GESTALT E INFANZIA
di Alessandra Petrone
Psicoterapeuta – Antropologa – Direttrice Istituto “Miriam Polster”
Pubblicato sul numero 26 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.
Abstract: Il lavoro svolto dall’equipe transdisciplinare qui riportato è l’esito di un laboratorio di scrittura a tre voci con l’ottica di mostrare al lettore il “senso” che ognuna delle professionalità coinvolte attribuisce agli interventi clinici corali socio-culturalmente “sensibili”, tenendo in considerazione le rispettive specificità disciplinari e l’esperienza maturata da ciascun professionista nel Servizio rivolto alle persone richiedenti protezione internazionale dell’INMP.
Abstract: The work carried out by the transdisciplinary team reported here is the result of a three-part writing workshop with the aim of showing to the reader the “sense” that each of the professionals involved attributes to social-culturally “sensitive” choral clinical interventions, taking into consideration the respective disciplinary specificities and the experience gained by each professional in the Service addressed to persons requesting international protection of the INMP.
Keywords: Richiesta di asilo, tortura, trauma, INMP, violenza collettiva.
“L’individuo che non può creare vuole solo distruggere…
L’unica possibilità di allontanare la distruttività è sviluppare nelle persone le potenzialità creative”.
E. Fromm, “Anatomia della distruttività umana”.
L’infanzia per ogni essere umano è la fase in cui il miracolo della vita si manifesta con più forza. L’essere, che al momento della nascita, è il più incompleto del pianeta, in poco tempo, si trasforma, si plasma, e, attraversando varie fasi, arriva alla piena padronanza della comunicazione fino al linguaggio e alla padronanza delle proprie attività motorie.
Questo piccolo essere indifeso riesce ad organizzare la propria psiche, e dopo aver assaporato spazi, vicinanze, contatti, che inizialmente non percepisce come separati, a poco a poco riesce a riconoscere l’ambiente che lo circonda come altro da sé.
Da fuori noi assistiamo con meraviglia alle varie fasi, tra cui quella di riconoscere se stesso allo specchio. Possiamo dire che sta nascendo una persona anche attraverso questa capacità di astrarre l’ immagine riflessa di sé dal sé,.
La grandissima plasticità, la capacità di assorbimento del bambino, non si fermano ai primissimi anni di vita, ma rimangono molto attivi, seppur ridotti, per tutta l’infanzia e l’adolescenza.
Ogni bambino incontra alla nascita un ambiente che può essere più o meno positivo, accudente, favorevole all’enorme impresa della presa di possesso del Sé.
Nel caso in cui questo habitat- famiglia-ambiente sia sufficientemente armonioso il bambino crescerà con una sana autostima, una sana affettività, e sarà in grado di fare buon uso delle funzioni di contatto.
Viceversa, nel caso in cui fin dalla nascita il bambino avverta la mancanza di un contenitore affettivo sarà costretto a difendersi, e apprenderà rapidamente strategie di sopravvivenza.
Nei casi estremi in cui senta minacciata la sua stessa esistenza, le difese saranno di tali proporzioni da chiudere ogni canale nei confronti del mondo esterno, canali attraverso i quali può giungere il pericolo.
Il bambino diventa così problematico, incapace di fare un buon uso delle funzioni di contatto: guardare, parlare, toccare, ascoltare, muoversi, odorare, gustare.
La Psicoterapia della Gestalt, proprio attraverso il suo approccio espressivo e creativo, è in grado di far ritrovare a quel bambino problematico le risorse necessarie all’evoluzione del Sé.
La creatività come espressione permette tra l’altro di riappropriarsi delle funzioni di contatto; permette al bambino infelice, violato, che crede che la colpa sia sua in quanto sgradevole, cattivo, non amabile, di riappropriarsi di una diversa e più positiva valutazione di sé.
Sarà possibile contattare l’altro soltanto dopo un “lungo” lavoro di ri-conquista della fiducia in sé,. Nella relazione di fiducia, nell’autentico scambio Io- Tu sarà possibile, attraverso la creatività, ri-creare quella gioia, quella libertà di espressione tipica dell’infanzia.
Vorrei parlarvi di una esperienza personale con “Os meninos de rua” brasiliani.
Le tecniche espressive della Gestalt sono state essenziali per questo lavoro;
soltanto attraverso questa modalità ho potuto “ raggiungerli” e dia-logare con loro.
Alcuni di questi bambini, sicuramente destinati ad un futuro di violenza e ad una morte precoce, hanno intravisto alternative possibili.
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E’ emozionante per me ripercorrere insieme quel cammino in quella terra di nessuno che è “a rua”, ripensare ai loro volti, alle loro voci di bambini e adolescenti soli e privi di qualsiasi legame significativo.
Un cammino , inizialmente fatto di impotenza e frustrazione; è stato molto difficile infatti raggiungerli.
E’ stato bello vedere l’odio e la diffidenza trasformarsi a poco a poco in fiducia, vedere il dolore e la chiusura trasformarsi lentamente in speranza.
Nell’anno 2000 ho lavorato per alcuni mesi in un centro1 che ospitava circa 60 bambini e che si trova nell’interno della città di Salvador, stato di Bahia, Brasile.
Sono i cosiddetti “orphaned, unaccompanied and abandonad children”.
Alcuni di loro hanno cominciato la vita di istituto molto piccoli, altri sono stati tolti dalla strada più recentemente.
Molti di loro non hanno assolutamente un passato neppure cartaceo.
Nelle cartelle che li riguardano ci sono pochissimi dati, manca quasi sempre un certificato di nascita, oppure quello esistente è stato redatto dal Tribunale dei Minori su una stima approssimativa.
In moltissimi casi il minore è giunto all’istituto portando sul corpo lesioni di varia entità.
Nessuno conosce le esperienze che hanno vissuto fino al momento dell’entrata nell’istituto, il poco che raccontano è soltanto in funzione dell’ascoltatore.
Si mostrano apatici, chiusi, demotivati, o al contrario, aggressivi e autodistruttivi.
E’ evidente da tutto il loro atteggiamento che sono abituati a essere soli e a non contare sull’aiuto di nessuno.
Sappiamo che l’aggressività, la diffidenza sono comportamenti adattivi, comportamenti di difesa da minacce esterne.
Il senso di impotenza può provocare una identificazione con l’aggressore. Molti di loro infatti si mostravano aggressivi ed insofferenti a tutto, molti erano già dei potenziali piccoli criminali.
Non vi parlerò del contesto storico-sociale del nord-est brasiliano.
Vi dirò solamente che le conseguenze di più di 400 anni di regime schiavista sono riscontrabili a tutti i livelli: sociale, psicologico e morale e che i poveri del nord-est sono in gran parte neri .
Nell’istituto in cui sono rimasta per tre mesi ero l’unica occidentale.
L’istituto, che ospita 60 ragazzi tra i 2 ed i 15 anni, si presenta come un grande spazio verde tra gli alberi, spazio in cui sorgono 7- 8 case allungate, ognuna di colore diverso.
Gli adolescenti, una decina di ragazzi tra i 9 e i 14 anni, erano quelli più a rischio.
La scolarizzazione, bassa in genere, in alcuni era inesistente e questo peggiorava le possibilità di inserimento presenti e future.
La proposta che mi era stata fatta dai responsabili era quella di fare trattamenti psicoterapici singoli ai ragazzi più disturbati usando gli ambienti di un ufficio dopo le 16-17 del pomeriggio.
Ho capito, con molto dolore e grande senso di impotenza che non sarei mai giunta a loro attraverso quella strada, e che il mio primo impegno consisteva nello stabilire un contatto, poi cercare di guadagnare la loro fiducia.
Il fatto che io girassi per il campo, unica occidentale, incuriosiva i ragazzi e in un primo momento, credendomi un membro di qualche associazione benefica, il loro atteggiamento era di accattonaggio e di provocazione.
Anche le maes sociali, (responsabili delle case famiglia), erano diffidenti nei miei confronti. Ho pensato al lavoro creativo un giorno che mi è capitato di osservare Toni che disegnava, poi, durante la notte, di ascoltare il flauto struggente e solitario di Arlan.
Ho cominciato, come per caso, a portare fogli e matite colorate in una di queste case e ho invitato i ragazzi più grandicelli a giocare insieme a me.
All’inizio mi hanno “accontentato” con l’aria di voler vedere dove andavo a finire.
Erano svogliati ma incuriositi.
Ho capito quasi subito che quella era la strada giusta: trovare attività ludiche e creative attraverso le quali veicolare un possibile rapporto di fiducia, e, in seguito, l’espressione di emozioni rimosse, conflitti e, possibilmente, sogni e speranze.
Stavo usando le tecniche di Violet Oaklander, Questo approccio è molto indicato nei confronti del bambino traumatizzato perché, mobilitando tutte le funzioni, sensoriali, emotive e razionali, colma la frattura esistente tra pensiero ed emozioni.
E’indicato anche perché trasforma l’”intervento” in una relazione tra soggetto e soggetto.
Con l’aiuto di un uomo tuttofare e di due o tre ragazzi che mi seguivano ho cominciato a sgombrare dai rifiuti una casa vuota, l’ultima del campo.
Quando i ragazzi più grandi hanno capito che la casa sarebbe stata utilizzata per le loro attività creative hanno aiutato con molto più impegno a pulirla e ad arredarla con due lunghi tavoli, diverse sedie (tutto abbastanza rotto ma utilizzabile) ed un piccolo armadietto di metallo.
Ho dotato la casa di fogli, colori a cera, pennarelli etc etc.
L’ambiente era stato creato. Ora occorreva il loro consenso.
Nasceva il nostro atelier, la “nostra casa verde”.
I più grandi venivano quasi ogni giorno a “vedere”, poi a disegnare, ma soprattutto a cercare di capire chi ero io.
In quel contesto appartato e tranquillo, facendo leva sul gioco e sulle attività espressive, ho lasciato che si avvicinassero gradatamente.
Molti di loro facevano cose bellissime, ma immediatamente dopo sporcavano, distruggevano le loro opere in impeti di rabbia silenziosi.
Alcuni si comportavano così anche nei confronti delle poche cose che possedevano, vestiti, quaderni etc.
Tra di loro non esisteva la solidarietà.
Potevano allearsi temporaneamente contro un nemico comune, sfidandosi a vicenda, ma ognuno di loro era chiuso in un mondo personale, ed il fuori, tutto il fuori, era considerato pericoloso e ostile.
Hanno cominciato a vivere lo spirito del gruppo lavorando insieme.
Il disegno, poi la pittura, sono state le prime tecniche usate.
Era visibile il loro bisogno di riversare sulla carta immagini, fantasie e racconti.
Si appassionavano sempre più a questa attività e la “casa verde” era sempre più piena, nonostante i turni scolastici.
Abbiamo quindi fatto due sezioni, due tavoli, uno per i bambini più piccoli (6 –9 anni), l’altro per i più grandi (10-14).
I primi disegnavano con le cere, le matite colorate, a volte con gli acquerelli, i più grandi con i guache su carta e poi su tela.
Il lavoro espressivo-La creatività
L’arte nel senso di espressione, è la strada che entra nel mondo interno e permette alla persona di stabilire un ponte tra sé ed il mondo esterno, è la valvola che regola il rapporto tra emozioni e capacità intellettuali.
L’arte usa il segno e il simbolo.
E. Cassirer dice che l’arte, il mito, la religione e la conoscenza vivono in mondi speciali di immagini che contengono il nostro passato, producono il nostro presente e prospettano il nostro futuro. Il simbolo è alla base dei tre ambiti culturali su cui ogni essere umano basa il suo mondo: quello ancestrale, o trasmesso dalla specie; quello sociale, cioè la nostra identità all’interno del gruppo in cui viviamo; infine quello che riguarda il processo di individuazione o personalizzazione del soggetto che ha la funzione di integrare i due precedenti.
L’espressione creativa può essere usata appunto come segno, simbolo, racconto, comunicazione, integrazione.
Attraverso forme espressive come il disegno, la narrazione, il teatro, è facile instaurare un dialogo delicato che porti comunque ad una profonda comunicazione di sé.
Con la musica è facile andare a toccare il nucleo dei ricordi personali e ancestrali; cantare le proprie emozioni ci permette forse di vedere possibili alternative.
L’espressione creativa è molto indicata nel trattamento del trauma, per grandi e piccoli. È un modo delicato di gettare un ponte non intrusivo tra te e l’altro, un modo di permettere la presa di consapevolezza di sé.
L’accoglienza dell’espressione permette a poco a poco la nascita di una relazione di fiducia attraverso la quale è possibile riappropriarsi della storia personale e dell’autostima.
Un disegno, una scultura, una poesia possono essere esplorate, non nel senso interpretativo (dall’alto), ma curiosando con l’altro sulle potenzialità che contiene, su cambiamenti possibili di una o più parti.
È una narrazione personale che viene offerta, narrazione che in gruppo può divenire co-narrazione. Quando ciò avviene capisci che siamo già entrati in un territorio in cui un sorriso è un sorriso e l’affettività può essere manifestata.
Una condivisione espressiva di emozioni sicure, potrà permettere l’emergere delle parti pesanti. Nel gruppo verranno “narrati” in modo casuale episodi personali e dolorosi, e cominceranno ad affacciarsi sogni e progetti. Sempre l’espressione permetterà la ricostruzione di mondi interiori spezzati.
Le tecniche di Violet Oaklander si basano su fantasie, disegni, giochi con l’argilla, con i mosaici e tanto altro materiale creativo. L’obiettivo per grandi e piccini è prendere consapevolezza di sé e della propria esistenza nel mondo.
Durante questo lavoro è importante che ognuno sperimenti quello che prova: sospendere quindi il giudizio e lasciare che siano le mani a guidarci, mentre usiamo ad esempio colori di ogni tipo, pastelli
L’accoglienza dell’espressione permette a poco a poco la nascita di una relazione di fiducia attraverso la quale è possibile riappropriarsi della storia personale e dell’autostima.
Un disegno, una scultura, una poesia possono essere esplorate, non nel senso interpretativo (dall’alto), ma curiosando con l’altro sulle potenzialità che contiene, su cambiamenti possibili di una o più parti.
È una narrazione personale che viene offerta, narrazione che in gruppo può divenire co-narrazione. Quando ciò avviene capisci che siamo già entrati in un territorio in cui un sorriso è un sorriso e l’affettività può essere manifestata.
Una condivisione espressiva di emozioni sicure, potrà permettere l’emergere delle parti pesanti. Nel gruppo verranno “narrati” in modo casuale episodi personali e dolorosi, e cominceranno ad affacciarsi sogni e progetti. Sempre l’espressione permetterà la ricostruzione di mondi interiori spezzati.
Tecniche Creative
Le tecniche di Violet Oaklander si basano su fantasie, disegni, giochi con l’argilla, con i mosaici e tanto altro materiale creativo. L’obiettivo per grandi e piccini è prendere consapevolezza di sé e della propria esistenza nel mondo.
Durante questo lavoro è importante che ognuno sperimenti quello che prova: sospendere quindi il giudizio e lasciare che siano le mani a guidarci, mentre usiamo ad esempio colori di ogni tipo, pastelli pennarelli, mentre tracciamo sul foglio qualcosa che non deve necessariamente avere un senso.
Si può suggerire poi di condividere il disegno, farne una descrizione personale. Si può chiedere se qualcuno vuole esplorare, ampliare una parte dello stesso, se si identifica un po’ di più con qualche elemento. Se sì, fare dialogare questa parte con qualcosa altro. Infine porre l’attenzione sui colori usati. Tutto ciò permette di aprirsi al divertimento. Ognuno si renderà conto che ha messo parti importanti di sé nella propria creazione, e che il disegno stesso sta diventando una specie di narrazione. Ho spinto i miei psicologi, dopo che essi stessi avevano sperimentato la creatività, ad usare, con i propri gruppi, i materiali più disparati: dai fogli per disegnare, alla creta, la cera, vari tipi di tessuti, legno, metallo, scatole, e infine piccoli strumenti musicali. Ho proposto collage di tessuti, di carta di giornale. Ho suggerito di usare l’argilla, meravigliosa in quanto molle, soffice e sensuale, e che piace a tutte le età.
Attraverso questi materiali sono state create storie, favole, poesie. È interessante proporre una varietà di temi: dove vorrei essere, la mia cena preferita, la parte di me che mi piace di più; permettere così esperienze tattili, olfattive, cinestesiche, lavorare con la voce e con la musica; chiedere ad esempio a ciascuno di creare la propria musica.
Propongo, nel lavoro con i loro gruppi, di metter e a disposizione fogli diversi con titoli come: felicità, vanti, desideri, proteste, arrabbiature, le cose che mi piacciono, le cose che odio.
L’arte usa il segno, ma soprattutto il simbolo.
E.Cassirer definisce l’uomo un animale simbolico, dice che l’arte, il mito2, la religione e la conoscenza vivono in mondi speciali di immagini che producono il nostro presente e prospettano il nostro futuro.
Levi Strauss dice che gli esseri umani comunicano per mezzo di simboli.
Il simbolo è anche alla base dei tre ambiti culturali su cui ogni essere umano basa il suo essere al mondo:
1) ancestrale, trasmesso dalla specie, radice culturale profonda registrata nella nostra memoria e che costituisce la nostra etnia.
2) sociale, la nostra identità, il gruppo in cui viviamo.
3) processo di individuazione, personalizzazione del soggetto, con la funzione di integrare i due precedenti.
L’espressione creativa può essere usata appunto come segno, simbolo, racconto, comunicazione, integrazione.
L’arte, nel senso di espressione, come abbiamo già detto, è la strada che entra nel mondo interno della persona e le permette di stabilire un ponte tra sé ed il mondo esterno, è la valvola che regola il rapporto tra emozioni e capacità intellettuali.3
Attraverso forme espressive come il disegno, la narrazione, il teatro, è facile instaurare un dialogo delicato che porti comunque ad una profonda comunicazione di sé.
L’espressione creativa è molto indicata nel trattamento del trauma, per grandi e piccoli. È un modo delicato di gettare un ponte non intrusivo tra te e l’altro, un modo di permettere la presa di consapevolezza di sé.
L’accoglienza dell’espressione permette a poco a poco la nascita di una relazione di fiducia attraverso la quale è possibile riappropriarsi della storia personale e dell’autostima.
Dico brevemente che ogni bambino costretto a difendersi nella vita diventa problematico, incapace di fare un buon uso delle funzioni di contatto: guardare, parlare, toccare, ascoltare, muoversi, odorare, gustare.
La creatività come espressione permette di riappropriarsi di queste funzioni. Permette inoltre al bambino infelice, violato, che crede che la colpa sia esclusivamente sua in quanto cattivo, sgradevole, non amabile, di riappropriarsi di una diversa e più positiva valutazione di sé.
Attraverso la creatività in genere dopo aver conquistato la fiducia necessaria, sarà possibile ri-creare quella gioia, quella libera espressione di sé propria del bambino. Un disegno, una scultura, una poesia possono essere esplorate, non nel senso interpretativo (dall’alto), ma curiosando con l’altro sulle potenzialità che contiene, su cambiamenti possibili di una o più parti.
È una narrazione personale che viene offerta, narrazione che in gruppo può divenire co-narrazione. Quando ciò avviene capisci che siamo già entrati in un territorio in cui un sorriso è un sorriso e l’affettività può essere manifestata.
Una condivisione espressiva di emozioni sicure, potrà permettere l’emergere delle parti pesanti.
Nel gruppo verranno “narrati” in modo casuale episodi personali e dolorosi, e cominceranno ad affacciarsi sogni e progetti. Sempre l’espressione permetterà la ricostruzione di mondi interiori spezzati.
Le tecniche di Violet Oaklander si basano su fantasie, disegni, giochi con l’argilla, con i mosaici e tanto altro materiale creativo. L’obiettivo per grandi e piccini è prendere consapevolezza di sé e della propria esistenza nel mondo.
Durante questo lavoro è importante che ognuno sperimenti quello che prova: sospendere quindi il giudizio e lasciare che siano le mani a guidarci.
Il disegno è stato usato come segno, simbolo, racconto, comunicazione, integrazione.
Non è stato né analizzato né svelato.
E’ stato utilizzato attraverso il suo grande valore catartico.
Ogni sera, chiudendo la “casa verde” per la cena, io ed i ragazzi mettevamo in ordine matite, cere e pennarelli, pulivamo i pennelli e attaccavamo alla parete tutti i disegni finiti.
All’inizio non riuscivano a dare valore agli oggetti e soprattutto a ciò che facevano.
Disegni a cui si erano dedicati venivano strappati, matite e colori venivano rotti e buttati.
Stavano anche continuando a mettermi alla prova duramente, il disprezzo
di se stessi e di tutto ciò che li riguardava li rendeva cinici, incapaci di accettare un mio reale interesse nei loro confronti.
Troppo radicato ormai in loro era il concetto di disvalore.
Ogni giorno, davanti agli altri , chiamavo un bambino a guardare le opere sulla parete e insieme esprimevamo ad alta voce i pregi dei vari disegni.
Questo li colpiva molto, ridacchiavano e si schernivano, ma ascoltavano avidamente.
Il mio compito era quello di aiutarli ad apprezzare e valorizzare se stessi, i propri mezzi espressivi, la loro cultura, il colore della loro pelle.
A poco a poco il loro mondo mi si è dischiuso grazie anche al fatto di parlare la loro lingua, di conoscere la loro cultura e le loro tradizioni.
Attraverso il gioco, la rappresentazione del loro mondo colorato, ho potuto dialogare con loro fino a giungere ad un autentico scambio.
Il gruppo degli adolescenti si stava rafforzando: erano loro stessi che arginavano i comportamenti più distruttivi e asociali di alcuni, senza però escluderli.
Ognuno a poco a poco ha raccontato se stesso.
Le storie personali si sono dischiuse: la storia di Arlan arrivato dalla strada un anno prima in seguito alla morte per AIDS del padre, la storia di Toni, ragazzino timido e apatico che viveva di accattonaggio con la madre drogata, la storia di Anderson la cui madre aveva cercato di suicidarsi con il piccolo gettandosi in acqua e di cui si erano perse le tracce, la storia di Rafael, tredicenne violento con alle spalle una vita di morte e di abbandono.
Oltre che sul disegno e sulla pittura abbiamo cominciato ad affacciarci su altre attività espressive quali la musica, il canto e la danza.
Alle sei del pomeriggio era già notte e nel campo si cenava.
Con il permesso delle maes sociali, io ed il gruppo degli adolescenti tornavamo a riunirci dopo cena per fare musica.
Ognuno di loro suonava uno strumento che poteva essere 1 barattolo di metallo, 2 bastoncini, una scatola di latta.
Con il permesso della responsabile del centro abbiamo potuto utilizzare anche un tamburo, due flauti e un armonica a bocca.
Arlan dava al flauto ogni volta accenti diversi, ma soprattutto esprimeva la solitudine, lo struggimento e la nostalgia per un paradiso sognato e perduto.
Il tamburo di Rafael, il ragazzo più difficile, esprimeva tutta la rabbia e la sete di vendetta verso un mondo che lo aveva rifiutato, ma esprimeva anche la vitalità e la potenziale gioia di vivere di un ragazzo di 13 anni.
La conoscenza della loro cultura, della cosmologia rappresentata nelle credenze dei loro padri mi ha aiutata molto.
All’inizio fingevano di ignorare o di disprezzare il bellissimo mondo del Candomblè bahiano, ma mi accorgevo che parlottavano tra loro indecisi se darmi o no la loro fiducia.
Stavamo percorrendo il cammino dell’identità ancestrale e sociale, stavamo disegnando i loro dei o santi, cantando le loro musiche.
Molte delle canzoni in lingua yoruba sono preghiere, di cui nessuno di noi conosceva il contenuto; così il sacro, con il suo carico emotivo, è entrato nelle nostre attività, favorito dall’atmosfera notturna che annullava il tempo e dilatava gli spazi.
Nella nostra piccola band serale i ruoli venivano scambiati e gli strumenti passavano di mano in mano. A turno ognuno dirigeva scegliendo un ritmo o una melodia, a turno ciascuno cantava la sua canzone. Con la musica abbiamo toccato il nucleo profondo dei ricordi personali ed ancestrali, ognuno ha cantato le sue emozioni e forse ha visto possibilità di alternative.
Anche la danza è entrata nel nostro percorso sotto la forma della capoeira, lotta acrobatica che un tempo serviva agli schiavi a mascherare l’addestramento e la resistenza.
Fuori, lontani dagli occhi dei responsabili del centro, i miei ragazzi si esibivano in questa forma spettacolare di danza.
Attraverso i miei occhi stavano riconoscendosi, stavano dando valore a se stessi.
Erano entrati in un territorio in cui un sorriso era un sorriso e l’affettività poteva essere manifestata.
Venivano raccontati in gruppo, apparentemente in modo casuale, episodi personali e dolorosi, ma cominciavano anche ad affacciarsi sogni e progetti.
L’espressione stava permettendo la ricostruzione di mondi interiori spezzati.
L’accoglienza data al loro esprimersi ha fatto nascere una relazione di fiducia attraverso la quale è stato possibile per loro riappropriarsi della storia personale e dell’ autostima.
Volevo finire questo resoconto raccontandovi che ora nel centro esiste, oltre ad un panificio, un laboratorio artigianale, un centro di musica e danza, e un corso di informatica.
Ragazzi apparentemente chiusi ad ogni stimolo si sono riappropriati di interessi e di motivazioni, hanno affilato lame per combattere la loro battaglia nel mondo violento che li attende subito fuori.
NOTE:
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