Chiesa è totalmente appoggiata sulla struttura della famiglia, e una volta che il patrimonio non fosse più legato al matrimonio, perderebbe il controllo della faccenda, e insieme a questo un enorme controllo sociale sulla nostra cultura. Senza il matrimonio come unica forma ufficiale di coesione sociale, la Chiesa perderebbe una grossissima fetta di potere: la sua opposizione ostinata alle coppie di fatto è un assurdo totale, se non si guarda attraverso il tema del patrimonio. Se le coppie di fatto si lasciano eredità fra loro e gli omosessuali si sposano senza avere figli che ereditano, i patrimoni passano per un altro giro che non è ancora sotto controllo. Poi magari lo sarà anche questo, ma intanto non lo è, e chissà che può succedere…

Questo punto di vista sull’identità scardina il senso comune, il sistema con cui normalmente le persone ragionano: per fare lo psicoterapeuta bisogna entrare dentro le storie degli altri, e bisogna rendersi conto che né le loro storie, né le proprie hanno valore, importanza e speciale verità oggettiva. Sarebbe per questo utile fare a meno il più possibile del termine identità: il termine proiezione è comprensibile solo se non c’è l’identità, e la faccenda della proiezione è centrale, perché se tutto il conoscere è in primo luogo un ri-conoscere, conoscere le persone è un’altra cosa rispetto a quello che crediamo. Non si può dimenticare infatti che ri-conosciamo in funzione dei nostri bisogni e desideri, e se conoscere è prima di tutto riconoscere, evidentemente si ri-conosce in base alle aspettative, cioè alle proiezioni. Un bambino ri-conosce il mondo attraverso le sue esperienze primarie, poi ogni esperienza diventa metafora per qualcos’altro: questo è buono come la mamma, è cattivo come il babbo (nelle famiglie italiane il poliziotto buono è la madre, il poliziotto cattivo è il babbo), un kiwi è come se fosse una mela, si gioca, ed è come se fosse una bella giornata, e via via per metafore il bambino conosce sempre di più il mondo.

Conoscere comincia con le proiezioni, però procede con la percezione, che permette la verifica: si mangia una cosa che è come una mela, fa schifo e si verifica che non è una mela. Non c’è una conoscenza radicalmente vera e una falsa, tutte le conoscenze sono approssimative e funzionano con la verifica. Più larga è la base di percezioni del nostro riconoscere, più l’altro si sente visto, più invece è stretta, meno l’altro c’entra: se riconosciamo nell’altro solo le cose che ci danno fastidio o che ci fanno comodo, dopo un po’ che ci abbiamo a che fare l’altro si arrabbia. E questo è tipico dei rapporti coniugali: mogli e mariti dopo un po’ si arrabbiano perché si accorgono che il coniuge non li riconosce per quello che sono, ma per pochi particolari che gli fanno comodo o scomodo. La proiezione non è un errore, è solo un riconoscimento approssimativo: un salame, prima si compra, poi si mangia e poi si decide se è buono o no. Finché non l’abbiamo assaggiato l’abbiamo solo riconosciuto come salame, cioè abbiamo proiettato l’immagine/aspettativa di una cosa buona da mangiare su quello che abbiamo visto, ma di cui non abbiamo ancora esperienza. Quando si va da un dentista, ci si va con il pre-giudizio che farà un lavoro a nostro vantaggio, cioè si proietta sul dentista un personaggio utile, benevolo, di aiuto. Ma è una proiezione, cioè un riconoscimento su troppi pochi dettagli: da cosa si riconosce un dentista? Dal camice, dai trapani… ma mica questo dice che è un buon dentista, può essere un ottimo dentista o un cane. Un operatore d’aiuto si riconosce come tale da pochi dettagli, d’altra parte se non si riesce a proiettare, cioè a riconoscere da questi pochi dettagli, una persona in grado di aiutare, non si comincia mai una terapia. La relazione d’aiuto passa necessariamente attraverso una proiezione: bisogna riconoscere in una persona qualcuno che è capace e disposto ad aiutare. All’inizio ci sono troppi pochi dettagli per farlo, è per forza un riconoscimento approssimativo, così approssimativo che può essere sbagliato: per diventare conoscenza, deve per forza passare verifiche. Se una ragazza non riesce a proiettare il principe azzurro su quattro dettagli non si mette mai con nessuno, però prima di sposare quella persona deve verificare la sua scelta nel fidanzamento, che è il periodo di prova.

Il sistema della verifica è il cosiddetto metodo scientifico, che è stato introdotto quattro secoli fa da Galileo con l’espressione “provando e riprovando e misurando la differenza”. Prima, per millenni il mondo del pensiero ha fatto a meno della verifica, e si vede la differenza tre culture prima del 1600 e dal 1600 ad oggi. Cioè dal 1600 ad oggi c’è stata una straordinaria accelerazione dei processi conoscitivi, non della qualità della vita, ma dei processi conoscitivi, perché è stata introdotta la verifica. Per cui quello che prima richiedeva due millenni per scoprirlo, adesso lo si scopre in vent’anni.

La parola identità in effetti si può utilizzare, basta non crederci: se ci si fa prendere dalla seduzione dell’identità, la seduta si arena, finché invece non si crede nell’identità ci sono mille fili che vanno da tutte le parti. Il corpo è un’identità un po’ più stabile, ma anche questa è flessibile e approssimativa: noi siamo comunque un’unità corporale molto di più di quanto siamo un’unità psichica. Psichicamente siamo profondamente in relazione col resto dell’umanità: se agli eremiti del deserto arrivasse la notizia che il Vaticano ha chiuso, quelli tornerebbero a casa, non rimarrebbero nel deserto a meditare. Stanno nel deserto perché questo è significativo per la comunità cristiana.

 

Transfert e controtransfert

Nella teoria psicanalitica il passato è paradigma del presente, che ha a che vedere con le modalità che si mettevano in atto da piccoli: faccio oggi come ho fatto nel passato. Dal punto di vista esistenzialista è il contrario: il presente è paradigma del passato. Io nel passato ho fatto così perché già mi comportavo come ora: mi arrabbiavo con la mia mamma perché non faceva come volevo io, eccetera, come farei oggi. Si tratta comunque di un trasferimento, e quello delle figure genitoriali fatto sullo psicoterapeuta, Freud lo chiamò transfert: per controtransfert si intende invece le reazioni automatiche alle proiezioni del paziente.

Se si considera il transfert come un riconoscimento su troppi pochi particolari, allora l’elaborazione del transfert non è convincere il paziente che il terapeuta non è il suo babbo, ma di portare la sua attenzione su più particolari, dopodiché la persona si ritrova sia una proiezione di autorità nei confronti del terapeuta, sia con un contatto realistico con lui. L’aspettativa positiva è importante perché possa essere portato avanti un lavoro, è importante che il paziente pensi che il terapeuta la sa lunga ed è dalla sua parte. All’inizio e un pregiudizio positivo su cui si articolano un sacco di cose, poi piano piano il paziente scopre che il terapeuta è una persona qualunque: che a volte è distratto, che non capisce, eccetera eccetera, e quindi pian piano oltre ad avere un pregiudizio positivo ha anche una serie di riconoscimenti concreti. Questo cambio di prospettiva è utile per lavorare, e a poco a poco il rapporto diventa un rapporto realistico e di scambio: quando comincia lo scambio, si è fuori dall’area trasferenziale, il paziente cioè non è più lì ad aspettarsi qualcosa di magico.

Se l’identità esistesse, non si potrebbe proiettare il proprio padre su un altro: se ognuno è se stesso, come si fa a riconoscerci un’altra persona!? Il fatto è che la persona non è se stessa in senso assoluto, per cui si può scambiare per qualcun altro: se è tante cose insieme, parzialmente è anche la madre o il padre di chiunque. Identità è un concetto che viene usato per spiegare la continuità nel tempo, ma è quello che Wittgenstein chiamerebbe un’illusione grammaticale: non si è più quelli che si era dieci anni fa, si è un aggregato fluttuante di parti. Si può considerare che un autoradio non sia un autoradio, ma semplicemente qualcosa che permette di ascoltare la musica, che uno psicoterapeuta non sia il padre del paziente, ma qualcuno che gli permette di ottenere cose per cui anche il padre potrebbe aiutare.

Il problema consiste nel pensare che sia: siamo abituati al termine “essere”, che significa tutto, e quando significa troppo una cosa non significa più nulla. In realtà è poco importante se dentro quella scatola ci sono circuiti stampati o un folletto che canta le parole delle canzoni, quello che importa è sentire la musica. È la funzione e che conta: è importante non identificare i significanti con quello che c’è dentro, cioè i significati, che sono autonomi dai concetti. Se qualcosa funziona come autoradio si dice che è un’autoradio: questo essere Vattimo lo definirebbe appartenente a un pensiero debole. È, in un certo senso, o per quanto interessa a me, un’autoradio: in realtà che cosa sia davvero non ne ho la più pallida idea, L’elettronica funziona su principi di cui sono quasi totalmente all’oscuro. Un’autoradio che funzionasse senza le parti che dovrebbe avere è pur sempre un’autoradio: bisogna spostare l’attenzione dal contenuto alla funzione, e “un’autoradio” è ciò che mi permette di ascoltare musica. La proiezione è quella che permette qualcosa, il transfert è qualcosa che permette: per esempio se si proietta una figura materna su qualcuno, questo permette di fidarsi o di arrabbiarti con lei eccetera…..

Trasferire una figura autorevole primaria sul terapeuta permette di fidarsi: fidarsi significa per esempio che quando il terapeuta dice una cosa che è diversa da quella che pensa il paziente, il paziente la prende almeno in considerazione, malgrado non sia d’accordo. Questo è possibile se si ha un pregiudizio positivo, se si pensa che il terapeuta abbia qualcosa di buono da proporre, anche se non si sa cosa sia: senza un transfert, per quanto modesto, questo è molto difficile! Anche il transfert negativo è un ponte: a volte le persone vanno in terapia perché non sono riuscite a trattare male i genitori e si autorizzano a prendersela con il terapeuta, perché lo pagano, facendo un’esperienza di aggressività non distruttiva utile all’indipendenza. Di solito c’è dietro comunque aspettative positive negate: si interessano tanto a svalutate la madre perché si aspettano qualcosa da lei. A volte succede che dopo essersi accanito per un po’ in queste operazioni svalutative, il paziente smette: a volte semplicemente hanno una tale paura di essere svalutati che per difesa svalutano qualunque cosa gli venga detto. Se però non si entra in dinamica, possono sviluppare un transfert positivo, cioè, se verificano che il terapeuta non si approfitta della sua posizione, magari gli passa il transfert negativo.

Senza l’idea dell’identità, la proiezione diventa qualcosa di intrinseco all’esperienza e alla sua dinamica. guardarla non come qualcosa che è, ma come qualcosa che permette, cose positive e negative, è un cambio di punto di vista. Per una persona essere se stessa significa comportarsi sempre nella stessa maniera: per esempio, si dice a un paziente oppresso da qualcun’altro “ma perché non lo mandi a quel paese?” e lui dice: “Eh, no, io non sono così!”. Il terapeuta non si mette mica a discutere su questo, ma dice: “Ah, bene allora prova a farlo qui, che lui non c’è”. E se lo fa, la persona scopre che non è che lei sia o meno così, ma a prescindere dall’identità, ugualmente può mandare qualcuno a quel paese. Esprimersi in modo diverso espande l’identità. In un approccio di tipo esperienziale questo è un sine qua non.

Il transfert non è necessariamente, come nell’iconografia freudiana, un falso amore, ma solo un riconoscimento per troppi pochi particolari. L’amore è amore, e non vuol dire, d’altra parte, che se il paziente ti vuole bene ti perdonerà qualunque cosa. Dire è un amore fasullo perché è transferenziale è svalutante per tutti e due, è una cosa eticamente piuttosto mal fatta. Però non significa che si può far leva sul transfert: il rapporto tra terapeuta e paziente infatti non è un legame, e anche all’interno di un gruppo di terapia le persone sono molto intime ma non sono legate. Quando tratti male i congiunti perché dici “tanto mi amano” è un trucco, perché intendi “tanto sono legati, li posso trattare male, tanto non vanno via”. Ma se anche è così non è che poi ti amano: in famiglia la relazione si chiama amore ma è molto discutibile che sia sempre amore. Legame non è amore, c’è legame con amore e legame senza amore.

La proiezione appartiene, come terminologia, al pensiero freudiano, che funziona su errori e rimproveri: qui la persona sbaglia e viene rimproverata (lui non è il tuo babbo!), mentre negli approcci esistenziali non ci sono errori, le persone fanno la loro esperienza e quello che succede è qualificato come positivo non come negativo. In questa logica l’identità è un impiccio, si trascina dietro il concetto di sbaglio, di falso, e alla fine viene anche il concetto di falso sé. Questo è un concetto che rende un brutto servizio alla terapia: ognuno ha dentro un intreccio di parti che sono tutte vere. Una persona che fa finta di essere buona ed è stronza, ha bisogno nello stesso tempo di essere stronza e di sembrare buona, e quindi quello che viene fuori è perfettamente vero: è una stronza e fa finta di essere buona, non è nessun falso sé.

Il controtransfert è spesso confuso con il transfert del terapeuta, ma non c’entra niente: il transfert del terapeuta sarebbe per esempio, riconoscere un figliolo nel paziente. Il controtransfert invece è la reazione al transfert del paziente, ed è importante perché molte cose che succedono nel setting dipendono da questo. Metti casi che un paziente pensi che il terapeuta è bravo e che può risolvere i suoi problemi, il terapeuta è indotto a pensare: ora come lo risolvo il problema? Cioè tende a risolvere un problema del paziente perché quello si aspetta che lui lo faccia: è difficile sottrarsi a questa aspettativa. Lui si aspetta che tu lo risolva, e controtransferenzialmente tu cerchi di farlo: questo essere non è un normale scambio, è la risposta automatica all’aspettativa del paziente. Il paziente affibbia al terapeuta un compito e il terapeuta ci casca dentro: è come se il paziente dicesse “tu sei capace di ascoltarmi e di fare quello di cui ho bisogno, vero che sei capace?” E il terapeuta si trova a sentirsi in dovere di essere capace….

L’attenzione è un processo attivo: se vedo te, non vedo solo te, ma vedo te in relazione agli altri. Cioè l’attenzione mia fa la spola continuamente da te a tutto quello che c’è intorno, va avanti e indietro e ti localizza sia fisicamente sia psichicamente in un contesto. L’attenzione è un fatto attivo, ed essendo attivo è intenzionato: mentre parlo con te vedo anche l’espressione delle persone intorno, è un’attenzione per te e contemporaneamente anche per ciò che sta intorno: l’attenzione cioè è qualcosa dove non si vede solo l’oggetto, ma anche lo sfondo. Se un paziente gioca onestamente, l’attenzione dello psicoterapeuta non è monopolizzata, mentre lo ascolti ti riesce anche di pensare: per non farsi sequestrare l’attenzione bisogna fare un sacrificio narcisistico e dirsi “non sono capace di fare quello che vuoi tu”. I pazienti ricattano continuamente sul fatto che il terapeuta sia o meno capace: se non si riesce a dire di no si rimane incastrati. Per uscire dal controtransfert basta però rispondere: “Ah, interessante, quello che dico non ti interessa ma non se te vai? e come mai non te ne vai? Strano, no?” “E come mai vieni in terapia?” È l’espressione della curiosità, che deve risultare anche nel tono della voce. Se ti arrabbi vuol dire che ti ha colpito, e allora è giustificato nella sua affermazione.

Il problema del controtransfert si potrebbe dire che è cascare nella manipolazioni del paziente, il che significa perdere autonomia, e inoltre non bisogna farlo perché le persone pagano, e il tempo che loro comprano gli appartiene e se lo vogliono usare per svalutarvi hanno diritto di farlo. Se non volete che succeda buttateli fuori, non siete mica obbligati a vendere il vostro tempo per farvi svalutare. Però se accettate di farvi pagare la seduta, il paziente ha il diritto di svalutarvi quanto vuole: se compri un etto di mortadella, poi è tuo e puoi farne quello che vuoi. La risposta controtransferenziale è voler essere all’altezza dell’aspettativa del paziente: come si fa per non cascarci? C’è una famosa storia Zen: in un paese del Giappone una ragazza rimane incinta, i genitori arrabbiatissimi cercano di sapere chi è il padre, lei per paura dice che è stato il monaco Zen che sta lì accanto. I genitori furiosi quando nasce il bambino lo portano al monaco e gli dicono “si vergogni, non si fanno queste cose, ecco tenga! Lei è il padre di questo bambino, se lo allevi Lei!” E il monaco dice: “ah sì…!?”. Anni dopo la ragazza rivela chi è il vero padre, allora i genitori vanno dal monaco tutti vergognosi e gli dicono “ci scusi, ci scusi, abbiamo saputo che non è Lei il padre del bambino. Scusi tanto, lo portiamo con noi”. E il monaco dice: “ah sì…?!”. Non stare nella risposta controtransferenziale è dire “ah, sì, ti ho deluso?”, “Ah, sì, sono meraviglioso?” Il paziente dice “Sei orrendo, tremendo!” “Ah, sì?, ma guarda, interessante”: se si rinuncia all’identità la reazione al suo transfert è lo stupore. Ah, sì, sono stupendo? Sono spaventoso? Tu sei “spaventoso” se sei. Ma se non sei? Non è un gioco di parole, è la fissazione dell’identità: non siamo terapeuti, facciamo i terapeuti, non siamo un carattere, abbiamo un carattere.

 

La terapia

In apparenza le identità sono insiemi coesi, mentre in realtà sono insiemi dinamici: non sono cioè qualcosa di stabile, ma qualcosa che si muove continuamente. Riconoscerlo dipende da come si guarda il paziente, ed è molto importante per la terapia, perché è più facile entrare dentro un ruscello che dentro un sasso: se il paziente è solido come un sasso come si fa ad entrarci, ma se è liquido come un ruscello ci si entra come si vuole. Il mondo interno come molteplicità è un tema fondamentale della psicologia di oggi1. Con l’insieme di personaggi ci si può relazionare in tante maniere: si può stare in relazione solo con uno, il rappresentante del gruppo, e non considerare tutti gli altri, oppure ci si può relazionare con tutto il gruppo che è la persona. È la stessa differenza che andare in Inghilterra per trovare la regina, oppure andare in giro per conoscere la nazione.

Se si considera i fenomeni del transfert e del controtransfert, è chiaro che nella relazione tutto si muove. Metafora fondamentale del bisogno di stabilità è invece camminare su un pavimento, che sta fermo: e se un pavimento deve stare fermo, più di tanto non cambia. Facendo terapia come se si camminasse, più di tanto non si può ottenere. Metafora più interessante è invece nuotare, dove ci si sposta malgrado non stia fermo niente, perché l’acqua si sposta insieme al nuotatore. La terapia va metaforizzata con il nuoto, non con il cammino, perché qui si sposta anche il mezzo in cui ci si muove. Transfert e controtransfert non possono essere tenuti fermi, ci si nuota dentro, e per nuotare serve essere appoggiati su se stessi. Mentre quando si cammina si è appoggiati sul terreno che è stabile, quando si nuota si galleggia sull’acqua, relativamente autonomi dal mezzo: in una seduta non si può essere appoggiati sulla persona, bisogna essere appoggiati su se stessi. Per nuotare bisogna fare per forza respirare, si può fare qualunque cosa, purché si respiri: respirare dentro una seduta sarebbe metafora per qualcosa che permette di essere autonomi.

In una seduta ci si perde dentro e diventa un’ubriacatura, a meno che non ci si ricordi costantemente di che cosa si vuole: questo è il corrispettivo di respirare. In una seduta si può fare anche i fuochi d’artificio, basta rimanere con l’attenzione attaccati a cosa si vuole, bisogna ricordarsi costantemente cosa si sta cercando. La seduta sbanda, ma la volontà è una luce: per avere questa luce accesa, per essere autonoma dal mezzo (e il mezzo è la relazione) bisogna che il terapeuta si dica che cosa vuole momento per momento, e bisogna tener presente che tentazione c’è invece a non voler niente o a non ricordare cosa si vuole. La sedia calda funziona se il terapeuta vuole che il paziente voglia qualcosa, anche se è disposto a non averlo. Transfert e controtransfert sono come un’acqua in cui si nuota naturalmente, ma ci si riesce solo se ci si ricorda che cosa si vuole: appena ci si scorda si comincia ad affogare, e allora ci si mette a camminare e la seduta diventa tecnica.

Anche nei lavori di gruppo è molto più facile lavorare con le esperienze guidate: se dici “fate questo” tutti sono disponibili, ma se dici “qualcuno vuole qualcosa?” Nessuno vuole niente. A volere qualcosa c’è sia per il paziente che per il terapeuta una difficoltà enorme, che è importante riconoscere: se il terapeuta durante la seduta si scorda cosa vuole, invece di nuotare si mette a camminare e diventa pesante, meccanico. L’esserci non è neutro, è legato all’indifferenza creativa, che è accettare qualunque direzione presa dal paziente: non che il terapeuta non voglia niente, vuole qualcosa, poi se il paziente va da un’altra parte pazienza, bisogna trovare interessante quello che dà lui. È però il volere del terapeuta che traina la seduta, è perché lui vuole qualcosa che la seduta si muove.

Nel dialogo con la sedia calda, lo strumento di base è l’immaginazione: “Che cosa senti per la persona sulla sedia vuota?” “niente…” “dì semplicemente quello che ti passa per la mente…” “non mi viene in mente niente…”inventa…” “non mi riesce…” Allora il terapeuta può usare la sua fantasia, per esempio “la mia fantasia è che non gli dici “va a quel paese”…”. Non è la verità, è la sua fantasia, che è uno strumento potentissimo: quando si dice alle persone cosa si immagina, è difficile che non se ne facciano niente, qualcosa se ne fanno per forza. La fantasia è lo strumento sia del paziente che del terapeuta, e se non la usa il paziente la può usare il terapeuta: se il paziente si fa contagiare bene, se non si fa contagiare va bene comunque. La fantasia è nella Gestalt il corrispettivo delle libere associazioni nella prassi freudiana e della fantasia attiva nella cosa junghiana. La fantasia comporta l’uso del pensiero analogico. Dopo aver formulato una fantasia, l’intersoggettività richiede però la domanda: “che effetto ti fa?”, che svincola la situazione dal problema del vero o non vero.

 

La logica

Vero o non vero è il grande tema della logica. La logica però non è la verità, anche se nella lingua corrente si identificano. Wittgenstein, uno dei più grandi maestri della logica contemporanea diceva “la logica è come una scala, serve per arrivare da qualche parte, quando ci sei arrivato puoi buttare via la scala”. La logica non è vera, serve alla trasmissione del sostegno… permette connessioni. Per esempio, la teoria della relatività ha permesso la bomba atomica: pensarla come qualcosa che permette è un cambio completo di abitudine mentale. Altro esempio, nella concezione generale la narratività è legata a quella che si chiama la “trama”: un romanzo ha una trama, una narrazione implica una trama, solo romanzi supersperimentali sono senza trama, e sono piuttosto noiosi. La trama è un susseguirsi logico di fatti che attivano l’attenzione perché fanno succedere qualcosa. Perché i gialli hanno avuto la fortuna che hanno avuto? Sono di solito scritti da romanzieri pessimi che ripetono le stesse cose, ma hanno sempre una trama, e una trama è questo susseguirsi di fatti interconnessi che permette il passaggio di un’energia. Quando si legge un giallo e si arriva all’assassino, questo fa un effetto emozionalmente carico: la trama non è altro che una concatenazione che lascia passare un’emozione. Bisogna guardare la logica a rovescio: è logico se permette un’uscita, uno stato d’animo, una realizzazione concreta. Sono sequenzialità che portano a una via d’uscita, a un effetto energeticamente significativo.

In questo senso la logica non obbliga ma permette. La storia di un paziente si ricostruisce in una via narrativa, cioè in modo che le cose siano concatenate fra loro, e così passa energia: la verità narrativa non è la verità oggettiva, ma ha a che fare con l’effetto che fa. L’effetto che cerchiamo è migliorare la qualità della vita, cosa che richiede un forte passaggio energetico, e la logica serve a questo. Si tratta di una visione della logica che permette di riconoscerla come un valore, altrimenti si confonde con la razionalità, che sono invece pacchetti chiusi: una serie di calcoli è un’operazione razionale, non logica. La logica è quando Hegel fa vedere come tesi e antitesi si fondono in una sintesi, una operazione che apre orizzonti: non è la verità, è una connessione che apre il futuro. I filosofi operano attraverso qualcosa che tradizionalmente si chiama il logos, quello da cui viene il termine logica: al tempo dei greci non era il riconoscimento di una verità, era una potenza creativa. Il logos è la mente umana che dà forma al mondo. La logica è una delle tre forme del valore, etica, estetica e logica: logica è quella di un filosofo che guarda il mondo, vede connessioni che fanno passare energia e costruisce edifici in cui può abitare un pensiero complesso.

La logica non è l’uso della razionalità per fare i conti: la razionalità è un uso strumentale della logica, come la moralità non è l’etica, ma è l’uso strumentale dell’etica. Per esempio, è proibito ammazzare non è etica, è morale, è un uso strumentale dell’etica che è assolutamente indispensabile. Se ti compri un golfino di cashmere, non è estetica, è moda. E’ una bella cosa ma non ha un valore estetico, perché quello che ti era sembrato mettibile l’anno prima magari l’anno dopo non lo metti più. Le cose che hanno valore estetico sopravvivono al tempo. Il tempo è quello che falcia via tutto quello che sembrava bello, e rimane tutto quello che è bello. Un ragionamento è logico se è aperto, e va da qualche parte: se invece si chiude su se stesso è una operazione razionale. La logica non si pensa, la logica si sente, ha un odore: la filosofia quando ti prende ha un odore di spazio2.

La logica non ha regole: è per questo che la teoria della relatività quando Einstein l’ha descritta, c’erano solo poche persone che la capivano. Non era descritta razionalmente, era descritta logicamente: cioè bisognava intuirla. È come quando un pittore in un quadro, vede i fili che legano colori e forme: non ci sono regole, l’estetica è senza regole eppure rigorosa. Può essere qualunque cosa, basta che funzioni esteticamente. E la logica è lo stesso, non ha regole, eppure è rigorosa. Può essere qualunque cosa, basta che siano passaggi che portano a un’apertura verso l’infinito. Non si impara a scuola questo, perché i professori non sanno la differenza tra logica e razionalità, che è appannaggio dei filosofi della logica: è anche però appannaggio della psicoterapia, perché qui bisogna uscire dalla stretta del mondo apparente, e per questo bisogna capire la differenza.

La logica è un’invenzione. Provate a immaginare: Einstein ha scoperto la strada che trasforma la materia in energia, seduto a un tavolino, semplicemente pensando. Ha visto con la sua mente i cammini e i possibili passaggi che arrivavano lì. Quando si lavora con i pazienti è qualcosa del genere, bisogna immaginare, ma non immaginare a caso ma in modo che quello che immaginiamo sia funzionale a uno sviluppo. La psicoterapia non è un mestiere ripetitivo, apre in tutte le direzioni e porta su fronti infiniti da tutte le parti: ricerche etiche, estetiche e logiche. L’unica speranza per la vita umana è il mondo dello spirito, il resto dura poco: il mondo dello spirito è l’apertura verso il valore.

 

Mente e psiche

Mente e psiche sono concetti che vengono da culture differenti, da ambiti diversi, non si può fare una connessione diretta tra loro: bisogna per esempio fare una connessione tra la psiche nel mondo classico e la mente in senso wundtiano. Non esistendo nella stessa tradizione mente e psiche e non si possono sovrapporre, sono incommensurabili. La parola “psyché” risale alla tradizione greca tarda, non esiste ancora nell’Iliade ma si trova nell’Odissea: qui psyché si potrebbe capire come uno spazio interno, dove avvengono i movimenti psichici3. Mente invece è una funzione dell’organismo nella psicologia di laboratorio: Wundt immagina che un organismo sia come una macchina, e una parte di questa macchina è la mente, una sorta di computer.

La cosa diventa molto più complicata quando nella diatriba si inserisce Popper. Nella psicologia di laboratorio la mente è considerata un oggetto deterministico, ma è qualcosa di completamente differente nel pensiero di Popper4, che nella teoria inserisce il dualismo interazionista: mentre nella logica di Wundt cervello e mente si identificano, qui la mente non è più un organo, tipo il fegato o il cervello. Nel pensiero di Popper la mente psichica interferisce con la mente neurologica, ha un’autonomia rispetto al cervello e si riassimila al concetto di psyché. I comportamentisti e i primi cognitivisti lavorano sulla mente come se fosse un organo, mentre i costruttivisti di oggi implicano una possibilità di co-costruzione, che è possibile solo se le due parti non coincidono. Bisogna sapere che la maggior parte delle persone che parlano di queste cose non hanno chiaro le differenze epistemologiche a cui i vari pensieri si riferiscono: non molti sanno che per teorizzare una mente che co-costruisce col corpo ci vuole dietro un dualismo interazionista.

La differenza tra una seduta gestaltica e una seduta cognitivista è evidente: in una seduta cognitivista le connessioni non appoggiano su postulati teorici dichiarati, e per questo funzionano male. I cognitivisti dicono “sono neutrale, esploro il sistema conoscitivo della persona, poi la persona si arrangia…” Dietro questa pretesa di neutralità c’è un pensiero che non considera l’intenzionalità, cioè come se il terapeuta potesse non avesse nessuna intenzione. Nell’approccio gestaltico è chiaro invece che per far muovere qualcosa il terapeuta deve entrare dentro la relazione con la sua intenzione. Il mezzo coercitivo dei freudiani è il silenzio, quello dei gestaltisti è il confronto, è l’essere di fronte nel rapporto: “tu sei così, d’accordo, e che vuoi da me?” Il terapeuta avrà pure il diritto di esistere nella relazione! “se tu vuoi che io ti aiuti, io pretendo che tu mi riconosca esistente!” È una coercizione molta più umana, rispetto ad ascoltare con neutralità. In ambito freudiano la persona è lasciata a se stessa con i suoi automatismi, e prima o poi, magari dopo dieci anni, fa delle cose sensate: ma ci vuole tanto tempo, perché è difficile arrangiarsi da soli in questo luogo infinito che è il mondo interno.

 

Il narcisismo

Un necessario piacersi, il narcisismo5, è fisiologico all’organismo: i bambini si piacciono naturalmente, se non vengono disturbati in questo da forti disapprovazioni. Piacersi è naturale, ma ha anche bisogno di essere coltivato dalfeed back del mondo esterno: l’organismo si deve adattare continuamente all’ambiente, pena la sopravvivenza. I feed back orientano il narcisismo, e i genitori esercitano esplicitamente la funzione dell’orientamento: un lavoro necessario, ma che porta spesso a illudersi che il piacersi dipenda da un valore estetico. Non si può immaginare niente di più sbagliato: se il valore estetico apre gli orizzonti, il narcisismo li chiude, e Freud imputava la psicosi a un narcisismo primario da cui la persona non era riuscita a svincolarsi, un investimento cioè della libido su se stessi invece che sul mondo, una immobilità relazionale per assenza di prospettive aldilà del proprio piacersi.

Per questo è essenziale distinguere la bellezza dal narcisismo, che avendo questo un ruolo importante nella sopravvivenza, richiede una sua specifica e ben diversa educazione. Piacersi è importante per la felicità, che in sostanza è lo stato in cui la persona è in accordo con se stessa sul piano sia psichico che fisico. Riguardo a questo, un problema serissimo si presenta per esempio quando l’evoluzione del costume è così rapida che i genitori non rappresentano più il mondo in cui dovranno vivere da adulti i figli, e i loro feed back diventano confusivi invece che orientanti: gli investimenti narcisistici diventano allora contingenti e di poca consistenza, e lasciano le persone in balia del destino.

Una delle manifestazioni narcisistiche più frequenti e intramontabili, a prescindere dalle differenze culturali, è il vincere. Coltivare il piacersi vincenti ha però molti impliciti: uno è che la vita di solito non permette di vincere spesso, un altro è che più si invecchia e meno strumenti si hanno per vincere6. In realtà, investire narcisisticamente nelle vittorie, dato la frequenza inevitabile delle sconfitte, sarebbe una autentica debacle, se non ci fosse una strana capacità dell’anima umana, che è quella di potersi identificare con gli altri: su questo si basa per esempio il fenomeno del tifo (per una squadra, per un partito, per la propria famiglia, per la propria nazione, ecc.), a cui è delegato il narcisismo di chi non vince personalmente.

La tendenza ad alimentare il narcisismo della vittoria è fisiologica alla cultura capitalista, dove viene valorizzato tutto quello che si può produrre, vendere e comprare: il mondo occidentale tende a trasformare i suoi cittadini in un’orda di tifosi che investono il proprio narcisismo in gare fine a se stesse7.Tutti vogliono essere qualcuno, cioè conquistare spazio nella vita sociale, per i benefici che questo comporta per la sopravvivenza. Lo spazio in natura si ottiene con la violenza, che nel contesto sociale è però raramente esplicita, a parte le guerre e le azioni delinquenziali: generalmente da tempi antichissimi viene agita attraverso modalità ritualizzate. Lo sport è una di queste modalità rituali, attraverso cui si vince e si perde senza effetti collaterali distruttivi: questi sono limitati ai tifosi, che non avendo partecipato in prima persona alla lotta hanno ancora da spendere la loro aggressività. Come diceva invece De Culbertain, l’inventore delle Olimpiadi moderne, l’importante è partecipare. Proprio il tifo porta in scena un tema interessante dell’essere qualcuno. I tifosi sono fieri della loro squadra: appartengono a una squadra e la squadra appartiene a loro, in modo che quando vince in un certo senso vincono anche loro. Nel passato varie persone, non potendo essere signori, andavano fiere di portare la livrea di un determinato signore, e anche oggi per esempio è diffusa in Giappone la fierezza per essere impiegati in una ditta grande e economicamente potente.

Vista così sembra pura pazzia, e certo di questa gli esseri umani non mancano: eppure guardando meglio si vede che le cose sono più complesse di come sembrano. Un essere umano vive grazie ai suoi continui scambi con gli altri, ma come si sa bene il commercio non è fatto solo di scambi puntuali: dalla casa, alla macchina, agli elettrodomestici, tutto si compra a rate, cioè con promessa di pagare. Le promesse si appoggiano su qualcosa, su come la persona si presenta, cioè sull’immagine che dà di sé. L’immagine di sé è l’interfaccia col mondo, è lo strumento con cui si chiede credito, si chiede cioè di farsi dare qualcosa senza pagare subito: l’immagine è talmente importante che può decretare il successo o la rovina di un uomo di affari, a cui le banche non fanno prestiti se non ha credito sul mercato. L’apparire è tanto importante da spingere le persone a fare qualsiasi cosa pur di non perdere la faccia8: lo scandalo rovina, come sanno bene gli anglosassoni, che tradizionalmente ne hanno uno speciale orrore.

Essere socialmente importanti comporta i benefici potenziali del credito, con il quale si fanno gli affari: essere qualcuno dà credito, e non è considerabile una semplice opzione, perché il credito influisce sulla sopravvivenza. Ma essere qualcuno comporta che altri siano nessuno, perché non si è qualcuno in assoluto ma solo in relazione, cioè si è qualcuno più di altri. In tempi di monarchia assoluta il problema era risolto istituzionalmente: il re, che era tale per volontà divina, sceglieva d’autorità chi fare nobile, mentre gli altri rimanevano nessuno. In tempi democratici la faccenda è ben diversa, e si risolve in genere personalmente: tutti hanno la possibilità di essere qualcuno, posto che ci riescano. E così c’è chi per diventare qualcuno sale in cima a un palazzo e spara sulla folla, preferendo marcire in galera per il resto della vita che rimanere sconosciuto al pubblico. Per chi è riuscito a essere qualcuno questo appare pazzesco, ma bisogna ricordare quello che diceva Bakunin a suo tempo, quando ammoniva la borghesia rispetto al sottoproletariato: chi non ha nulla da perdere, diceva, è capace di metter a ferro e fuoco il mondo. Il mondo occidentale tende ad assicurare ai suoi cittadini il minimo per la sopravvivenza, e cerca di assicurare anche il minimo di fabbisogno narcisistico attraverso l’uso della cortesia e l’abitudine di chiamare tutti signori: anche un mendicante oggi ha diritto di essere chiamato signore, e di essere trattato cortesemente. Essere tutti di diritto signori non assicura però una importanza sociale: se chiunque è un signore, un signore è chiunque, e siamo di nuovo al punto zero. E quelli che non riescono ad essere qualcuno, oltre ovviamente a tifare per una squadra, che fanno? Un’attività molte diffusa è quella di raccontarsi storie sulla propria importanza: o si sogna di essere importanti, oppure ci si racconta di esserlo, in modo da piacersi in qualche maniera. Per supportare questi racconti qualunque cosa è utile, dall’aver ragione, a tifare per una squadra vincente, ad avere una giusta posizione politica, ad avere un gusto superiore, ad essere vittima di grandi soprusi. Qualunque cosa pur di non sparire nell’invisibilità sociale, che, come gli extracomunitari sanno, è un pericolo mortale.

Uno strumento realistico per riuscire ad essere qualcuno è la famiglia, dove ognuno ha un posto specifico che gli assicura un minimo di visibilità. La famiglia è il luogo dove l’immagine della persona prende forma, si educa e si sviluppa, cresce forte e sana o si ammala portandogli disastri di ogni tipo sul piano esistenziale. Qui sentirsi qualcuno e avere un narcisismo in buone condizioni è la stessa cosa, sempre tenendo presente che il narcisismo è come il sale nell’acqua della pasta, il punto giusto è quando non si sente né per eccesso né per difetto. Quando essere qualcuno non significa stare sopra gli altri, allora è essere insostituibile, essere un partner di scambi che non è intercambiabile con un altro. Moda e modelli vincenti non sono valori estetici, ma fenomeni narcisistici che piacciono senza per questo essere belli. La bellezza è semplicemente esperienza del bello: bello non solletica la vanità, è qualcosa che trasporta oltre le frontiere dell’io in un misterioso apprezzamento a prescindere dal proprio interesse. Paradossalmente ciò che è molto bello, come per esempio un quadro di Leonardo, in genere non si desidera possederlo, ci si accontenta di farne esperienza.

1 POLSTER E. A Population of Selves (Gestalt Journal Press 2010)

2 La quintessenza del mondo buddista è lo spazio.

3 JAYNES J., Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (Adelphi, Milano 1984)

4 POPPER K., ECCLES J., L’Io e il suo cervello (Armando ed., Roma 1986)

5 Data la sua origine psicanalitica, il termine narcisismo si può erroneamente ritenere un concetto, ma come altre parti del corpus freudiano (vedi il “complesso di Edipo”), è una metafora che sta per è come quello che accadde al personaggio mitico di Narciso, che affogò nel lago in cui contemplava la sua immagine rispecchiata. In quanto metafora è utilizzabile senza necessità di aggiustamenti in un approccio fenomenologico esistenziale: la storia di Narciso è un mezzo di conoscenza narrativo metaforica, che mette in luce i possibili pericoli del piacersi.

6 Un terzo, più importante di tutti, che la mistica della vittoria è fisiologica alla Weltanschaung nazifascista.

7 …che alimentano il razzismo come inevitabile by-product.

8 da qui nasce l’uso dell’estorsione tramite ricatto, che incrementa l’omicidio e la letteratura gialla che di questo si nutre.

Please cite this article as: G. Paolo Quattrini (2018) Brevi lezioni di Gestalt. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/brevi-lezioni-di-gestalt/

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