IL PESO DELLA CURA: MEMORIE SOSPETTE E TANATOPOLITICA

Abstract

il presente elaborato tenta di mettere in luce l’esperienza clinico-antropologica maturata presso l’INMP nel lavoro di cura con persone richiedenti e titolari di protezione internazionale. Le espressioni di disagio manifestate da queste persone frequentemente sono riconducibili alle difficili condizioni di accoglienza cui sono sottoposte in Italia, ad episodi di violenza accaduti nei Paesi di origine o durante il viaggio nei Paesi di transito. Il setting clinico diventa per la persona richiedente asilo uno spazio di riconoscimento della soggettività, un canale espressivo, narrativo e relazionale mediante cui ri-presentificarsi. Abstract: this paper attempts to highlight the clinical-anthropological experience gained at INMP in the care work with requesting persons and holders of international protection. The expressions of unease manifested by these people are frequently due to the difficult reception conditions they are subjected to in Italy, to episodes of violence that occurred in the countries of origin or during the journey in transit countries. The clinical setting becomes for the person requesting asylum a space of recognition of subjectivity, an expressive, narrative and relational channel through which to re-present. Keywords: rifugiati, cura, corporeità, politiche migratorie.

Rosaria Gatta

di Rosaria Gatta (Psicologa-psicoterapeuta presso INMP), Castaldo M. (Antropologa sociale e medica presso INMP), Franco G. (Medico specialista in malattie infettive e in Igiene e Medicina Preventiva presso INMP), D’Arca T. (Medico specialista in dermatologia presso INMP)

Pubblicato sul numero 25 di  Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.

Abstract: il presente elaborato tenta di mettere in luce l’esperienza clinico-antropologica maturata presso l’INMP nel lavoro di cura con persone richiedenti e titolari di protezione internazionale. Le espressioni di disagio manifestate da queste persone frequentemente sono riconducibili alle difficili condizioni di accoglienza cui sono sottoposte in Italia, ad episodi di violenza accaduti nei Paesi di origine o durante il viaggio nei Paesi di transito. Il setting clinico diventa per la persona richiedente asilo uno spazio di riconoscimento della soggettività, un canale espressivo, narrativo e relazionale mediante cui ri-presentificarsi.

Abstract: this paper attempts to highlight the clinical-anthropological experience gained at INMP in the care work with requesting persons and holders of international protection. The expressions of unease manifested by these people are frequently due to the difficult reception conditions they are subjected to in Italy, to episodes of violence that occurred in the countries of origin or during the journey in transit countries. The clinical setting becomes for the person requesting asylum a space of recognition of subjectivity, an expressive, narrative and relational channel through which to re-present.

Keywords: rifugiati, cura, corporeità, politiche migratorie.

Quando, nei primi giorni, mi capitava d’incontrare sul sentiero, fuori dal paese, qualche vecchio contadino che non mi conosceva ancora, egli si fermava, sul suo asino, per salutarmi, e mi chiedeva: – Chi sei? Addò Vades? (Chi sei? Dove vai?) – passeggio, – rispondevo, – sono un confinato. – Un esiliato? (I contadini di qui non dicono confinato, ma esiliato). – Un Esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male. (…) Anche tu dunque sei soggetto al destino. Anche tu sei qui per il potere di una mala volontà, per un influsso malvagio, portato qua e là per opera ostile di magia. Anche tu dunque sei un uomo, anche tu sei dei nostri.

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945

 

1. Rifugiati e politiche della cura

È oramai evidente che persone richiedenti asilo, rifugiate e vittime di tortura debbano essere situate all’interno di una cornice di valutazione sensibile a quanto insegna la più avveduta clinica del trauma: quella che consente di convergere in un comune discorso le vicende traumatiche vissute durante conflitti armati, persecuzioni individuali e collettive, quelle conseguenti alle minacce di morte e alle aggressioni che hanno scandito l’esodo e la fuga, quelle infine che definiscono l’orizzonte di incertezze nel paese d’arrivo. Ma sarebbe ingenuo non considerare le violenze private, familiari, traumi più intimi che spesso riprendono salienza proprio a partire da eventi altri le cui trame mostrano espressioni di sofferenza, spettralità post-coloniali e storiche (Deridda, 1993), segni di alienazione, moti di desiderio e repulsione nei confronti della realtà di accoglienza (Fanon, 1954; Beneduce, 2005; Arendt, 1970).
Nella nostra esperienza clinica, necessariamente eterologa che agisce attraverso un “meticciato professionale” (Taliani, 2013), gli incontri con persone richiedenti asilo e rifugiate mettono in luce narrazioni e racconti che assumono le fattezze di numerose isole di ricordi. Con le parole spesso dette in un italiano stentato, che ci obbliga a interrogarci sull’utilizzo di determinati registri linguistici (Taliani, 2012), essi connotano nuove realtà geografiche, città, deserti, snodi territoriali, itinerari di viaggio, lotte di sopravvivenza e di disperazione. Le percezioni che emergono dai racconti potrebbero da sole creare nuove mappe del mondo con nuovi confini spaziali, intrise di effetti sospensivi, temporalità atemporali che scrivono nuovi calendari. La percezione del tempo a tratti si annulla ed è necessario ricorrere ai segni e alle espressioni del corpo come ‘diario’ di un’esistenza passata, presente e di una possibile esistenza futura. Ciò che più assume preminenza nel lavoro con i migranti e i richiedenti asilo è il ruolo assunto dal corpo, quel corpo che Jalil Bennani definiva “sospetto” nel 1989; accezione ancora oggi così ferocemente attuale.
Tale ruolo conferito al ‘corpo’ influisce anche sull’immaginario che il migrante stesso associa alla propria malattia, ai significati delle espressioni corporee. A tal proposito, ricordiamo una persona giunta presso l’INMP (Istituto Nazionale Salute, Migrazione e Povertà)1 durante l’iter di richiesta di asilo, con il quale è stato avviato un percorso propedeutico all’Audizione presso la Commissione Territoriale di Roma2. John3, un uomo di circa 35 anni proveniente dal Ghana coinvolto negli scontri avvenuti nel 2000 tra i gruppi Kusasi e Mamprusi presenti a Bawku (Upper East Region, Ghana). Durante i colloqui egli si narrava in un modo del tutto atemporale senza riferimenti all’anno o al mese in cui accadevano gli eventi. Aveva deciso di raccontarsi esclusivamente attraverso le ferite del proprio corpo. Conferiva eloquio ai segni delle torture e sevizie subite negli anni per ripercorrere la propria storia di fuga come se ogni segno indelebile definisse in maniera incontestabile le coordinate temporali degli eventi vissuti e accaduti. In segno di fiducia e intimità nei confronti della relazione terapeutica, un giorno decise di mostrarci un apposito contenitore ove da anni egli soleva riporre residui di secrezioni della ferita alla gamba destra, che aveva conservato con cura per avere una prova ed una sorta di testimonianza del dolore vissuto.4
La storia di John come quella di altre persone richiedenti asilo evidenzia, a nostro avviso, la necessità di invocare all’interno dello spazio clinico una rivendicazione esistenziale, politica, sociale e personale (Ong, 2005; Malkki, 1995). Il corpo, martoriato e seviziato, sembra essere vissuto da John come legittimazione della sua esistenza in Italia solo in quanto “nuda vita”, archetipo contemporaneo che sostituisce il biologico al sociale, confermando il primato della vita naturale sull’azione politica (Agamben, 1998). La ‘nuda vita’ è l’esistenza ridotta alla sua espressione fisica o, in questo caso, al riconoscimento dell’essere umano attraverso la sua patologia.

2. La certificazione psicodiagnostica: sguardo critico e riflessioni aperte

L’essenzializzazione della tortura e dell’esperienza traumatica, la loro medicalizzazione attraverso categorie mediche che riducono l’impatto emotivo delle vicende da cui i sintomi prendono origine, la cancellazione delle dimensioni morali e politiche della sofferenza, la reificazione della nozione stessa di rifugiato. Solo dopo aver riflettuto criticamente su questi aspetti si potranno costruire interventi più adeguati alle persone e sensibili ad una “antropologia e ad un’etnopsichiatria della violenza”. In virtù di tale genealogia, bisognerebbe cercare di evitare la generalizzazione di categorie diagnostiche o di “strategie psicoterapeutiche” la cui efficacia con persone provenienti da altri contesti culturali è sempre incerta.

Roberto Beneduce, Pensare la violenza. Atrocità di massa, tortura e riabilitazione, 2003

Ciò detto s’impone un riflessione sul proliferare del ‘politiche della cura’ deputate a scandire fase dopo fase l’accoglienza del richiedente protezione internazionale (Ong, 2005; Beneduce, 2007). Tra le varie questioni irrisolte e controverse riguardanti il mondo dell’asilo assume preminenza il dibattito riguardante la certificazione legale, sanitaria, sociale o antropologica che sia, rilasciata da parte di Enti e Associazioni di Tutela a persone richiedenti asilo durante l’iter per il riconoscimento dello status giuridico. Trattasi di una diatriba articolata e densa che solleva criticità e posizioni antitetiche nel suo interno. L’incontro con persone richiedenti asilo e rifugiate invita il clinico a porre seriamente in discussione le pretese egemonizzanti delle categorie diagnostiche occidentali e del sistema di cura biomedico, impressi nelle certificazioni sanitarie rilasciate alle istituzioni (Commissioni Territoriali, Questure e Tribunali). La diagnosi psichiatrica-psicologica inneggia un principio di standardizzazione che osteggia ogni declinazione fenomenologica, eludendo la complessità di cui si compone il mondo dell’asilo attraverso le sue ‘molteplici’ storie di fuga, di morte, di confini prevaricati e di soprusi del potere sull’umanità.
Ancor più diviene fondamentale abbattere logiche universali associabili a specifici sintomi che delineano quadri clinici oggettivabili e griglie interpretative con persone che fuggono dal proprio passato, da contesti di persecuzione individuale e collettiva, da lotte di governo che negano ogni forma di cittadinanza e di esistenza (Ong, 2005). E’ in tali casi che l’intervento clinico correrebbe il rischio di divenire un’ennesima esperienza di negazione della persona e della sua singolarità. La diagnosi psichiatrica5 in taluni casi s’imbatte in vari paradossi. Da un lato, insegue il rigore causale del DSM – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – alla ricerca pedissequa del sintomo da associare ad una particolare Categoria Diagnostica. Dall’altro tale nosografia risulta inadeguata metodologicamente se rivolta a persone provenienti da altri contesti socio-culturali e storici in cui il terrore e la violenza sono vissuti in modo molto più quotidiano, ‘ordinario’ e pervasivo che in Occidente (Ong, 2005).
Ad esempio basti pensare alla nozione di Post Traumatic Stress Disorder (PTSD)6, se da un lato può essere utile nel descrivere le conseguenze psicologiche dell’esposizione ad un singolo trauma, dall’altro essa è incapace di catturare la totalità dei significati e degli effetti determinati da un’esposizione ripetuta, spesso collettiva, a esperienze traumatiche e violente (Beneduce, 2010a). Le considerazioni esposte vogliono far emergere in una prospettiva critica la necessità di considerare altre dimensioni del lutto, del trauma e della violenza che non considerino solamente diagnosi e cura in senso propriamente occidentale. L’etnopsichiatria e l’etnopsicologia critica del trauma intendono porre al centro le riflessioni cliniche, antropologiche e politiche, partendo dall’esperienza storica, sociale, collettiva e individuale della violenza. A tal proposito, il lavoro che tentiamo di perseguire intende riparte dalle soggettività, dai racconti, dalle verità narrative e poco oggettivabili per permettere a nuovi mondi di esistere quanto meno attraverso le esistenze individuali. Le singolarità che emergono attraverso le narrazioni delineano nuovi quadri di cittadinanza lontani dalla rappresentazione del richiedente asilo in quanto sopravvissuti alla violenza e alla tortura, piuttosto che all’essere un corpo medicalizzato (Viñar, 1989).

3. L’eloquio del corpo

Il colonizzato che va dal medico è sempre un po’ rigido. Risponde a monosillabi, è avaro di spiegazioni e suscita ben presto l’impazienza del medico. Questo comportamento non va assimilato a quella sora di paura più o meno inibitrice che ogni malato prova in presenza del medico. (…) Il medico ben presto, perde la speranza di ottenere informazioni dal colonizzato e ripiega sull’esame clinico, pensando che il corpo sarà più loquace. Ma il corpo del colonizzato è ugualmente rigido. I muscoli sono contratti, non c’è distensione. È l’uomo nella sua interezza, il colonizzato, che deve affrontare contemporaneamente un tecnico e un colonizzatore.

Frantz Fanon, Scritti Polittici. L’anno V della rivoluzione algerina, 2007

Le storie che seguono pur nelle differenze si situano in linea di continuità l’una con l’altra poiché mettono in scena violenze intenzionali agite dalla mano dell’uomo sull’uomo7 o relative al mondo invisibile della magia persecutoria, riprodotte attraverso le memorie del corpo e una personale iconografia e semantica della sofferenza.

3.1 La storia di Friday
Friday è un uomo ewe8 proveniente dal Ghana, di trentacinque anni. Privo di permesso di soggiorno poiché gli viene rifiutata l’istanza di asilo presentata qualche anno prima. Da allora giuridicamente è irregolare. Arriva in ospedale lamentando dei forti dolori al collo, alle spalle, alla schiena, che descrive come dolori che “pungono”; richiede di essere visitato da un reumatologo perché pensa di avere dei reumatismi. L’assenza di tale specializzazione medica presso gli ambulatori dell’INMP fa si che comunque Friday venga visitato da un medico infettivologo, poi da un dermatologo e che gli vengano prescritte delle analisi ematochimiche. Dopo numerosi accertamenti (Box 1), i medici deducono che le sofferenze fisiche a cui Friday fa riferimento non sono riconducibili a problemi di natura organica; sembra assente la ragione reale del dolore (Fanon, 2006: 26). Per tale motivo, l’equipe medica decide di inviarlo al Servizio di Psicologia per l’avvio di un percorso di sostegno in grado di accogliere tale sofferenza senza lesioni, priva di un volto, al fine di conferirle un senso e un riconoscimento.
Friday racconta di avvertire intensi dolori da circa 15 anni, da quando si era inciso la pianta del piede destro con un coltellino per far uscire qualcosa, descritto in lingua ewe come chapanqui: in Ghana, nella fattoria dove vivevo c’è l’acqua fino a qui (indica il bacino)9, c’è un lago. Forse nell’acqua c’erano piccoli animali che sono entrati. Friday comincia a percepire la presenza di questi “animaletti” da due mesi; descrive qualcosa che gli cammina dentro le vene e nel sangue, e contemporaneamente qualcosa che mi stava tirando dentro dentro la gamba destra e che arrivava fino a qui (genitali); è come una goccia di sudore che cade.
Friday riferisce di parlare per la prima volta dei suoi dolori e di non averli mai nominati con la moglie con la quale racconta di incontrarsi solo il sabato a causa degli orari lavorativi di entrambi. Il dolore migrante, il dolore confuso, la sofferenza che cammina, che provoca freddo, perdite, camminamenti, formicoli, oggetti e animali che entrano ed escono dal corpo, visibili o invisibili sembrano rappresentare delle metafore vive (Ricoeur, 2010), delle specifiche segnature10 che costituiscono mappe incorporate dell’esperienza. Queste sofferenze sembrano aumentare e modificarsi proporzionalmente ai colloqui psicologici. Appaiono diminuire quelli alla schiena e al collo, ma ce ne sono di nuovi: il cuore, i reni, lo stomaco, un formicolio agli occhi, che vengono da lui localizzati puntualmente nel corpo; costruendo insieme una mappa del dolore. Le richieste di Friday sono volte a chiedere un continuo supporto dei medici con i quali si continuerà a lavorare parallelamente al percorso psicologico e antropologico. Racconta che da sotto il piede dove ha praticato l’incisione esce il sangue; è qualcosa che germina; quando lo tolgo ritorna. Ma sotto c’è qualcosa di morto, bianco e morbido e ci arrivo tagliando qualcosa di duro. Sento questa cosa che cammina in una parte del corpo, la fermo toccandola e dopo qualche minuto la risento in altre parti…è dura, la posso toccare; è come una puntura. In altre occasioni racconta che questa cosa la può sentire solo di giorno, quando è sveglio, ma non di notte, anzi, al risveglio si sente bene. Quando comincia non voglio parlare con nessuno, non voglio giocare con nessuno, la mia mente è concentrata in questo..non so cosa succede in me.
Queste sofferenze localizzate sembrano migrare a ogni colloquio e rifuggire così simbolicamente a ogni possibilità di senso. Egli parla e descrive attraverso sé stesso la semeiotica di una sofferenza sociale e di una violenza strutturale (Farmer, 2004), di un rapporto tra “sofferenza e rapporti di forza” cui egli soggiace con rabbia (Sironi, 2010):

qui mi sento povero come in Africa…poco lavoro, pochi soldi, affitto caro…povertà; mi sento male e voglio una buona salute. Non posso essere felice, mi manca mia madre, mi manca mio padre, mia sorella che è in Ghana; io voglio vedere loro e loro vogliono vedere me..il problema sono i documenti e i soldi..finiscono i pochi soldi del lavoro, finiscono presto per pagare le bollette e per mangiare. Sento conforto solo nella religione, nello studiare la Bibbia. Sarei felice se avessi i documenti e se potessi mettere da parte 200-300 euro per il futuro. Dove lavoro non c’è tredicesima, non c’è quattordicesima, non c’è festa, né vacanze…ci sono per tutti ma non per me. Io prendo il treno di mattina presto e arrivo a casa alle 9.00, dormo e attacco alle 7 di sera..mi sveglio e solo lavoro. Ma io sono contento che lavoro anche senza documenti.

Le parole di Friday evidenziano il malessere e il disagio sperimentati sin da quando vive in Italia, da quando è privo di documenti e ancor prima è privo di diritti. Friday si percepisce invisibile, trasparente e delegittimato nella sua spinta esistenziale. Tenta di attraversare un processo di inclusione sociale lavorando, malgrado tale impiego notturno sembra confinarlo in una zona d’ombra da cui emerge la sua condizione di invisibilità; requisito imprescindibile per eludere controlli da parte delle forze dell’ordine. Friday è escluso dalle quotidiane pratiche di cittadinanza (Ong, 2005), vive una perenne vita messa al bando (Agier, 2008) ed è così che si rivela la sua esclusione non essendo di fatto, Friday, un soggetto di diritto. La discrepante condizione giuridica tra lui e la moglie, anche lei del Ghana titolare di permesso di soggiorno e lavoratrice diurna, evidenzia anche nella sfera intima tale processo di subalternità.
Il caso esposto esplicita a nostro avviso il bisogno di ‘essere riconosciuti’ da parte delle istituzioni. L’esperienza clinico-antropologica riportata sembra divenire spazio di dicibilità per le persone, per i loro corpi e le relative manifestazioni di dolori confusi e aspecifici, rarefatti e caotici (Fanon, 2001). In tale interstizio relazionale possono emergere soggettive incorporazioni della sofferenza (Csordas, 1990) con le quali è necessario dialogare per contattare eterogenei e complessi bisogni di salute ove sovente si annidano ancor prima bisogni di riconoscimento e di esistenza. Parafrasando Beneduce si può affermare che il malato si convulsa in un’impellenza di cura che è in primo luogo una domanda di relazione, di condivisione, destinata spesso a rimanere inascoltata, perché sovente la clinica si mostra cieca di fronte all’‘evidenza non oggettiva’, non cogliendo la storia dei malati, il contesto reale delle loro vite, il senso di morte nel quale sono immersi (2011). Fanon ne parlava in termini di ‘sindrome nord africana’:

Di fronte a questo dolore senza lesioni a questa malattia distribuita in tutto il corpo […] l’atteggiamento più immediato […] è la negazione di qualsiasi morbosità. Nei casi estremi il nord africano è un simulatore, un bugiardo, un vigliacco, un fannullone, un perdigiorno, un ladro. […] Ogni arabo è un malato immaginario (Fanon, 2007).

Box1 – diagnosi mediche

Il sig. Friday si rivolge al nostro ambulatorio nell’aprile 2011 per rachialgia generale e cervicalgia dopo sforzo. Preso in carico (STP) per controlli generali e medicina interna, si richiedono accertamenti specialistici rispetto al problema presentato (rx rachide, visita ortopedica) cui non sembra venir dato concreto seguito (appuntamenti saltati, impegnative perdute…). Per alterazioni nel profilo sierologico da monitorare, il sig. Friday torna a visita ogni 2 mesi circa per oltre un anno, portando in visione le analisi di controllo.
È dopo un periodo di oltre 6 mesi senza controllo medici registrati che, nell’ottobre 2012, il sig. Friday torna con richiesta di attenzione medica e dermatologica per sensazioni fastidiose migranti sottocutanee che dice essere iniziate mesi prima.
Il paziente viene in visita dermatologica riportando sensazioni disestesiche, come di “parassiti che si muovono sotto la pelle”. Riferisce comunque di non grattarsi. All’esame obiettivo, non sono presenti alterazioni patologiche cute e degli annessi, fatta eccezione per alcune aree di lichenificazione a livello delle regioni precubitali con aumento della quadrettatura cutanea, come per intenso grattamento.
In mancanza di obiettività clinica che orienti la definizione etio-patogenetica del suo malessere, il sig. Friday viene avviato a colloqui psicologico-clinici dal novembre 2012.

Nadir

Nadir è un giovane uomo proveniente dal Ghana, di madrelingua twi11. Come Friday, viene inviato presso il Servizio di psicologia da un medico che, a seguito di accertamenti sanitari (Box 2), conclude che i profondi dolori descritti da Nadir non sono di natura organica e dunque non sono inerenti ai campi di azione biomedici.
Nadir porta un corpo che sembra essere esso stesso fatto di dolore, non è un corpo fragile, infantile, eppure sembra averne incorporato le sembianze attraverso delle tecniche del corpo che vengono da lontano, da un’iniziazione giovanile. Lo sguardo mai diretto, ma sempre rivolto al pavimento, la testa bassa, un sorriso imbarazzato e schivo, che appare affacciarsi solo a seguito delle domande poste, rende la sua sofferenza sin dal primo colloquio estremamente potente e seduttiva.
Congiuntamente a un corpo pieno di dolori, l’incontro con Nadir fa emergere pian piano problemi altri. Affiorano interstizi che aprono nuovamente lo sguardo sullo stato di eccezione rappresentato dalla mancanza di diritto. Con il crescere della relazione di fiducia ci racconta dell’assenza di documenti, della sua permanenza a termine presso uno dei centri aperti celermente e sommariamente durante l’Emergenza Nord-Africa12 e chiusi con altrettanta rapidità13. Anche in questo caso come nel precedente, Nadir si racconta dando voce al suo dolore, attraverso la sua sintomatologia confusa e aspecifica che sembra assolvere il difficile compito di condurre l’interlocutore ad esplorare il proprio mondo interno, di guidarlo timidamente negli antri della sua vita passata attraverso quella presente. Il lavoro clinico proposto a persone che sfuggono dal loro passato propone un processo di andirivieni tra due importanti polarità: il passato ed il futuro attraversando la porta del presente. Pertanto, il ricordo diventa estremamente interessante se viene rievocato e rivissuto nella misura in cui ciò che emerge non è il passato stesso ma come esso è visto, sentito, esperito nel presente per poter operare su di esso (Merleau-Ponty, 2003).
Nadir, durante i colloqui, riferisce un dolore alle gambe; li chiama dolori miei che cominciano dalla schiena e poi vanno avanti…solo sulla gamba destra. Descrive come delle paralisi che sono arrivate mentre dormivo…e mi sono svegliato. Racconta: quando vado a letto e mi sveglio la mattina mi sento come se avessi lavorato il giorno prima…dolori ovunque…in tutto il corpo (…). Di notte sogno delle persone che mi vogliono uccidere e io strillo e i miei amici (coinquilini) la mattina me lo raccontano.
Sembrava a noi evidente che Nadir sperimentasse la difficoltà di esprimere sofferenza e ancor prima ad esplicitare l’assoggettamento vissuto nel paese di origine, la violenza aggiuntiva sperimentata nei paesi di transito – soprattutto in Libia durante la guerra civile del 2011 – e quella in Italia. Parafrasando Taliani si può parlare di vie particolari che il dolore sceglie per trovare sbocco, linguaggio e significazione attraverso il corpo, che si raccontano mediante figure somatiche altamente espressive, che rendono visibile il sintomo incorporabile di una malattia-oggetto il cui movente sta tutto ‘dentro’ l’individuo (2006b).
Indagando l’origine dei suoi dolori, del suo immaginario rispetto alla sofferenza fisica sono emerse nelle parole di Nadir allusioni a poteri mistici, forze occulte e mondi invisibili. Interpretazioni che suggeriscono rapporti di forza che hanno avuto luogo nel contesto di origine e che, inaspettatamente per lo stesso Nadir, anche in Italia continuano ad avere un ruolo a carattere persecutorio attraverso atti di stregoneria (Beneduce, 2010). Viene qui alla mente Taliani quando evocando uno studio dei coniugi Comaroff (1993) pone in luce la straordinaria modernità della stregoneria nel suo parlare ai nuovi dannati della terra, ai post-colonizzati e ai loro corpi stanchi, in cui si incarnano le disuguaglianze politiche e sociali del presente (2006a: 34-35).
Nadir riferisce di aver avuto problemi di salute alla nascita che non gli hanno permesso di camminare fino ai due anni. Racconta che la madre ha attribuito questi problemi infantili a una magia “cattiva” che abitava la sua casa: fra mio padre e mia madre c’erano molti problemi perché lei diceva che nella nostra casa c’erano delle magie cattive, ma mio padre non le credeva. Per questo motivo erano sempre in contrasto e alla fine mio padre se n’è andato14. All’età di due anni è stato condotto da sua madre presso un uomo che egli chiama stregone15 e juju man, che attraverso tecniche terapeutiche “tradizionali” ha fatto si che tornasse a camminare dopo qualche anno trascorso con lui, lontano dalla casa materna. Tale “guarigione” è sancita però dalla stipulazione di un contratto tra sua madre e lo stregone, nell’ambito del quale la cura è stata data in cambio di una lunga iniziazione di Nadir ai poteri e ai saperi detenuti dal juju man. Si tratta di un contratto per tutta la sua vita, che determinerà la sua identità come individuo16 nella società di appartenenza, in quanto allievo dello stregone prima e di futuro stregone poi. È in tal modo, attraverso l’eredità della successione stregonesca, che egli non solo ottempera al patto materno, garantendo il suo vincolo con la famiglia e della famiglia con il gruppo di appartenenza (Taliani, 2006a), ma assicura il suo legame personale con il gruppo sociale tramite la possibilità di riprodurre certe pratiche nella società e il mantenimento di quella specifica tradizione medica e magica (Zempleni, 1966).17
Ma nella giovane vita adulta, non ancora completata l’iniziazione, Nadir rifiuta il ruolo sociale a cui è stato destinato sin da bambino e fugge verso la Libia, aiutato da un suo maestro di scuola, non riuscendo altrimenti a svincolarsi dal legame stregonesco. È attraverso la fuga che Nadir cerca di sottrarsi al governo del proprio corpo da parte dello stregone strappando inesorabilmente legami affettivi e sociali iscritti in una logica morale, sociale, simbolica e magica (Augè e Herzlich, 1986) di debiti e crediti.
Un giorno, nel parlare delle sofferenze che lo affliggevano durante un colloquio, dice: because of that man. È a causa di “quell’uomo” che chiede il conto a distanza e agisce un attacco sul suo corpo (Taliani, 2006a; Nathan, 1994) dunque, che questi dolori lo immobilizzano dalla pianta dei piedi alla testa, insinuandosi e manifestandosi nei sogni. That man fino a ora non ha mai avuto un nome perché Nadir spiega che parlare di lui è pericoloso ed è questo evocarlo settimanalmente che lo sta rendendo visibile e attaccabile durante la notte.18 Dice infatti di sentirsi così così, some how, dopo aver parlato con noi, facendo emergere il timore di nominare il juju man e dunque di evocarlo, poiché in questo modo lo stregone lo potrebbe “vedere” e dunque si potrebbe vendicare.
È necessario nascondersi da quegli attacchi, far perdere le proprie tracce, sembra dire Nadir, poiché nell’emigrazione repentina e occultata ai membri della sua famiglia nucleare e alla sua comunità egli sa di essere venuto meno al debito di cura e di aver trasgredito, tradito. Proprio in questo timore persecutorio, appare più che mai palesarsi il senso di colpa per essere fuggito, per aver abbandonato i suoi lignaggi, le sue origini e dunque il proprio passato.
Il senso di colpa, riconducibile al tradimento delle proprie origini, assume sempre più le sue fattezze nel momento in cui la domanda di cura che Nadir ci pone diviene evidente: rompere il contratto di cura stipulato dalla madre con il juju man: non so come fare per non farmi inseguire da questo spirito.
È frequente nella nostra esperienza clinico-antropologica che nel lavoro di cura con persone rifugiate si debba fare i conti con il senso di colpa di colui/colei che fugge e dunque con la sensazione di aver tradito rifuggendo il proprio mondo di appartenenza. Il senso di colpa sembra risiedere endemicamente nell’emigrazione. Il sociologo algerino, Sayad a tal proposito afferma quanto segue: Basta che capiti un incidente di percorso, una leggera deviazione nei comportamenti, perché emerga il senso di colpa, del peccato originario consustanziale all’atto di emigrare. Colpa, colpevolizzazione e auto colpevolizzazione (Sayad, 2002: 187). E ancor prima, sessant’anni fa, Fanon attraverso le sue osservazioni cliniche condotte a lungo nell’ospedale psichiatrico di Blida, in Algeria, gettava i semi per una riflessione la cui eco ci giunge tutt’ora vividamente e ci impone, senza indulgenza, di rimettere in discussione una clinica cieca, spesso incapace di guardare se stessa e di riconoscere l’Altro:

Il colonizzato che si mostra reticente al ricovero non lo fa partendo da valori omogenei, come la paura della città, la paura dell’allontanamento, di non essere più protetto dall’ambiente familiare o la paura che si racconti in giro (…). il colonizzato non solo rifiuta di mandare il malato in ospedale ma di mandarlo all’ospedale dei bianchi, o degli stranieri, in ogni caso dei conquistatori. Non è possibile che la società colonizzata e la società colonizzatrice possano trovarsi d’accordo per rendere omaggio nello stesso tempo e nello stesso luogo ad un unico valore (2011:107).

Box 2 – diagnosi mediche

Il sig. Nadir è stato seguito dal nostro poliambulatorio per un breve periodo, dall’aprile al giugno 2013, per la valutazione complessiva del suo stato di salute finalizzata al rilascio dell’attestazione sanitaria da presentare nel corso dell’iter giuridico del ricorso dopo il diniego al permesso di soggiorno da parte della Commissione Territoriale.
All’esame medico-clinico si presenta in buone condizioni generali e gli esami di laboratorio effettuati, come da prassi, sono nella norma.
Tuttavia, il paziente presenta fin da subito le sue gravi preoccupazioni per la gamba destra e riferisce di avere un problema di deambulazione, apparso fin dalla nascita (e infatti ha cominciato a camminare molto tardi) che si manifesta di notte – tutte le notti – quando si sveglia si accorge che la gamba destra, e solo la destra, è bloccata e dolente; non lo sostiene e deve camminare appoggiato al muro. Al risveglio riferisce che la deambulazione è buona, riprende le sue funzioni.
Per completezza di indagini vengono richieste le radiografie del bacino e delle anche e la visita specialista dermatologica per la descrizione di eventuali cicatrici. Dal punto di vista dermatologico si fa riferimento alla ferita dello zigomo, fattagli nell’infanzia per inserire sottopelle una medicina tradizionale e a ferite delle cosce comparse spontaneamente dopo aver disubbidito a uno stregone e alla ferita del braccio sinistro, anch’essa prodottasi spontaneamente e sempre in relazione allo stregone.
Si invia pertanto il sig. Nadir al colloquio psicologico clinico per indagare altre possibili eziologie per il riferito dolore della gamba.

NOTE:

3 Le storie di John, e di Friday e Nadir più avanti nel testo, vengono qui evocate attraverso nomi fittizi. Le narrazioni inerenti le sofferenze portate sotto forma di varie domande di aiuto non seguono la temporalità in cui sono state raccontate e in cui sono state raccolte nell’ambito di colloqui psicologici, ma sono state riorganizzate cronologicamente e qui non ne viene riportata che una breve sintesi esigua e succinta, volta esclusivamente a richiamare la richiesta di aiuto portata in ambito sanitario. Si tratta evidentemente di un artefatto riprodotto sulla base della soggettività di chi scrive, come d’altronde lo sono tutte le etnografie. Gli stralci di storia qui evocati sono stati elaborati interrogandosi sull’aleatorietà del tempo etnografico, che inevitabilmente non risponde agli incontri realmente realizzati in presenza della psicologa, dell’antropologa e delle mediatrici culturali che si sono alternate nei setting e in questa sede non riporta l’eco di tutte le voci, le emozioni, i dubbi e le indicibilità. Alla terapeuta principale si sono affiancati e alternati nel corso della terapia un’antropologa e delle mediatrici culturali. La traduzione nel registro linguistico italiano delle testimonianze portate dalle persone in lingua inglese sono ad opera delle mediatrici culturali.
4 Corsivo relativo alla testimonianza della persona.
5 La consapevolezza che la conoscenza attraverso l’osservazione (radice greca del termine diagnosi) non sia realizzabile nella stessa misura e con la stessa oggettività rivendicate dalla medicina non ha impedito alla psichiatria di ripetere i canoni di quest’ultima (Beneduce, 2013).
6 Secondo Young, il processo di trasformazione della definizione di memoria traumatica in categoria psicodiagnostica ha il suo culmine nel 1980 con l’inserimento del PTSD all’interno della terza edizione del Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders. L’autore traccia la storia della costruzione di questa categoria individuandone le origini nel clima politico e sociale degli USA negli anni ’70 e nelle richieste del gruppo dei reduci di guerra del Vietnam. Molti reduci manifestano sintomi di disturbi psichici che si caratterizzano anche per la violenza del loro comportamento e l’alta instabilità emotiva. Frequenti sono gli episodi di condotta antisociale (alcolismo, tossicodipendenza): la realtà sociale si rifiuta di riconoscerli perché, da un lato, ha modificato l’atteggiamento verso la guerra in senso non interventista e, dall’altro, perché cerca di operare una rimozione della sconfitta. Molti ex-soldati non riescono a inserirsi nel mondo del lavoro e a riprendere la vita quotidiana rimanendo così ai margini della vita sociale. I veterani hanno, quindi, la necessità di trovare un riconoscimento istituzionale per i propri disordini e di poter usufruire di supporti economici e riabilitativi. Nella nomenclatura psichiatrica non esiste, però, un quadro sindromico che possa descrivere i disturbi presentati di tali soggetti e, così, sotto la pressione dei comitati dei reduci, viene creata e inserita nel DSM-III la categoria di Post Traumatic Stress Disorder. Il quadro clinico è ritagliato sul profilo sintomatologico presentato dal veterano (sintomi di intrusione, intorpidimento emotivo, tendenza all’evitamento, aumento della tensione complessiva) e il medesimo concetto di “memoria traumatica” può ora essere applicato indifferentemente sia alle vittime dei traumi che ai loro perpetratori. Questa diagnosi può essere usata, quindi, come uno strumento per elaborare la sconfitta, per rimuovere una responsabilità e per sotterrare le contraddizioni rese evidenti dalle drammatiche esperienze dei reduci e che la società non sa elaborare: “la creazione di una diagnosi ad hoc che può essere retrospettivamente evocata per render conto dell’esordio del comportamento violento dei soldati, creando una patologizzazione ed una cura per la memoria, ottiene il duplice effetto di attenuarne i toni e di operare precisamente in direzione di una sorta di rimozione sociale delle responsabilità individuali e collettive” (Vacchiano, 1999: 132).
7 Sulla violenza intenzionale e sulla storicizzazione del concetto di trauma si vede Beneduce 2010a.
8 Popolazione la cui organizzazione sociale è riconosciuta come patrilineare, ripartita in numerosi gruppi, insediata in Africa Occidentale, in Ghana sudorientale, in Togo meridionale e in Benin sudoccidentale (Hamberger, 2009).
9 Le osservazioni di chi scrive, che spesso intervengono nelle testimonianze trascritte, sono poste tra parentesi tonde.
10 La segnatura è designata da Foucault, in Le parole e le cose, come un segno visibile di analogie invisibili. L’idea che tutte le cose portino un segno che manifesta e rivela le sue qualità invisibili è nel nucleo originale dell’episteme paracelsiana, sostiene Agamben in Signatura rerum (…) Non c’è somiglianza, dice Foucault, senza segnatura. Esempio della segnatura la da Agamben evocando Paracelso: la pianta dell’eufrasia, che presenta una macchia a forma di occhio, svela in questo modo la sua capacità di curare le malattie della vista. (…) La segnatura mette in relazione la pianta con l’occhio (…) e solo in questo modo rivela la sua virtù occulta. La relazione si configura almeno in quattro termini: la figura della pianta, la parte del corpo umano, la virtù terapeutica e la malattia, più il segnatore: l’uomo, colui che segna attraverso il linguaggio (Agamben, 2008).
11 Si tratta di una lingua membro del sotto-gruppo kwa del Niger-Congo. È parlata in Ghana, soprattutto dalla popolazione Akan ma non solo, e in alcune zone della Costa d’Avorio (Schirripa, 1995). L’Akuapim Twi è il più diffuso, ma ampiamente parlati da una numerosa popolazione sono anche il Fante Twi e l’Ashanti Twi http://web.stanford.edu/dept/linguistics/languages/twi/Default.htm.
12 L’ Emergenza Nord Africa (ENA) definisce il fenomeno, verificatosi a seguito dei profondi mutamenti politici che hanno interessato i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente nel corso del 2011, che ha comportato l’arrivo di un flusso straordinario di cittadini stranieri sulle coste italiane. In virtù di tale circostanza, con il D.P.C.M. del 12 febbraio 2011 è stato dichiarato, fino al 31 dicembre 2011, lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale, successivamente prorogato, con il D.P.C.M del 6 ottobre 2011, sino al 31 dicembre 2012 (www.lavoro.gov.it).
13 Nadir ci ha riferito che alla subitanea uscita sarebbe stata accompagnata da una “liquidazione” di circa 500 euro a persona che avrebbe dovuto supplire alla totale assenza di una progettualità di accoglienza che non fosse quella espressa nei termini emergenziali per loro natura fittizi.
14 Questa testimonianza non è stata raccolta da noi, ma dall’avvocato di Nadir che lo assiste nella procedura del riconoscimento della protezione internazionale. Nella testimonianza raccolta dall’avvocato e trascritta in prima persona, si notano delle discrepanze linguistiche inerenti il linguaggio di Nadir rispetto alle modalità con le quali si esprime durante i colloqui con noi. Ciò sembra evidenza di una ricostruzione, linguistica e sintattica, della storia raccontata da Nadir e dell’uso di un linguaggio volutamente elementare che sembra avere il fine di essere maggiormente rappresentativo di un “pensiero semplice”. Ciò si nota anche quando nella memoria raccolta si parla dello stregone come “un uomo di magia”, concetto mai utilizzato da Nadir durante i colloqui.
15 La prima volta che Nadir nomina quest’uomo lo definisce priest, sacerdote, ma la mediatrice culturale lo traduce con juju man in inglese e in italiano con stregone, concetto che da ora in poi verrà adottato anche da Nadir e che così viene riportato anche nella storia redatta dal suo avvocato al fine di richiedere la protezione internazionale.
16 Per approfondimenti sul concetto di individuo si veda Augé 2002.
17 Su questi studi cfr. anche i lavori di Beneduce (2010b), Comaroff (1993), Coppo (1994), Douglas (1980) Geshiere (1995), Nathan (1994), Taliani (2006a).
18 Per approfondimenti inerenti gli attacchi di stregoneria notturni si veda Beneduce 2010b.

 

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Please cite this article as: Rosaria Gatta (2014) IL PESO DELLA CURA: MEMORIE SOSPETTE E TANATOPOLITICA. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/il-peso-della-cura-memorie-sospette-e-tanatopolitica/

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