Il modello esistenziale applicato al trattamento dei sistemi autistici: un cambiamento di rotta*

Abstract

Il presente lavoro vuole porre l’attenzione su un’applicazione della metodologia psicoterapeutica esistenziale all’interno dei contesti familiari nei quali è presente un soggetto autistico, nel senso di un lavoro con il sistema parentale. Il fuoco dell’attenzione è quindi spostato sull’accettazione del bambino reale che diventa soggetto portatore di bisogni specifici e capacità, oltre che di difficoltà tangibili. L’obiettivo è perciò favorire un riposizionamento e ripensamento esistenziale dell’inero nucleo familiare che permetta il passaggio da una posizione Io-Esso ad una dinamica Io-Tu, in una prospettiva in cui il benessere dell’uno è imprescindibile da quello dell’altro.

Francesca Maria Ferraro

Francesca Maria Ferraro

Psicologa clinica, Psicoterapeuta

* Lavoro presentato al “I Congresso Italiano di Psicoterapia Esistenziale”, Roma 23-24 Maggio 2014

Pubblicato sul numero 26 di  Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.

Che cos’è l’autismo.

Il Disturbo Autistico, chiamato originariamente Sindrome di Kanner, sta conoscendo a livello mondiale un incremento fortissimo del numero di casi: si stima che solo in Italia esso coinvolga circa 550.000 persone e in Europa 5 milioni, benché non si abbia una statistica precisa della consistenza di tale fenomeno. Più chiari sono i dati che giungono dagli Stati Uniti, dove si registra un incremento dell’autismo del 78% in 5 anni e un aumento di ben dieci volte (1000%) negli ultimi 40 anni, con una stima media di un caso ogni 88 bambini e una percentuale maggiore per quel che riguarda i maschi (un bambino ogni 54 e una bambina ogni 225).

A livello diagnostico tale patologia è considerata dalla comunità scientifica internazionale un disturbo neuro-psichiatrico che interessa la funzione cerebrale. L’eziologia di tale disturbo risulta a tutt’oggi non definita con chiarezza, e la diagnosi viene perciò effettuata in base ad indicatori di tipo comportamentale, prendendo in considerazione specifici indici della persona caratterizzati da gravi alterazioni del comportamento stesso, della comunicazione e dell’interazione sociale e, poiché si viene parallelamente a verificare una diffusa alterazione del normale percorso evolutivo, tale disturbo viene ad essere incluso all’interno dei “Disturbi Generalizzati dello Sviluppo”. A questo proposito è importante sottolineare come nella classificazione del DSM IV del 1996 i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo si trovano collocati in asse I, tra i disordini episodici e transitori, essendo stato effettuato uno spostamento per quanto concerne tali disturbi rispetto all’edizione del 1987 in cui erano categorizzati in asse II, ovvero come disordini a decorso lungo, stabili e con prognosi infausta: questo apre al riconoscimento della possibilità che i sintomi possano attenuarsi.

Utilizzando la classificazione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali per fare diagnosi di autismo è necessaria la presenza contemporanea di quei comportamenti definiti come la “triade del comportamento autistico” ovvero ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei 3 anni di età:


-interazione sociale
-linguaggio usato nella comunicazione sociale
modalità di comportamento, interessi e attività che si caratterizzano come limitati, ripetitivi e stereotipati

E’ da tenere presente che i criteri sopra riportati si riferiscono a compromissioni nella qualita’ delle interazioni, e non alla loro assoluta assenza (esà l linguaggio può variare dalla totale mancanza fino al parlare con frasi dettagliate e grammaticalmente corrette, che, malgrado tutto, rimangono ripetitive, concrete e pedanti).

Di seguito viene riportata in forma di schema un’elencazione delle principali aree compromesse e comportamenti deficitari.

  • difficoltà nello stabilire interazioni sociali

  • difficoltà nella comunicazione verbale

  • difficoltà nella comunicazione non-verbale

  • difficoltà nello sviluppare le capacità ludiche e l’immaginazione

  • resistenza ai cambiamenti.

Ipotesi eziologiche.

Le condizioni specifiche dell’insorgenza di tale disturbo risultano essere tutt’ora ignote, benché molti e diversi sono i fattori osservati che possono contribuire allo sviluppo della sindrome, e le ipotesi sulle sue origini sono variegate.

Il termine “autismo” è stato coniato nel 1911 dallo psichiatra svizzero Eugene Bleuler per indicare la perdita di contatto con la realtà presente nei malati mentali adulti. L’autore sosteneva che il disturbo non fosse una malattia specifica, bensì un sintomo secondario alle schizofrenie. In realtà i due autori che si possono considerare i pionieri dell’autismo infantile sono Leo Kanner e Hans Asperger che, rispettivamente nel 1943 e nel 1944, pubblicarono per primi alcuni studi sul disturbo.

Bettelheim fu uno dei primi autori ad interessarsi all’eziologia dell’autismo dal punto di vista psicodinamico, facendone risalire la causa in un’anomalia del rapporto madre-bambino, definito plasticamente con il termine “madre frigorifero”. Secondo l’autore alla base del comportamento autistico vi è la percezione nel bambino di ostilità con un’intenzione distruttiva nei suoi confronti da parte della madre (che per lui rappresenta il mondo). Sebbene tali percezioni possano inizialmente non rispecchiare la realtà, l’infante interpreta il risentimento della madre per il rifiuto incomprensibile di suo figlio verso di lei, come conferme delle sue sensazioni; da ciò deriverebbero vissuti di impotenza e sensazioni di non poter né agire né fare previsioni sulla realtà esterna in contrasto alle quali il bambino utilizzerebbe perciò delle difese, la preservazione dell’identità e la creazione di confini, adatte a tenersi fuori dal mondo e dai suoi pericoli, al prezzo però di un progressivo svuotamento di un Io che si ritrova così sempre più indebolito e impoverito.

Su questo filone si collocano anche autori come Margaret Mahler e Donald Winnicott. Nello specifico per la Mahler un bambino con autismo infantile appare <organizzato per mantenere e consolidare la barriera allucinatoria negativa che caratterizza la prima settimana di vita, quando si deve difendere da una stimolazione sensoriale troppo viva> senza tuttavia saper utilizzare la madre contro le proprie ansie di annientamento e ciò metterebbe in discussione il rapporto madre-bambino in una fase troppo precoce, tanto da portare alla cristallizzazione di meccanismi difensivi estremamente rigidi ed escludenti.

Per Winnicott l’attenzione si focalizza invece sul deterioramento del funzionamento del Sé come conseguenza dell’inadeguatezza dei genitori, Winnicott descrisse infatti la psicosi come “un disturbo da deficienza ambientale”, per cui se la madre risulta carente nella sua funzione di fornire al bambino il sentimento di continuità dell’essere, adattandosi in una prima fase ai bisogni del figlio, quest’ultimo potrebbe a tal punto sentirsi minacciato di annientamento, da non riuscire ad instaurare una relazione col mondo esterno.

Attualmente gli studi che si occupano di identificare una causa alla base dello sviluppo dell’autismo si dividono in ipotesi neurobiologiche, costituzionali e psico-ambientali acquisite.

Ricerche dell’ultimo decennio su possibili alterazioni biochimiche nell’autismo hanno consentito l’individuazione di una disfunzione dopaminergica in diversi casi che, considerato il ruolo del sistema dopaminergico in generale, potrebbe dar conto della complessa sintomatologia dell’autismo. Shattock, partendo dalla constatazione di Panksepp sulla somiglianza tra la sintomatologia dovuta ad assunzione cronica di oppioidi e quella dell’autismo ha analizzato con la HPLC (Cromatologia Liquida ad Alta Resa) le urine di alcuni soggetti affetti o con disturbi correlati, rilevando l’effettiva presenza di elevati livelli di oppioidi (come la beta-endorfina) nel SNC, che potrebbero essere dovuti a un’incompleta scissione del glutine e della caseina o al fatto che glutine e caseina potrebbero creare dei ligandi per enzimi preposti alla scissione degli oppioidi naturali, con un conseguente accumulo di endorfine per un tempo più lungo.
Questo spiegherebbe anche le osservazioni di Reichelt, che mostrarono un elevato tasso di prodotti della scissione del glucosio di alcuni cereali e prodotti caseari (glutine e caseina, appunto).
Gli oppioidi sarebbero quindi responsabili dell’inibizione della trasmissione nei principali sistemi di neurotrasmettitori esistenti. Agli oppioidi potrebbero anche essere dovute alcune alterazioni del sistema immunitario nell’autismo. Dato il loro ruolo nei processi di specializzazione neuronale nello sviluppo neonatale, ad un elevato tasso di peptidi oppioidi potrebbe essere dovuta un’eccessiva riduzione di neuroni, come sembrano dimostrare le anomalie rilevate nel SNC di persone con autismo.

Per quel che riguarda le ipotesi basate su fattori costituzionali diversi indizi portano attualmente a ipotizzare che la componente genetica abbia un ruolo rilevante nella Sindrome autistica. La maggior incidenza del disturbo nei maschi si potrebbe, per esempio, attribuire ad anomalie dei cromosomi sessuali, tanto più che le manifestazioni sintomatiche nelle femmine sono più gravi. Un’incidenza maggiore di comportamenti autistici è stata anche osservata in pazienti affetti da disturbi a base genetica accertata, quali l’X fragile, la sclerosi tuberosa e la fenilchetonuria.

Sul finire degli anni ‘80 prese concretezza anche un modello cognitivo basato sulla teoria della mente, proposta da Uta Frith, la quale ipotizza che nell’autismo la disfunzione cognitiva da cui deriverebbero gli altri sintomi consista in un’incapacità di rendersi conto del pensiero altrui, sarebbe cioè carente o assente proprio la teoria della mente, in cui per “mente” si fa riferimento a ciò che è posto tra cervello e comportamento. Più recentemente, a suscitare un certo interesse nel mondo accademico, è stata la teoria della mente che le persone con autismo si costruiscono riguardo gli altri, ossia il loro modo di immaginare cosa essi pensano, proposta nuovamente da Frith, secondo la quale un malfunzionamento del cervello si rispecchia in un malfunzionamento della mente, da esso prodotta e produttrice a sua volta del comportamento.  L’approccio si fonda sull’ipotesi di un’incapacità, negli individui con autismo, di attribuire correttamente all’altro stati mentali come conoscenze o credenze, probabilmente a causa di un danno della facoltà metarappresentazionale, con una conseguente compromissione dei processi di mentalizzazione, forse innati, da cui risulta un pensiero concreto, basato esclusivamente su eventi della realtà direttamente osservabili.

Nonostante sia evidente l’interesse e l’impegno per l’individuazione di una causa certa che permetta di diagnosticare precocemente il disturbo artistico, a tutt’oggi le teorie e le ipotesi proposte sono ancora insoddisfacenti a fornire una risposta.

Impatto sul sistema

In questo quadro,  il sistema nel quale il soggetto autistico è inserito si trova a dovere affrontare un carico di stress aggravato proprio dalla scarsa conoscenza delle caratteristiche che la sindrome comporta e dalla sintomatologia stessa che rende di per sé difficile il rapporto col portatore del disturbo.

Ampliando il significato del termine “pervasivo” presente nella definizione, possiamo vedere come il disturbo autistico vada ad incidere in maniera dirompente su quello che è tutto il sistema relazionale che intorno al fulcro del disagio si muove, generando reazioni emotive violente e difficilmente gestibili di disorientamento e incertezza che si trasmettono nella rete del contesto di vita in una sorta di effetto domino apparentemente inarginabile, e che necessitano di essere contenute ed elaborate in rapporto a quella che è la scoperta di una malattia irreversibile.

Vi è inizialmente rifiuto rispetto alla malattia del figlio, negando di affrontare le speciali necessità che essa comporta, seguito da shock dovuto alla presa di consapevolezza che qualcosa non va; vi è poi l’ impotenza, con una paralisi emozionale che lascia nella confusione e perplessità, senso di colpa e rabbia, verso sé, verso gli altri, in cui si tende ad incolpare tutto e tutti della propria sorte investendo in questo molta energia piuttosto che nel cercare aiuto.

A ciò spesso fa seguito una profonda crisi familiare, in cui il portatore di autismo diventa il fulcro della vita del nucleo e delle esigenze dei singoli, in una fantasia secondo la quale <se il bambino sta bene, io sto bene>, annullandosi come persone, coppie e paradossalmente anche come genitori, per assumere un ruolo curante ma distaccato o viceversa eccessivamente apprensivo e limitante rispetto agli eventuali progressi del figlio. La vita dell’intero sistema è presto sconvolta inoltre dai problemi comportamentali che il portatore di autismo presenta, in special modo forme di aggressività auto ed etero diretta, ma anche da situazioni meno “gravi” come pianto e riso immotivato, lancio di oggetti etc., che generano in coloro che interagiscono con l’autistico forme di angoscia e frustrazione, e contemporaneamente di protezione, così chè spesso, per alleviarne le sofferenze e  fronteggiare il proprio senso di inadeguatezza in rapporto alla situazione, si rinuncia a una qualunque regola o coerenza educativa, con l’effetto di lasciare il soggetto autistico in un’incertezza ed emarginazione ancor maggiore, o viceversa si assume una posizione di pretesa di normalità, in cui i traguardi e gli apprendimenti raggiunti non sono mai abbastanza perchè sempre troppo lontani da quell’ideale di “bambino normale”, che diventa a sua volta sempre più utopico e idealizzato.

Principali tecniche di intervento attualmente utilizzate

L’autismo si configura, dunque, come una disabilità permanente che accompagna il soggetto lungo tutto il suo ciclo vitale. Allo stato attuale le principali metodologie applicate per la riabilitazione dei disturbi autistici sono prevalentemente di tipo cognitivo-comportamentale, volte a favorire il miglior adattamento possibile del soggetto al suo ambiente, in rapporto alle specifiche caratteristiche del quadro sintomatologico, al fine di garantire una soddisfacente qualità di vita al soggetto e all’intero sistema famiglia in cui egli è inserito.

Non è questa la sede per entrare nel merito del variegato numero di tecniche terapeutiche e riabilitative che alla sindrome autistica vengono applicate (TEACCH, COMUNICAZIONE FACILITATA, DELACATO, FEUERSTEIN, ABA, ETC…), tuttavia le aree che all’interno di tali interventi vengono ad essere incentivate sono prevalentemente un miglioramento dell’interazione sociale, l’arricchimento della comunicazione e il favorire un ampliamento degli interessi ed una maggiore flessibilità degli schemi di azione.

Allo stesso modo tecniche di intervento che si pongono su un versante maggiormente espressivo, mediate principalmente da forme di arte-terapia e musico-terapia, si occupano di insegnare alcune abilità stimolando contemporaneamente lo sviluppo dell’autoconsapevolezza attraverso la co-occorrenza di esperienze emotive, immagini inconsce, scelta cosciente e struttura logica, operando in questo senso una presa in carico totale della persona che si basa sulle modalità comunicativo-espressive del bambino stesso.

Il modello fenomenologico esistenziale sul contesto

Oltre la meccanicizzazione della relazione

Alla luce di ciò, al di là dell’acquisizione di abilità di base e funzionali al benessere e all’adattamento del bambino autistico alla realtà sociale, ciò che viene a verificarsi nell’immaginario innanzitutto parentale, per poi estendersi a coloro che nella sfera di vita del bambino orbitano, è una scissione rispetto a due polarità ben distinte che viaggiano tra la disabilità assoluta e irrecuperabile, con conseguente atteggiamento di rinuncia e iperprotezione che va a negare al bambino la possibilità di sperimentare e sperimentarsi anche rispetto a dei limiti che spesso sono ben oltre il livello percepito da coloro che emotivamente sono coinvolti, al tendere verso un ideale di normalità che sfocia nell’immagine di un “ super-bambino”, correndo con ciò il rischio di saltare tappe evolutive nella continua richiesta di acquisizioni di competenze sempre più complesse, ma al di fuori della portata attuale. E’ evidente in ciò un totale perdere di vista quello che è invece il bambino reale.

In entrambe le posizioni ciò che viene messo in evidenza è l’aspetto della mancanza, rispetto alle competenze, alle relazioni, all’ideale di un immaginario di famiglia e di percorso di vita necessariamente immaginato in primo luogo dai genitori, ponendo invece sullo sfondo le essenziali peculiarità di ciascun individuo, e con essi anche le risorse di cui è portatore.

Seppur quindi nelle intenzioni l’obiettivo per cui si inizia un trattamento specifico che intervenga sulla gravità del disturbo autistico, di qualsiasi genere esso sia, è un miglioramento della qualità della vita di chi di tale disturbo è portatore, il rischio concreto tuttavia è che il bambino assuma quasi la connotazione di “qualcosa da aggiustare” , con tutto il carico di densità emotiva che questa definizione porta con sé, e come tale si perdano di vista quelli che sono i suoi specifici bisogni esistenziali, lavorando sul bambino per sedare le angosce e il senso di fallimento del genitore. In tali situazioni la relazione che si stabilisce, sia con gli operatori ma anche con i membri della famiglia, risulta essere falsata a favore di una meccanicizzazione che oggettivizza il bambino disabile, non vedendolo più invece nel suo aspetto fondamentale di “fenomeno”, in cui, riferendoci ad Heiddeger, il “vedere” è un “vedere fenomenologico” appunto, che contrasta con un’idea costituita di conoscenza dell’altro, per cui non esiste più il “supporre” iniziale che agisce come forma di pretenziosa verità automatica, ma il “percepire” dove le pretese le avanza il fenomeno stesso, perché il vedere fenomenologico elimina la tendenza all’interpretazione e al giudizio e permette di cogliere l’importanza che sta nell’espressione, nella manifestazione dell’essere.

E’ evidente perciò che sia necessario un intervento che prenda in carico tutto il nucleo familiare e si occupi successivamente di sostenere il circuito che intorno al portatore di disabilità gira. Tale sostegno deve però riferirsi non esclusivamente ad un parent-training volto all’insegnamento di tecniche/strumenti che permettano al soggetto disabile di incrementare la capacità di acquisizione di abilità e competenze, ma in una direzione che permetta di colmare la distanza tra i poli della normalità vs anormalità, o meglio tra il bambino perfetto e il bambino disabile, muovendosi invece nella direzione del bambino reale. La distanza tra queste due polarità può perciò essere definita “abitabile” in relazione allo stare nello spazio tra esse, oltre la soglia oppositiva giusto/sbagliato, per essere invece fenomenologicamente nella relazione con il bambino. E’ evidente tuttavia che ai fini di questo lavoro la prima distanza da creare e abitare è innanzitutto quella tra sé e sé, ovvero tra sé e l’immagine fantasmatica interna di cui si è portatori nella relazione.

Educare a vedere : passaggio dall’ Io-Esso all’ Io-Tu

In questo senso il terapeuta che si muova in un ottica fenomenologico-esistenziale si trova davanti ad un lavoro innanzitutto di sintesi rispetto alle polarità che hanno preso forma sulle fantasie/aspettative relative all’immagine del figlio, e contemporaneamente alla dimensione di elaborazione e contenimento del lutto che si porta dietro la scoperta e il convivere con la disabilità. Questo tipo di percorso terapeutico non può prescindere da un lavoro intenso sulle emozioni, e su una ristrutturazione che diventa quasi percettiva.

Il terapeuta fenomenologico-esistenziale ha dunque il compito di aiutare la persona a “rieducarsi a vedere”, nel senso inteso da Hiddeger di lasciare che le cose si mostrino, tollerando la fatica di abbandonare l’ideologismo di categorie precostituite e liberandosi contemporaneamente da una strutturazione della psiche già rappresentativamente preordinata e strutturata, in quanto il vedere fenomenologico non può corrispondere alla cosa, ma al suo esistere, scalfendo così una logica binaria e cartesiana che non prevede la possibilità di reversibilità.

Attraverso questo percorso ciò che si mira a creare nella relazione con il portatore di disabilità è, parlando con Buber, un passaggio da una posizione relazionale Io-Esso, in cui l’altro è oggettivizzato venendo utilizzato come oggetto di proiezioni senza onorare debitamente l’essenziale umanità della relazione, ad una posizione Io-Tu, in cui invece la chiave di volta sta nell’incontro, nella relazione in cui i bisogni dei genitori non sono sovrapposti a quelli del bambino frapponendo l’io dell’uno a quello dell’altro, ma permetta di vedere e relazionarsi con l’altro come fenomeno olistico, ovvero multidimensionale, riconoscendo l’insieme suoi bisogni e peculiarità, con la possibilià perciò di ricostruire la relazione e gli interventi in maniera più rispondente al vissuto e alle esigenze del bambino in primis.

L’essere e l’essenza della relazione passa per ciò da una dimensione di reificazione e afferrabilità a una posizione di possibilità.

In tal modo anche gli interventi riabilitativi che si deciderà di intraprendere con il soggetto autistico saranno volti al miglioramento della sua qualità di vita, fornendo al genitore un contenimento emotivo tale per cui il malessere parentale non andrà a sovrapporsi a quello che è lo scopo della cura, in una prospettiva per cui il benessere dell’uno è indissolubile da quella dell’altro.

La categoria di riferimento in questo modo non è più quella dell’essere, ma dell’esistere.

Prospettive di lavoro

Affinché sia possibile effettuare un intervento di questo tipo, con una totale presa in carico del nucleo e del contesto di vita del soggetto portatore di autismo, è evidente che è necessario un lavoro di rete che si svolga in una sinergia tra gli operatori e i servizi che hanno in carico la persona. Attraverso un percorso di sostegno al contesto, sarà necessario fornire ai genitori, e a coloro che sono a diretto contatto con il portatore del disturbo, non soltanto tecniche e procedure che formino gli adulti nell’aiutare il bambino a superare le sue difficoltà, ma un contenimento emotivo e un supporto per fronteggiare i sentimenti e le insicurezze in cui si incorre quotidianamente. La formazione perciò dovrà essere fatta non solo in modo diretto, ovvero in termini di miglioramento del funzionamento del bambino, ma anche sul piano indiretto, cioè sul piano del benessere di tutta la famiglia, diminuendo il rischio di ansia, stress e  depressione e di altre condizioni emozionali negative per la salute mentale degli adulti, che a loro volta innescano meccanismi di abbandono e rinuncia. Allo stesso modo è necessario che tale sostegno includa uno spazio di ascolto e di supervisione emotiva anche per gli operatori che con il bambino lavorano, al fine di evitare e contenere rischi di burnout.

Il supporto individualizzato deve perciò prendere avvio e costruirsi in base agli specifici bisogni e potenzialità, includendo spazi di ascolto ed elaborazione dei propri vissuti emotivi, trovando il tempo e il coraggio di fermarsi ad ascoltarli, dando voce alle proprie emozioni e ai propri pensieri. L’incontro con un professionista, che avvenga in un setting gruppale o individuale, diventa un luogo di ascolto e comprensione dove poter condividere la fatica dei percorsi riabilitativi, il lutto per l’immagine del figlio ideale e il dolore per il limite e la diversità, la fatica di un lavoro con risultati a lungo termine che rischia di diventare sfiancante,in una dimensione in cui lo stimolo doloroso e prima impensabile  trova un contenitore in cui poter essere espresso, elaborato e restituito sotto forma di contenuto pensabile, lavorando per creare un nuovo posizionamento esistenziale della famiglia, e favorendo inoltre la presa di consapevolezza dell’immagine del figlio reale con le sue capacità e abilità, non solo mancanze.

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Bibliografia

– Andolfi M.(a cura di); “Il bambino nella terapia familiare”; Franco Angeli editore; 2010, Roma

– Andreoli V., Cassano G. B., Rossi R., “DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Text revision.”, Elsevier editore, 2007

– Buber M., “L’Io e il Tu”, Bonomi editore, 1991, Pavia

– Di Renzo M.. Mazzoni S.(a cura di); “Sostenere la relazione genitori-figli nell’autismo”; edizioni Magi, 2011, Roma

– Merleau-Ponty M., “Il visibile e l’invisibile”, Bompiani editore, 2007, Milano

– Quattrini P., “Fenomenologia dell’esperienza”, Zephyro Edizioni, 2007, Bergamo

– Rovatti P.A., “Abitare la distanza”, Raffaello Cortina Editore, 2007, Milano

Xaix C., Micheli E.; ” Lavorare con le famiglie dei bambini con autismo”; Ed. Erikson, 2011

 

 

 

 

 

 

Please cite this article as: Francesca Maria Ferraro (2014) Il modello esistenziale applicato al trattamento dei sistemi autistici: un cambiamento di rotta*. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/il-modello-esistenziale-applicato-al-trattamento-dei-sistemi-autistici-un-cambiamento-di-rotta/

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