Il dialogo con ‘le voci’: un’esperienza gestaltica
di Anna Rita Ravenna
Psicoterapeuta – Direttrice Didattica Istituto Gestalt Firenze
Pubblicato sul numero 26 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.
“… a single image of who we are remains a strong attraction…”
Erving Polster
‘Uditori di voci’ è una generica espressione con la quale si fa riferimento a condizioni esistenziali assolutamente diverse tra loro. Sembra banale sottolineare che udire le voci degli altri è un’attività costante e quotidiana probabilmente apparsa, negli esseri viventi, animali prima umani poi, con lo sviluppo dei cinque sensi ed in particolare della vista e dell’udito. Sembra ovvio basare la comparsa di quel particolare linguaggio che si articolerà nella parola detta proprio su quest’ultima caratteristica degli esseri umani. E dico ‘sembra’ e ‘probabilmente’ perché, per quel che ne so, non esistono prove cosiddette scientifiche di questo primordiale periodo dell’esistenza umana.
Julian Jaynes1 in un affascinante testo cerca di datare, almeno per quello che riguarda la nostra ‘cultura occidentale’, la nascita della coscienza umana come la intendiamo oggi. Jaynes scrive: ”… ci fu un tempo in cui la natura umana era scissa in due parti: una parte direttiva chiamata dio, e una parte soggetta chiamata uomo”. E’ questo che egli definisce il tempo della mente bicamerale, il tempo della scissione dei due emisferi cerebrali: il sinistro manifestava la volontà (degli dei) attraverso le voci udite nell’emisfero destro. Analizzando fondamentalmente l’Iliade e l’Odissea l’Autore afferma che all’epoca dei fatti descritti, ma anche all’epoca delle loro narrazioni, prima orali e poi scritte, la forma mentale degli esseri umani era molto diversa da quella attuale. Erano tempi, sostiene Jaynes, “privi di soggettività in cui ogni regno era essenzialmente una teocrazia e l’uomo era lo schiavo di voci udite ogni volta che insorgeva una situazione nuova”.
All’interno di una ben più complessa narrazione, anzi narratizzazione (narratizzare=rendere esprimibile un qualsiasi evento attraverso le parole) come ama chiamarla, Jaynes collega situazioni di intenso stress con la funzione ‘udire la voce degli dei’, propria dell’emisfero destro. Si tratta di voci assolutamente identiche alle ‘reali’ voci esterne, potremmo definirle ricorrenti allucinazioni uditive (in quanto in assenza di un concreto soggetto parlante), ma il dato di fatto più rilevante è che compaiono in soggetti non patologici, anzi, secondo Jaynes costituiscono il normale funzionamento del cervello umano sino a circa l’anno 1000 A.C.. All’epoca della mente bicamerale la voce degli dei sembra rappresentare nella persona la ”saggezza ammonitoria accumulata nel corso della sua vita” ed indicare “in modo non conscio che cosa fare”. Più volte nel testo si sottolinea che gli dei parlano in situazioni di stress, quando cioè l’organismo non ha una risposta pronta agli eventi in quanto nuovi, sorprendenti quindi non affrontabili con comportamenti abituali. Possiamo ipotizzare che lo stress della decisione da prendere fosse insostenibile in quanto portatore di conseguenze sconosciute delle quali la persona avrebbe dovuto assumersi la responsabilità: attribuire la decisione ad una volontà esterna, e per di più divina, cancella ogni alternativa e non resta che sottomettersi ed obbedire.
Al di là di ogni considerazione scientifica, la teoria di Jaynes risulta un’utile metafora per riconoscere una origine fisiologica dei conflitti interni. Che sia un retaggio di arcaiche modalità di funzionamento bicamerale o meno, si può immaginare che ogni essere umano a modo suo senta delle voci interne/esterne senza che si debba necessariamente parlare di patologia, pur non sottovalutando che in alcune persone il fenomeno può presentarsi con modalità disturbanti a diversi livelli. A seconda della fragilità dei confini dell’io, infatti, la persona localizza le voci dentro o fuori di sé e le descrive come fantasie o come voci più o meno conflittuali tra loro e con la persona stessa.
Questa a me appare la normale condizione umana, espressione ‘sonora’ di quanto afferma uno dei padri della Psicoterapia della Gestalt, Erving Polster2. Nella prefazione del suo libro Erv sottolinea come uno dei fattori primari che porta le persone in psicoterapia sia la ricerca del senso di sé, la ricerca di una risposta ‘sensata’ alla domanda ‘chi sono?’. Ma in questa ricerca, prosegue Polster, piuttosto che scoprire ”un fondamentale, compatto, immutabile sé, noi scopriamo un numero di differenti aspetti, di differenti sé appunto, spesso così in contrasto l’uno con l’altro che sembrano appartenere a molte persone diverse”. Nella Psicoterapia della Gestalt si lavora costantemente con i ‘diversi sé’, espressione considerata metafora della complessità dell’organismo di ogni essere umano e non inevitabilmente sintomo di una patologia schizoide da curare o, ancor peggio, inguaribile. Tutte le persone vivono emozioni contrastanti che a volte si strutturano in vere e proprie ‘personalità’ multiple. Alcuni esempi letterari possono essere rintracciati nei circa 24 eteronomi creati da Fernando Pessoa3 (fig. 1) o nel romanzo polifonico di Fёdor Dostoevskij4(fig. 2); i fratelli Karamazov si dice impersonino altrettanti sé dell’Autore.
Sin dalla nascita singoli eventi della vita della persona possono non essere rilevanti per l’organismo nel suo insieme e quindi non venir registrati: l’organismo infatti ha capacità selettive e solo gruppi (clusters) di esperienze significative, quindi registrate, si trasformano in pattern/caratteristiche che permettono di identificare la persona in innumerevoli forme/sé, alcuni a lei più usuali e forse più graditi, altri meno graditi e forse misconosciuti, relegati nello sfondo silenzioso ma sempre attivo della sua esistenza. Possiamo dire che alcuni sé formano il nucleo di una identità ‘scelta’, quella parte di sé alla quale la persona si rivolge con facilità e che spesso coincide con la parte che ama mostrare al mondo. Altri sé subiscono un processo di rimozione, vengono resi muti o silenti, spaventati, rifiutati o fraintesi. Tutti comunque giocano un importante ruolo nella personale esistenza sia nelle loro assonanze che nelle loro dissonanze, sia nel perpetuare automatismi caratteriali sia nell’emergere timorosi e mascherati nel tentativo di aprire nuove strade.
Per armonizzare il nostro comportamento con le caratteristiche/i sé che più apprezziamo di noi stessi non è necessario né utile rimuovere, sopprimere, rendere inespressivi gli altri sé; occorre piuttosto che il comportamento sia la risultante di un incontro creativo tra parti pariteticamente dialoganti, l’inter-locuzione di Buber, la cui polarità non collassi in sintomo, né si fermi al livello di compromesso.Il lavoro psicoterapeutico secondo il modello gestaltico tende a facilitare la dinamica figura-sfondo in relazione al contesto dato, dando pari dignità ad ogni sé, ponendoli quindi tutti sullo stesso piano valoriale in una costante inter-locuzione di configurazioni/pattern che nel tempo si sono andati strutturando in modo specifico per ciascuna persona.
Si attinge così a quella che Martin Buber 5 chiama “…polifonia originaria dell’anima umana…” all’interno della quale nessuna voce è riconducibile ad un’altra ed il cui senso unitario non può emergere da separazioni analitiche, ma può essere solo ascoltato nella consonanza che si fa presente. Per chiarire in modo evocativo l’importanza della presenza dei diversi sé, anche Polster porta un esempio tratto dal mondo della musica dove non è solo l’armonia che va apprezzata, come si fa d’abitudine. Erv sottolinea quanto sia importante dar valore, a-p-prezzare, le dissonanze melodiche e come questo richieda un impegno specifico. “Né la melodia né il contrappunto perdono le loro specifiche caratteristiche, piuttosto le integrano reciprocamente creando nuove caratteristiche della musica nel suo insieme.”
Così sembra essere per il cosiddetto sé e le sue numerose voci di contrappunto che non sono lì per essere zittite o ricondotte alla melodia, ma piuttosto per invitare gli uditori, pazienti e terapeuti, a valorizzare la differenza ad apprezzare il nuovo che può emergere a partire dalla complessità di un incontro tra ‘punto e contrappunto’. Si struttura così un complesso percorso di domande pertinenti ad uno scopo verso cui ci si vuole indirizzare e di coerenti risposte che intrecciandosi aprono le porte al nuovo sostenendo il rischio che questo comporta.
In ottica gestaltica si preferisce parlare di sé relegati nello sfondo, sui quali cioè l’attenzione tende a non posarsi e che tuttavia hanno la propria storia e le proprie caratteristiche. Pur operando dallo sfondo, essi danno continua prova della loro esistenza intervenendo attraverso meccanismi che portano ad evitare il contatto con il fluire del mondo esterno. Nello spazio protetto del contesto terapeutico, invece di essere trattata con quelli che Martin Buber definisce ”metodi di impoverimento dell’anima”, la persona può imparare ad osservarsi ed a sperimentarsi anziché evitare le differenze minacciose che abitano dentro di lei, assumendosi la responsabilità del cambiamento che il contatto comporta ed attingendo ad ogni parte di sé come risorsa (fig. 3).
Dal punto di vista gestaltico le ‘voci’ possono essere considerate configurazioni primarie di senso nelle quali la persona rimane cristallizzata in quanto il contesto non le offre risorse che permettano di mobilitare ulteriori parti di sé più consone all’attualità degli eventi ed in grado di dialogare con quelle configurazioni primarie. La persona non riesce da sola a tirarsi fuori da automatismi divenuti sterili ma che, in quanto tali, tendono a perpetuarsi all’infinito trascinando con sé ogni attribuzione di senso.
Per chi ha raccolto storie di persone definite ‘uditori di voci’6 appare evidente il vissuto di vergogna, quindi di autosvalutazione, ed il conseguente graduale isolamento cui la persona stessa si sottopone. L’udire le voci sembra apparire come l’unico sé manifesto con cui la persona possa identificarsi e che, nello stesso tempo, deve tenere nascosto in quanto conferma del proprio disvalore. La stessa espressione ‘uditori di voci’ riduce la persona ad una sua caratteristica, non certo quella socialmente più apprezzabile, e, anche quando l’attenzione mette a fuoco altre parti di sé, tutto sembra passare attraverso un unico filtro come se questa esperienza fosse sovraordinata ad ogni altro aspetto dell’individuo (fig. 4). Ma le voci intese come intromissione, alienità, incongruenza sono tali solo perché la persona, i suoi familiari ed anche i terapeuti non sanno cercarne la congruenza che sembra sempre dover essere esplicitamente data o ‘saggiamente’ interpretata. Sembra piuttosto che questa ricerca debba essere un processo intenzionato che va strutturato e sostenuto nel suo divenire continuo nel tempo.
Nel lavoro psicoterapeutico o, comunque, nella relazione d’aiuto con persone definite ‘uditori di voci’ sembra presentarsi la necessità di ciò che in psicologia è definito ’io ausiliario’, una persona, a volte anche semplicemente un amico, che aiuti a porre l’attenzione dove per abitudine non viene posta, le parti di sé oscurate e mantenute silenti dall’irrompere e dilagare delle voci, la cui disfunzionalità può essere ricondotta alla mancanza di interlocutori in grado di dialogare con loro. Possiamo immaginare una fragilità/disfunzionalità di quello che in Gestalt si chiama confine-contatto, una funzione in grado di mantenere separato il mondo interno dal mondo esterno ed al contempo favorirne una continua osmosi. In questa ottica la funzione specifica del terapeuta, o della persona che svolge la funzione di io ausiliario, è quella di sostenere la coerenza del processo di scambio, rinforzando i confini in modo da poter contenere il vissuto emotivo ed agevolarne il fluire in un esperienza concreta di scambio nel qui ed ora dell’incontro (fig. 5). Questo processo consente alla persona di mantenere, o spesso di riprendere, la vita nelle proprie mani (recovery) accompagnata da un operatore da lei scelto per aiutarla a sperimentare nuove modalità di stare in ciascuna delle esperienze emotivamente connotate che si celano dietro ogni voce portatrice di istanze che hanno bisogno di essere riconosciute, nominate, accolte, integrate. Polster sottolinea ripetutamente come sia la molteplicità dei sé che rende ogni essere umano diverso, complesso, unico, che lo rende la persona che di fatto è. Il cosiddetto paradosso gestaltico sottolinea, infatti, che l’unico cambiamento possibile è diventare la persona che si è restituendo fluidità alla dinamica figura/sfondo ed alla creatività. Amarsi così come si è vuol dire prendersi cura di se stessi nella propria complessità e specificità, empatizzare con le diverse parti di sé, personificare ‘parlando a…’ piuttosto che ‘parlare di…’ stando in contatto con le differenti risonanze emotive delle diverse voci. A questo scopo la Psicoterapia della Gestalt usa diverse tecniche: ‘sedia vuota’, ‘messa in scena’, elaborazione di fantasie e sogni ed altro.
Sembra appartenere all’essere umano una tendenza antropomorfica che lo spinge a vedere il mondo intorno a lui umanizzato: il vento sospira, il mare è infuriato, lo stomaco brontola. E’ poi così strano che le persone popolino il loro mondo interno con entità umane? Questa tendenza permette di mettere in scena, com-prendere nel senso di prendere insieme, ed empatizzare con un’esperienza che potrebbe rimanere isolata ed insignificante o, peggio ancora, terrorizzante ed invece acquista così vita psicologica, si colora di vissuto emotivo e, integrandosi ad altre esperienze, si colora di senso. Con la personificazione delle parti interne differenti sé l’individuo è portato a prendersi maggior cura di ciascuna di esse piuttosto che attraverso una descrizione diagnostica astrattamente concettuale. Occorre aiutare la persona ad empatizzare con ciascuna parte cioè ad identificarsi anche con istanze contrastanti e, allo stesso tempo, a disidentificarsi dalle loro modalità di espressione non più adeguate evitando vissuti di sottomissione, di disprezzo o di disperazione; occorre aiutare la persona a mantenere questo atteggiamento di accettazione di sé anche di fronte a situazioni di confusione o di sgradevolezza.
Il lavoro gestaltico con le persone definite ‘uditori di voci’ non aspira ad una guarigione che consista nel non udirle più7. Il lavoro terapeutico si focalizza sulle voci stesse, sulla loro personificazione aprendo un dialogo che in quanto tale non le lascia più padrone incontrastate del campo. Un dialogo con loro e tra loro e anche con altre flebili voci interne che il terapeuta aiuta la persona a scoprire ed a sostenere. Il terapeuta gestaltico non prende mai posizione, lavora in sospensione di giudizio e con equanimità rispetto alle scelte della persona, sostiene le voci più deboli spesso quelle che neppure si udivano all’inizio del processo terapeutico. Le sostiene perché possano ri-impegnarsi nel processo portando le proprie istanze in modo dialogico e in una riconfigurazione aperta alla creatività. La persona scopre così come ogni sé/voce giochi un ruolo specifico nella complessità della sua vita e come l’obbiettivo del lavoro sia imparare ad ascoltarle tutte simultaneamente senza che nessuna abbia il potere di oscurare, zittire l’altra. Questo processo, attraverso l’esperienza della vita quotidiana, toglie enfasi a principi teorici ed a descrizioni diagnostiche tanto povere quanto astratte. Il processo terapeutico gestaltico riporta la persona in contatto attivo con ciò che le accade nel quotidiano mondo, sia interno che esterno, nutre i confini ed anche il processo di osmosi tra i due mondi, aiuta a incontrare il senso metaforico dell’esperienza ed a ristrutturarla in un senso adeguato a sé ed al proprio benessere attuale.
BIBLIOGRAFIA:
AA.VV., Manuale diagnostico dei disturbi mentali – DSM 5, ed. Raffaello Cortina, Milano 2014
Buber M., Il principio dialogico e altri saggi, ed. San Paolo, Torino, 1993
Dostoevskij F., I fratelli Karamazov, ed. Mondadori, Milano,2014
Escher S., Parlare delle voci, relazione tratta dal 4° Convegno Nazionale della Rete italiana degli uditori di voci, Roma, 12-13/4/2013
Jaynes J., Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, ed. Adelphi, Milano, 1984
Pessoa F., Una sola moltitudine vol. II, ed. Adelphi, Milano, 1984
Polster E., A population of selves, ed. Jossey-Bass Publishers, Inc. San Francisco, U,S, 1995
Quattrini G. P., Fenomenologia dell’esperienza, ed. Zephiro, Milano, 2007
Quattrini G. P., Per una psicoterapia fenomenologico-esistenziale, ed. Giunti, Milano, 2011
Romme M., Escher S., Dillon J., Corstens D., Morris M., Vivere con le voci, ed. Mimesis, Milano – Udine, 2010
Romme M., Parlare con le voci, relazione tratta dal 4° Convegno Nazionale della Rete italiana degli uditori di voci, Roma, 12-13/4/2013
Salvini A., Bottini R. (a cura di), L’inquilino segreto. Psicologia e psicoterapia della coscienza, ed. Ponte alle Grazie, Milano, 2011
Fig. 1
Eteronimi di un poeta … dall’invenzione dissociata e proliferante a partire da uno unico anagrafico
Alberto Caeiro maestro di tutti
Alvaro de Campos sperimentatore violento e straripante suscitatore di avanguardie
Bernardo Soares desolato nichilista
Fernando Pessoa poeta metafisico ed ermetico
Riccardo Reis neoclassico … circa 20 ulteriori eteronimi!
Fig. 2
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Dmitrij passionale, istintivo, sregolato
Ivan gentiluomo, erudito, teoretico
Aleksej mite, etereo, novizio al monastero
Smerdjakov cuoco, servitore, misconosciuto
Fig. 3
Meccanismo di evitamento del contatto
Confluenza: incapacità di assumere un atteggiamento o un comportamento diverso dalla voce o da quanto suggerisce
Introiezione: internalizzazione delle ingiunzioni delle voci senza alcuna elaborazione
Proiezione: voci vissute come esterne a sé, come parte dell’ambiente
Retroflessione: rivolgere verso/contro se stessi emozioni e comportamenti che si desidera mettere in atto nel mondo
Deflessione: deviare sul altro sensazioni ed emozioni nate dall’ascolto delle voci
Fig. 4
‘Uditori di voci’ caratteristiche comuni
Possibilità di ricollegare l’insorgenza delle voci a stati di stress emotivo
Recrudescenza del fenomeno al ripresentarsi di situazioni di stress anche non analoghe alle precedenti
Voci vissute come ‘altro’ dalla persona stessa
Voci vissute come problema in sé e non come risposta adattativa ad una situazione problematica
Voci intrusive (arrivano senza preavviso) aggressive (impongono la loro presenza) e confondenti (a volte contraddittorie, imprecise, generiche) anche quando i contenuti sono positive
Voci che comandano e minacciano (sé stessi e/o altri) o blandiscono per essere obbedite
Fig. 5
Fasi del lavoro psicoterapeutico
-
Analisi delle voci, delle loro caratteristiche e dei momenti della loro prima comparsa o comunicazione al terapeuta di questa esperienza
-
Lavoro sull’esperienza attuale dell’udire le voci al fine di:
-
Osservare le concomitanze del loro attuale presentarsi;
-
Riconoscere le voci come possibile risposta adattativa a situazioni problematiche;
-
Analizzare il contenuto immaginando possibili sensi metaforici;
-
Dialogare ponendo regole e domande adeguate per svelarne la coloritura emozionale, le istanze personali di cui sono portatrici sino a giungere a dar loro un senso;
-
Interiorizzare le voci riconoscendole come parti significative di sé;
-
Integrare l’esperienza in uno stile di vita personale e soddisfacente.
1 Jaynes Julian, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, ed. Adelphi, Milano, 1984
5 5 Dostoevskij F., I fratelli Karamazov, ed. Mondadori, Milano, 2014 Buber Martin, Il principio dialogico e altri saggi, ed. San Paolo, Torino, 1993
6 Romme Marius, Escher Sandra, Dillon Jaqui, Cosrstens Dirk, Morris Mervyn, Vivere con le voci, ed. Mimesis, Milano-Udine, 2010
7 Questo può anche accadere, ma è parte dal personale processo che si attiva in una specifica persona e non una meta obbligata per tutti.
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