Una critica della Solitudine Esistenziale

Shaun Gallagher

Di Shaun Gallagher12

Pubblicato sul numero 47 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia

 (traduzione dall’inglese di Pierluca Santoro)

Articolo pubblicato su Topoi (2023) Springer

https://doi.org/10.1007/s11245-023-09896-4

https://rdcu.be/dsqeE

Abstract Dopo una breve revisione di diverse definizioni e tipi di solitudine, l’autore propone un’analisi del concetto di solitudine esistenziale e del suo contesto filosofico. In contrasto con gli aspetti interpersonali di altri tipi di solitudine, la solitudine esistenziale è stata caratterizzata come uno stato predefinito intrapersonale di incomunicabilità o profonda solitudine, parte di una struttura ontologica o trascendentale fondamentale nell’esistenza umana. Ci sono sia questioni concettuali che pratiche legate al concetto di solitudine esistenziale, con implicazioni per la psicoterapia. In questo articolo viene proposto un approccio critico e viene sostenuto che non ci sia una buona base filosofica per questa concezione di solitudine esistenziale e che, sebbene la solitudine possa essere esistenziale in qualche misura, di solito si manifesta in contesti interpersonali e non dovrebbe essere considerata una struttura ontologica fondamentale dell’esistenza umana.

Parole chiave Solitudine esistenziale · Essere-con · Intersoggettività · Heidegger · Sartre

In contrasto con i vari tipi di solitudine identificati nella letteratura psicologica, come la solitudine intima, relazionale o collettiva, definita in termini di relazioni interpersonali – tipi di solitudine che possono essere transitori o trattabili – si dice che il concetto di solitudine esistenziale sia più fondamentale, pervasivo e parte della struttura stessa dell’essere umano. La solitudine esistenziale è a volte caratterizzata dal coinvolgimento di uno stato predefinito di incomunicabilità perché basata su una struttura ontologica o trascendentale fondamentale – una profonda mancanzaintrinseca – nell’esistenza umana, qualcosa che potremmo essere inclini a nascondere a noi stessi. Di conseguenza, alcuni teorici sostengono che l’essere umano sia in modo definitivamente, necessariamente e per sempre solo a tal punto che qualsiasi tentativo di sfuggire a questa condizione comporti l’alienazione di sé.

Nonostante le polemiche secondo cui il concetto di solitudine esistenziale sia vago e poco chiaro e nonostante le difficoltà riconosciute nella sua valutazione/diagnosi, questo concetto continua a influenzare diversi approcci psicoterapeutici.

Secondo questi approcci, lo scopo della terapia non è eliminare la solitudine esistenziale o riorganizzare le cose per nasconderla, ma affrontarla e accettarla. Si sostiene che affrontarla permetta la crescita (ad esempio, Ettema, Derksen & van Leeuwen 2010).

Le radici filosofiche di questo concetto sono intrecciate con le analisi esistenziali di Heidegger e Sartre, e ci sono dibattiti su come la solitudine esistenziale si relazioni alle concezioni fenomenologiche dell’intersoggettività trascendentale e dell’ “essere-con” (Mitsein), che sono considerati come strutture esistenziali dell’essere umano. Tuttavia, nella letteratura dello sviluppo, concetti come l’intersoggettività primaria sembrano mettere in discussione l’idea di solitudine esistenziale. In questo articolo chiarisco i termini di questo dibattito e sostengo che, sebbene la solitudine possa essere un problema clinico serio, non è in realtà un problema esistenziale profondo o pervasivo.

1. Solitudine: Una Breve Rassegna

Frieda Fromm-Reichmann (1959), una psichiatra, psicoanalista e studente di Kurt Goldstein, era principalmente interessata alla solitudine clinica. Considerava questa condizione incomunicabile, e forse proprio per questo motivo poco studiata.

Loneliness seems to be such a painful, frightening experience that people will do practically everything to avoid it. This avoidance seems to include a strange reluctance on the part of psychiatrists to seek scientific clarification of the subject. Thus it comes about that loneliness is one of the least satisfactorily conceptu­alized psychological phenomena, not even mentioned in most psychiatric textbooks. (Fromm-Reichmann 1959, 1). 3

L’articolo di Fromm-Reichmann è stato citato più di 600 volte; talvolta da opere che sono state citate molte più volte. Di conseguenza, a ben guardare il numero delle citazioni, il tema della solitudine non è più così solitario. Infatti, il concetto di solitudine è circondato da una famiglia di concetti correlati – anche se non è la stessa cosa della solitudine, dell’isolamento sociale, della nostalgia, dell’alienazione di sé, della mancanza di riconoscimento, del dolore o della depressione, potrebbe essere correlato o coinvolgere queste cose. Alcune di queste condizioni possono causare la solitudine, o alcune possono far parte della solitudine, costituendo un tipo specifico di solitudine. A causa di tutti questi concetti collegati, i ricercatori concordano sul fatto che sia importante partire da una definizione di solitudine.

Nella letteratura psicologica, si trova spesso una definizione ‘standard’ ripetuta: “La solitudine è definita come uno stato emotivo negativo che sorge quando c’è una discrepanza percepita tra le relazioni sociali desiderate e quelle effettive” (Achterbergh et al. 2020, 416; Cacioppo et al. 2015; Perlman, Peplau & Goldston 1984). Questa definizione enfatizza la natura cognitivo-emotiva della solitudine. Di conseguenza, la solitudine è considerata uno “stato emotivo interno” (Asher and Paquette 2003), sebbene influenzato dalle caratteristiche quantitative o obiettive delle relazioni sociali, come la frequenza delle relazioni sociali che non soddisfano alcuna aspettativa (Cacioppo et al. 2009; Weiss 1973).

La complessità nella definizione della solitudine è ulteriormente complicata dai tentativi di distinguere diversi tipi di solitudine (vedi Motta 2021 per una discussione sulle varie definizioni). Fromm-Reichmann, ad esempio, distingue diversi tipi.


Solitudine Culturalmente Determinata: Quella che Kierkegaard chiamava la “mancanza di connessione e solitudine degli uomini civilizzati”, discussa da sociologi e psicologi sociali come caratteristica della cultura occidentale. Fromm-Reichmann cita la nozione di “folla solitaria” di David Riesman (1950). Questo è il tipo di solitudine organizzata che, come affermava controversamente Hannah Arendt (1951, 461), che corrispondeva con Riesman, “prepara gli uomini alla dominazione totalitaria”.

Solitudine Fisica: Basata su tabù culturali legati al contatto fisico e al toccare. Fromm-Reichmann raccomanda giustamente terapie basate sul massaggio anziché sul consumo di alcol.

Solitudine Cronica o Clinica (o quella che lei chiama ‘solitudine vera o grave’): Nelle parole di Weiss (1973): “un disagio cronico senza caratteristiche di redenzione”. La solitudine cronica si distingue dalla

Solitudine Transitoria: esperita, ad esempio, quando si è malati e si deve rimanere a letto; o nel contesto del lutto, di un cambio di città o di circoli sociali, o di essere separati da amici, familiari o partner.

Attraversando questa tipologia, Robert Weiss (1973) propone una categorizzazione topologica che è stata adottata e sviluppata da diversi teorici, tra cui (Dunbar 2014; Hall 1966; Hawkley et al. 2005; Hawkley et al. 2012).

Solitudine Intima (o “solitudine emotiva”): Si riferisce alla mancanza percepita di una persona significativa (ad esempio, un coniuge).

Solitudine Relazionale (o solitudine sociale): Si riferisce alla mancanza percepita di amicizie di qualità o connessioni familiari.

Solitudine Collettiva (Dunbar 2014): Si riferisce a una modifica delle identità sociali valorizzate di una persona o del “network attivo” (ad esempio, gruppo, scuola, squadra o identità nazionale) in cui un individuo può connettersi con altri simili a distanza nello spazio collettivo.

Cacioppo et al. (2015) caratterizzano queste distinzioni come tre “dimensioni” legate allo spazio di attenzione di una persona: spazio intimo o stretto; spazio sociale (coinvolgente famiglia e conoscenti); e lo spazio pubblico degli altri in generale.

Né Fromm-Reichmann né i vari teorici impegnati nella definizione e nella mappatura di diverse definizioni e tipologie di solitudine menzionano o descrivono la solitudine esistenziale, che Clark Moustakas (1961) definisce come una condizione predefinita dell’esistenza umana.

Loneliness is the condition of human life…. Man is ultimately and forever lonely…. I believe it is nec­essary for every person to recognize his loneliness, to become intensely aware that in every fibre of his being, man is alone – terribly, utterly alone. Efforts to overcome or escape the existential experience of lone­liness can result only in self-alienation. (Moustakas 1961, 3). 4

Di conseguenza, una tale solitudine può avere un profondo effetto sull’esperienza e sulla psicologia umana. Ad esempio, Ben Mijuskovic la associa a una paura particolare.

The fear of loneliness and the desire to avoid it con­stitutes the ultimate primary motivational principle in man…. The drive to escape isolation accounts for all our passion, thought, and action. In all we think, say, and do, we are animated by a fear of loneliness. (Mijuskovic 1988, 508). 5

Carr e Fang (2021, 2) suggeriscono che essa motivi un tipo di comportamento che comporta una lotta per mantenere connessioni sociali.

On an ontological level, humans are inherently lonely and separate from the world, although, as social beings, they still struggle and seek to reduce this sepa­ration through meaningful human interactions. 6

2. Solitudine Esistenziale, Incomunicabilità e l’Esperienza dell’Assenza

Un punto importante evidenziato da Fromm-Reichman riguarda l’incomunicabilità della solitudine.

People who are in the grip of severe degrees of loneliness cannot talk about it; and people who have at some time in the past had such an experience can seldom do so either, for it is so frightening and uncanny in char- acter that they try to dissociate the memory of what it was like, and even the fear of it. This frightened secre- tiveness and lack of communication about loneliness seems to increase its threat for the lonely ones, even in retrospect; it produces the sad conviction that nobody else has experienced or ever will sense what they are experiencing or have experienced. (1959, 6)7.

Sebbene Fromm-Reichman non chiami questo tipo di solitudine esistenziale, la sua descrizione gli si avvicina abbastanza. In particolare, l’intrinseca incomunicabilità costituisce il suo carattere, poiché si dice che l’esperienza della solitudine esistenziale coinvolga un’esperienza non concettuale del nulla (Ettema et al. 2010). Una spiegazione alternativa, tuttavia, è che il silenzio sulla solitudine possa essere dovuto a uno stigma culturale/normativo (Lau e Gruen 1992). Come affermano Morrison e Smith (2017, 11): “La solitudine è una condizione in gran parte invisibile che può essere rivelata agli altri solo da sé stessi. Tuttavia, ammettere di essere soli è problematico perché la solitudine è stigmatizzata in molte culture. Per lo stesso motivo, spesso viene sottovalutata, rimane clinicamente non diagnosticata ed è difficile da quantificare”. Questa visione si riflette nei pazienti che vengono ad esprimere la loro solitudine in contesti terapeutici. Ad esempio, James, un ex alcolista di 56 anni e ex soldato in fase di recupero, con diagnosi di PTSD e ansia e depressione correlate, quando gli viene chiesto della solitudine, dice:

Lonely, sad and lonely and there’s, you know … I feel lonely but I’ve got people that I can talk to that I don’t really want to talk to about this, about being lonely, about the feeling of being lonely…. It is something that is like a sort of stigma thing that you don’t want to talk about because you don’t want to admit it. (citato in Sagan and Miller 2017, 9).8

Oltre a questo stigma (normativo), la solitudine, per alcuni, può comportare una perturbazione affettiva inesplicabile della comunicazione che rafforza l’esperienza. Ancora una volta, uno dei pazienti di Sagan afferma: “Ho chiesto qualcosa al postino l’altro giorno, sai, solo per parlare… con qualcuno… e il mio cuore batteva così forte, non posso spiegare” (Sagan and Miller 2017, 9). Tali esperienze e l’incomunicabilità coinvolta, che sia dovuta allo stigma culturale o a un disturbo affettivo, sono generalmente considerate parte della solitudine cronica e differenziate in modo specifico da ciò che la maggior parte delle persone sperimenta. Da questo punto di vista, se l’incomunicabilità fa parte anche della solitudine esistenziale, non ne è una caratteristica definitoria.

È comunque possibile che l’incomunicabilità della solitudine esistenziale sia legata all’esperienza non concettuale del nulla o della mancanza, come affermano Ettema, Derksen & van Leeuwen (2010). “Il sentimento di solitudine esistenziale viene descritto come una totale assenza di relazione. Anche se alcuni autori sulla solitudine esistenziale sottolineano esplicitamente che la solitudine esistenziale non è una mancanza di qualcosa ma semplicemente ciò che uno è… le loro descrizioni effettive della solitudine esistenziale sono formulate anche in termini di mancanza. Ad esempio, la solitudine esistenziale viene descritta come un sentimento di ‘vuoto’, ‘atemporalità’… e ‘nulla’, e quindi, come avente una ‘qualità atona‘” (2010, 157).

L’intenzionalità della mancanza sperimentata, tuttavia, si trova anche nelle descrizioni della solitudine intima (o emotiva), definita come uno “stato affettivo” prodotto dall’assenza di una figura di attaccamento; così come nelle descrizioni della solitudine relazionale (o sociale) che coinvolge l’assenza di una rete sociale accessibile (Weiss 1973). Si trovano anche caratterizzazioni della solitudine transitoria che coinvolgono l’esperienza della mancanza di casa o terra natia, o delle comodità familiari. Questi vari casi empirici di solitudine possono comportare “un’esperienza dolorosamente sentita della mancanza che impedisce di sperimentarsi pienamente” (Motta and Bortolotti 2020, 132). Inoltre, le esperienze di assenza possono variare da una condizione all’altra. Da questo punto di vista, non è chiaro se l’esperienza della mancanza o una forma di nulla sia una caratteristica unica o ubiquitaria della solitudine esistenziale.

Un luogo in cui cercare aiuto per chiarire questa questione potrebbe essere rappresentato dalle descrizioni offerte dai filosofi esistenziali. Un esempio ben noto è il racconto di Sartre di non trovare il suo amico, Pierre.

I have an appointment with Pierre at four o’clock. I arrive at the cafe a quarter of an hour late…. I look at the room, the patrons, and I say, “He is not here.” Is there an intuition of Pierre’s absence, or does nega- tion indeed enter in only with judgment? At first sight it seems absurd to speak here of intuition since to be exact there could not be an intuition of nothing and since the absence of Pierre is this nothing. Popular consciousness, however, bears witness to this intu- ition. Do we not say, for example, “I suddenly saw that he was not there.” (1956, 9).9

Sartre fornisce un’analisi che mostra che l’esperienza primaria è un’esperienza percettiva intuitiva dell’assenza che giustifica ulteriori giudizi. Tuttavia, l’intuizione è orientata alla disposizione del caffè e al fatto che Pierre non sia lì – che, in termini fenomenologici, riguardano il polo noematico o di significato dell’intenzionalità. “In breve, l’assenza è definita come un modo di essere della realtà umana in relazione a luoghi e posti che essa stessa ha determinato con la sua presenza” (1956, 278). In questo caso, l’assenza non fa parte della struttura dell’intuizione (noetica), né richiama una sorta di stato affettivo che assomiglia alla solitudine. Per Sartre, l’esperienza dell’assenza di un amico non è necessariamente caratterizzata come una forma di solitudine, anche se è un’esperienza di assenza. Posso sperimentare l’assenza di Pierre senza provare affatto la solitudine. Proprio come l’isolamento sociale non comporta necessariamente la solitudine, neanche la percezione dell’assenza di Pierre.

Da un lato, Sartre suggerisce che l’assenza che sperimentiamo è “una rottura brusca nella continuità… un evento originale e irriducibile”. In questo senso, non si adatta alla descrizione di una struttura esistenziale che pervade la nostra esistenza. D’altra parte, tuttavia, Sartre suggerisce che l’esperienza della mancanza dipenda da una condizione esistenziale che caratterizza l’esistenza umana. “La condizione necessaria per il nostro dire no (o di esperire la mancanza) è che il non-essere sia una presenza perpetua in noi e fuori di noi, che il nulla perseguiti l’essere” (1956, 11). Per Sartre, questa condizione necessaria è la negatività o il nulla della coscienza, che può scatenare un’esperienza di Angoscia, anche se non comporta necessariamente un’esperienza di solitudine. In questa analisi esistenziale dell’esperienza della mancanza, non troviamo necessariamente solitudine che, secondo i resoconti della solitudine esistenziale, dovrebbe essere pervasiva; ma, al massimo o al peggio, l’occasione per sperimentare una forma di Angoscia. Anche quando Sartre parla della morte, in particolare della morte di Pierre, non c’è menzione della solitudine (1956, 112).


La connessione tra la solitudine esistenziale e la morte è chiaramente sottolineata da Ettema, Derksen & van Leeuwen (2010). “La solitudine esistenziale è per lo più sperimentata in situazioni di pericolo di vita perché è nel confronto con la morte che si è più consapevoli della propria fondamentale solitudine. Questa solitudine non può essere annullata né dalla presenza degli altri né da un adeguato trattamento dei sentimenti: l’isolamento di dover morire da soli rimane” (2010, 142). In questo caso, forse, Heidegger sarebbe più rilevante di Sartre.

È Heidegger che pone chiaramente la connessione tra una solitudine fondamentale e l’essere-verso-la-morte. Possiamo cercare di capire questo in termini di una struttura esistenziale che Heidegger chiama Mitsein – l’essere-con. L’essere-con è una caratteristica esistenziale primaria dell’esistenza umana (Dasein), ‘equiprimordiale’ o co-originaria con l’Essere-nel-mondo (1962, 149/114; anche 153/117; 1988, 238). Come nota Heidegger (e come si lamenta Sartre [1956, 248]), l’essere-con non dipende da alcun incontro effettivo con gli altri. Heidegger sottolinea che l’essere-con come struttura esistenziale originaria di Dasein non ha nulla a che fare con il fatto che ci possano essere altre persone nel mondo. Il fatto che altri siano nel mondo ha significato solo perché Dasein è essere-con, non il contrario. Inoltre, “solo come essere-con Dasein può essere solo” (1988, 238). L’essere-con come tale non dipende dall’esistenza degli altri; Dasein “è ben lontano dal divenire essere-con perché un altro appare nei fatti” (239). L’essere-con è piuttosto qualcosa che è insito nella struttura di Dasein.

Cosa dice Heidegger sulla solitudine esistenziale? Non usa il termine ‘loneliness‘ o ‘aloneness‘ in Essere e tempo. Usa però la frase ‘essere-da-soli’10. Nell’affrontare l’essere-da-soli, tuttavia, è chiaro che, come abbiamo notato, la caratteristica ontologico-esistenziale dell’essere-con non dipende da alcuna esperienza ontica o empirica dell’altro. Per quest’ultima utilizza il termine ‘Dasein-con’ – un incontro con gli altri che sono nel-mondo (1962, 156). L’essere-da-soli, tuttavia, “è l’Essere-con nel mondo. L’Altro può mancare solo in e per un Essere-con. L’essere-da-soli è una modalità difettiva dell’Essere-con…” Per Heidegger, quindi, questa caratteristica esistenziale dell’essere-con è una condizione necessaria per l’esperienza dell’essere-da-soli — solo perché Dasein è Mitsein, Dasein può sperimentare l’essere-da-soli. Come afferma Mike Wheeler (2020): “L’essere-con è quindi la condizione trascendentale a priori per la solitudine”. Se non fossimo configurati come essere-con, allora il non-essere-con che sembra caratterizzare la solitudine (anche nei casi in cui ci sono troppe persone intorno) non sarebbe possibile (1962, 157). Inoltre, solo a causa di questa struttura di Mitsein, Dasein sperimenta una solitudine fondamentale nell’essere-verso-la-morte. La possibilità della morte è individuale; nessun altro può sostituire la mia morte.


Come molti commentatori hanno sottolineato, Heidegger lascia questi concetti non sviluppati – in particolare i concetti di essere-con, Dasein-con e essere-da-soli (Binswanger 1962; Gadamer 2004; Gallagher and Jacobson 2012; Löwith 1928; Nancy 2008; Pöggeler 1989; Tugendhat 1986). In questo senso, non è chiaro se Heidegger alla fine avallerebbe la nozione di solitudine esistenziale come è stata definita da Ettema, Derksen, van Leeuwen, Mijuskovic o Moustakas. Al massimo, sembra essere una modalità difettiva di essere-con. In quanto tale, tuttavia, non sarebbe una modalità inevitabile di esistenza.

3 – Una critica della Solitudine Esistenziale

Ho discusso sul fatto che il concetto di solitudine esistenziale sia considerato vago e poco chiaro (Ettema et al. 2010; Bolmsjö et al. 2019; Maes et al. 2022); talvolta è confuso con le questioni legate al significato della vita11, e ci sono difficoltà nella valutazione e nella diagnosi (van Tilburg 2021). Nonostante questi problemi, il concetto di solitudine esistenziale continua a influenzare diversi approcci psicoterapeutici (Applebaum 1978; Carter 2000; Lindenauer 1970; May and Yalom 2000; Mayers and Svartberg 2001; Nyström et al. 2002; Nyström 2006; Olofsson et al. 2021; Razban et al. 2022). Secondo questi approcci, la terapia non mira a eliminare la solitudine esistenziale, ma a affrontarla. Mentre la solitudine sociale ed emotiva può essere affrontata migliorando la propria rete di relazioni, non c’è una cura per la solitudine esistenziale (Mayers and Svartberg 2001). In alcuni casi, la psicoterapia procede accettando e comprendendo il proprio vuoto esistenziale, rinunciando a cercare di risolverlo con le proprie forze e permettendo alla completezza esistenziale di emergere (Park 2006).

Nella misura in cui i teorici della solitudine esistenziale continueranno a fare riferimento a qualcosa di simile all’analisi poco sviluppata presente in Heidegger, il concetto probabilmente continuerà a rimanere vago e poco chiaro. Inoltre, i terapeuti possono incontrare importanti limitazioni in termini di applicazione pratica. Sartre rende questo chiaro nella sua critica a Heidegger. Parlando del concetto di Mitsein, Sartre commenta:

the ontological co-existence which appears as the structure of “being-in-the-world” can in no way serve as a foundation to an ontic being-with, such as, for example, the co-existence which appears in my friend- ship with Pierre…. In fact it would be necessary to show that “being-with-Pierre” … is a structure con- stitutive of my concrete-being. But this is impossible from the point of view which Heidegger has adopted. The Other in the relation “with,” taken on the onto- logical level, can not in fact be concretely determined …; it is an abstract term… and it does not contain the power of becoming that Other-Pierre…. Thus the rela- tion of the MitSein can be of absolutely no use to us in resolving the psychological, concrete problem of the recognition of the Other. (1956, 248).12

Si potrebbe cercare di ignorare questa critica interpretando Sartre in una direzione diversa, come fa Mijuskovic (2012) nella sua analisi della solitudine esistenziale. In questo contesto, la solitudine non è una interruzione o una modalità difettosa del Mitsein, ma è essa stessa una struttura ontologica fondamentale (una solitudine trascendentale) – una profonda mancanza intrinseca nell’esistenza umana che siamo inclini a nascondere a noi stessi. Mijuskovic favorisce un’interpretazione cartesiana di Sartre come favorevole alla solitudine esistenziale. “Con Sartre concorderei sul fatto che l’uomo è condannato non solo alla libertà ma anche alla solitudine” (Mijuskovic 2012, 124). Di conseguenza, respinge la nozione di Mitsein di Heidegger e pensa che R.D. Laing si contraddica poiché sostiene sia la visione heideggeriana che la visione cartesiana-sartreana. L’associazione tra essere-con e solitudine esistenziale, tuttavia, si trova in altri teorici, ad esempio John McGraw (1995): “Essere con gli altri è la modalità primaria dell’essere dell’uomo. Questo rende la solitudine metafisica” (Ettema et al. 2010, 147).

Penso che Mijuskovic abbia ragione nel sostenere che non si possa avere tutto, ossia affermare contemporaneamente una condizione trascendentale a priori di essere-con, che specifica una struttura interpersonale profonda dell’esistenza umana, e una solitudine esistenziale trascendentale che specifica il contrario, e trattarle in qualche modo come equiprimordiali. Sembra una contraddizione teorica, nel campo fenomenologico-esistenziale, affermare che il Mitsein è una caratteristica esistenziale di base, un aspetto costitutivo dell’esistenza umana, e allo stesso tempo insistere sul fatto che la solitudine ha lo stesso status. Al massimo, si potrebbe dire, come fa Heidegger, che una è derivata (o una modalità difettosa), o, mettendo da parte lo scetticismo di Sartre, che una caratteristica esistenziale/trascendentale/ontologica come il Mitsein è la condizione per una solitudine empirica/psicologica/ontica. Inoltre, se si cerca di rendere la solitudine esistenziale una caratteristica esistenziale o trascendentale, ne segue una contraddizione pratica/empirica: tutte le prove indicano una profonda socialità che caratterizza la maggior parte della vita umana, dall’inizio (riflessa nel concetto di intersoggettività primaria nello sviluppo) alla fine della vita (quando ci troviamo ad abbandonare gli altri); tutte le prove sono che la nostra esistenza comporta l’essere con gli altri. Anche la ben nota affermazione di Heidegger secondo cui il Dasein tende verso l’inautenticità, la modalità das Man di essere persi nella folla, sembra parlare contro la solitudine esistenziale. Con alcune eccezioni, siamo, per la maggior parte della nostra vita, occupati ad essere con gli altri. Ciò non rende impossibile la solitudine, ma mette in discussione l’idea che le istanze di solitudine siano esistenziali nel senso proprio. Questo solleva naturalmente la domanda: esiste davvero una solitudine esistenziale?

Vorrei ribadire che come si risponde a questa domanda può dipendere dalla concezione di ciò che sto chiamando la profonda socialità dell’esistenza umana e dalla comprensione di alcune delle questioni dello sviluppo, a cominciare dalla nascita. Qui è pertinente la nozione di intersoggettività primaria. Non cercherò di delineare una trattazione completa dell’intersoggettività primaria, un concetto che caratterizza l’esistenza umana come interattivamente intersoggettiva fin dalla nascita, con radici nella nostra natura genetica/biologica. Tuttavia, un breve riassunto potrebbe essere utile. Il concetto è tratto da studi sullo sviluppo condotti da Colwyn Trevarthen (1979), Peter Hobson (2002), Vasu Reddy (2008) e altri, che mostrano che fin dalla nascita, i neonati hanno capacità sensorio-motorie, manifestate a livello di azione ed esperienza percettiva, che li mettono in relazione con gli altri e consentono loro di interagire con i loro caregiver. Dalla prima infanzia in poi, siamo tipicamente sintonizzati sugli altri individui, e in particolare sui loro movimenti corporei, gesti, espressioni facciali, direzione dello sguardo, intonazione vocale, ecc. e abbiamo un senso di ciò che intendono e di ciò che provano; rispondiamo con i nostri stessi movimenti corporei, gesti, espressioni facciali, sguardo, ecc. L’interazione umana significativa è già viva nella prima infanzia nelle pratiche corporee che costituiscono il nostro accesso primario per comprendere gli altri, e questo è qualcosa che continua per tutta la vita.

Ad esempio, i neonati sono in grado di percepire che certi tipi di entità nell’ambiente sono agenti proprio come loro, in contrapposizione agli oggetti inanimati (Legerstee 2005; Johnson 2000). Dalla nascita sono capaci di percepire e rispondere a gesti facciali presentati da un altro, in modo che implichi una distinzione tra sé e non sé (Bermúdez 1996; Gallagher and Meltzoff 1996). Questo contrasta con una visione psicoanalitica di una presunta fusione o indifferenziazione esperenziale tra il neonato e l’altro all’inizio della vita (Winnicott 1989) – la motivazione iniziale per una lotta per differenziarsi o individuarsi, che viene poi vista come rivelatrice della solitudine esistenziale (Applebaum 1978).

La intersoggettività primaria può essere specificata in modo più dettagliato. Ad esempio, a 2 mesi di età i neonati stanno già tracciando i movimenti della testa e la direzione dello sguardo dell’altro individuo (Baron-Cohen 1995; Maurer and Barrera 1981). A questa età, l’interazione di secondo grado è evidenziata dal tempismo e dalla risposta emotiva dei comportamenti dei neonati. Essi “vocalizzano e gestualizzano in modo ‘sintonizzato’ rispetto alle vocalizzazioni e ai gesti dell’altro individuo” (Gopnik and Meltzoff 1997, 131). A 5-7 mesi i neonati sono in grado di rilevare corrispondenze tra informazioni visive e uditive che specificano l’espressione delle emozioni (Hobson 2002). A 6 mesi iniziano a percepire la presa come diretta verso uno scopo, e a 10-11 mesi sono in grado di suddividere le azioni continue in base ai confini intenzionali (Baldwin and Baird 2001). I neonati iniziano a percepire vari movimenti della testa, della bocca, delle mani e movimenti più generali del corpo come movimenti significativi e diretti verso uno scopo (Senju, Johnson & Csibra 2006).

Che si accetti una concezione forte dell’intersoggettività primaria come interazione tra sé e gli altri, o, al contrario, una concezione forte della fusione esperienziale dalla quale bisogna lottare per liberarsi, la situazione esistenziale non è quella che si sia gettati nel mondo come individui solitari. Fin dall’inizio, si vive la vita interagendo con gli altri o uniti agli altri. Inoltre, anche nel processo di individuazione di sé, lo facciamo specificamente nelle nostre relazioni intersoggettive. Da questo punto di vista, la solitudine, piuttosto che essere una struttura profonda della nostra esistenza, è una modifica o interruzione della nostra profonda esistenza intersoggettiva relazionale.

4 – La solitudine come esperienza interpersonale ed esistenziale

L’idea che ognuno muoia da solo è coerente con quella di Heidegger che definisce l’ansia di fronte alla morte; questa è l’idea che la solitudine esistenziale “che sperimentiamo nella consapevolezza della nostra finitezza non può essere alleviata dalla presenza degli altri”; oppure l’idea che “rimaniamo fondamentalmente soli nell’attesa della nostra morte” (Ettema et al. 2010; Mayers et al. 2002). In questa prospettiva, come suggerisce Jaspers, dovrei affrontare la morte come una “sfida, piuttosto, per vivere e mettere alla prova la mia vita alla luce della morte” (1970, 195). Ci vuole coraggio per affrontare individualmente la morte in “un atteggiamento che mi permetta di considerare la morte come un’opportunità indefinita per essere me stesso” (199). La mia tesi non è che dovremmo adottare questa visione heideggeriana. Tuttavia, possiamo pensare che, anziché guardare all’inizio della vita, si dovrebbe iniziare considerando la solitudine legata alla morte e lavorare a ritroso da quella. In tal senso, anziché concentrarsi sulla propria morte, la solitudine viene di solito sperimentata come conseguenza della morte di una persona cara. Quel tipo di solitudine è sperimentato con l’intensità che di solito viene attribuita alla solitudine esistenziale, se una tale cosa esiste. Karl Jaspers lo rende chiaro.

The death of the closest, most beloved persons … is the deepest incision in phenomenal life. We stay alone when we must leave them alone at the last moment when we cannot follow. Nothing is reversible; it is the end for all time. The dying cannot be addressed any- more; everyone dies alone. The loneliness at the point of death seems total, for the dying as well as for the one left behind. The phenomenon of being together as long as there is consciousness, this sorrow of part- ing, is the last, helpless expression of communication. (1970, 194)13

Consideriamo ora un punto di vista diverso. Werner Marx (1987) suggerisce che l’incontro con la possibilità della mia morte e la morte degli altri può essere un’esperienza intensamente intersoggettiva, poiché tutti condividiamo la mortalità – siamo tutti sulla stessa barca in questo senso; tutti partecipiamo a essere-verso-la-morte (sia per quanto riguarda la nostra morte personale, sia per quanto riguarda la possibilità di catastrofi ambientali o l’eventualità di un olocausto nucleare). Per Marx, la giusta sintonizzazione verso la morte costituisce una “forza di guarigione” che supera l’angoscia sconvolgente associata alla morte. Il passaggio dalla caratteristica inquietante della morte alla potenza guaritrice della nostra mortalità esperita comporta il raggiungimento di una sintonizzazione verso gli altri, un’ “autenticità relazionale” (Gallagher, Morgan & Rokotnitz 2018), un modo di “essere-insieme-con-gli-altri” anziché metterli da parte o lasciarli indietro (Marx 1987, 53). Il raggiungimento della giusta relazione con la morte deve essere pensato in termini di un dono o di un evento che accade a tutti noi (57, 114-115).

Penso che le prove a favore della visione di Marx (e contro la stessa nozione di solitudine esistenziale) siano rappresentate dall’esperienza di profonda solitudine interpersonale nel caso della perdita di una persona cara o dell’esperienza di solitudine imposta da condizioni ambientali, sociali o culturali – fenomeni che possono portare a diverse forme di solitudine cronica o transitoria.

Questa prospettiva è coerente con un suggerimento avanzato da Sköld (2020, 2021), secondo cui invece di distinguere tra solitudine interpersonale (di diverse varietà, come emotiva, sociale, ecc.) e solitudine esistenziale, dovremmo comprendere gli aspetti esistenziali in una luce interpersonale e gli aspetti interpersonali in una luce esistenziale. La solitudine può essere profondamente problematica e trasformativa; possiamo anche riconoscerla come caratterizzata esistenzialmente, senza considerarla radicata in una profonda struttura trascendentale ineludibile.

Possiamo riconoscere che tutta la solitudine interpersonale è esistenziale nella misura in cui trasforma il mio modo di essere-nel-mondo, sia privandomi di senso o dandomene di più.

Se sosteniamo l’idea di una versione empirico-evolutiva dell’esistenza interpersonale, possiamo comprendere la primaria intersoggettività come un insieme di processi intersoggettivi dinamici che ci rendono ciò che siamo. In tal caso, la solitudine, anziché essere una struttura profonda della nostra esistenza, può essere vista come un’esperienza che si ha quando c’è una carenza o una interruzione nelle nostre possibilità di interazioni intersoggettive, causata da una varietà di fattori, tra cui problemi di attaccamento nell’infanzia, la perdita di una persona cara, pratiche o disposizioni sociali/culturali dirompenti, e così via. Questa riconcettualizzazione fa una differenza pratica nei contesti terapeutici. In questa prospettiva, e in contrasto con le opinioni riportate in precedenza di alcuni dei teorici citati (ad esempio, Mayers & Svartberg 2001; Park 2006), la solitudine non è uno stato esistenziale predefinito, e la terapia non dovrebbe essere semplicemente una forma di accettazione. L’implicazione di tale riconcettualizzazione in un contesto terapeutico è quella di respingere l’adozione di un atteggiamento di rassegnazione, del semplice affrontare un Angst ineluttabile, e abbracciare invece la possibilità di trasformarlo in un’apertura e un’apprezzamento della nostra vita con gli altri, oppure, nel caso dell’elaborazione del lutto, ciò che Merleau-Ponty descriveva come un “quieto interesse per qualche oggetto luminoso” (2012, 86). Ciò non significa minimizzare l’effetto spesso grave della solitudine, ma riconoscere e apprezzare il profondo significato della nostra finitudine condivisa.

CONCLUSIONI

In contrasto con gli aspetti interpersonali di altri tipi di solitudine, la solitudine esistenziale è stata caratterizzata come uno stato predefinito intrapersonale di incomunicabilità o profonda solitudine, parte di una struttura ontologica o trascendentale fondamentale nell’esistenza umana. Dopo aver fornito un’idea del suo contesto filosofico, ho argomentato che non esiste una buona base filosofica per questa concezione della solitudine esistenziale, che ci sono problemi concettuali e pratici ad essa collegati, e che ciò ha alcune implicazioni per la psicoterapia. Sebbene la solitudine possa essere esistenziale in un certo senso, essa si manifesta tipicamente in contesti interpersonali e non dovrebbe essere considerata una struttura ontologica ineluttabile dell’esistenza umana. In modo più positivo, dovremmo pensare alla solitudine come una modifica della nostra esistenza intersoggettiva radicata, e come qualcosa che può essere affrontato nei contesti terapeutici. Le migliori pratiche in tali contesti possono dipendere ulteriormente dalla ricerca per comprendere le differenze esperienziali affettive che derivano da diversi fattori causali che interrompono l’esistenza intersoggettiva.

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1 Department of Philosophy, University of Memphis, 329 Clement Hall, Memphis, TN 38152, USA

2 School of Liberal Arts, University of Wollongong, Wollongong, Australia

3 “La solitudine sembra essere un’esperienza così dolorosa e spaventosa che le persone faranno praticamente di tutto per evitarla. Questo evitamento sembra includere una strana riluttanza da parte degli psichiatri nel cercare una chiarificazione scientifica del soggetto. Così accade che la solitudine sia uno dei fenomeni psicologici meno soddisfacentemente concettualizzati, e non viene nemmeno menzionata nella maggior parte dei libri di testo di psichiatria.” (N.d.T.)

4 “La solitudine è la condizione della vita umana… L’uomo è in definitiva e per sempre solo… Credo che sia necessario che ogni persona riconosca la sua solitudine, diventi intensamente consapevole che in ogni fibra del suo essere, l’uomo è solo – terribilmente, completamente solo. Gli sforzi per superare o sfuggire all’esperienza esistenziale della solitudine possono portare solo all’autoallontanamento.” (N.d.T.)

5 “La paura della solitudine e il desiderio di evitarla costituiscono il principio motivazionale primario ultimo nell’uomo… L’impulso a sfuggire all’isolamento giustifica tutte le nostre passioni, pensieri e azioni. In tutto ciò che pensiamo, diciamo e facciamo, siamo animati dalla paura della solitudine.” (N.d.T)

6 “A livello ontologico, gli esseri umani sono intrinsecamente solitari e separati dal mondo, anche se, essendo esseri sociali, lottano ancora e cercano di ridurre questa separazione attraverso interazioni umane significative.”(N.d.T.)

7 “Le persone che sono prese dalla solitudine in maniera grave non possono parlarne; e le persone che in passato hanno avuto un’esperienza del genere raramente possono farlo anche loro, perché è così intrinsecamente spaventosa e straordinaria che cercano di dissociarne il ricordo di com’era, e persino la paura ade essa associata. Questa spaventosa segretezza e la mancanza di comunicazione sulla solitudine sembrano aumentarne la minaccia per chi è solo, anche a posteriori; essa produce la triste convinzione che nessun altro abbia mai sperimentato o sperimenterà mai ciò che stanno vivendo o hanno vissuto.”(N.d.T.)

8 “Solitario, triste e solo e c’è, sai… Mi sento solo ma ho persone con cui posso parlare ma che non voglio davvero coinvolgere in questa conversazione, sulla solitudine, sul sentimento di solitudine… È qualcosa come una sorta di stigma, di cui non vuoi parlare perché non vuoi ammetterlo.”(N.d.T.)

9 “Ho un appuntamento con Pierre alle quattro. Arrivo al caffè un quarto d’ora in ritardo… Guardo la sala, i clienti e dico, “Non è qui.” C’è un’intuizione dell’assenza di Pierre, o la negazione entra effettivamente solo con il giudizio? A prima vista sembra assurdo parlare qui di intuizione, poiché per essere precisi non potrebbe esserci un’intuizione del nulla e poiché l’assenza di Pierre è questo nulla. La coscienza popolare, tuttavia, testimonia questa intuizione. Non diciamo, ad esempio, “Ho improvvisamente visto che non c’era.”(N.d.T.)

10Qui nasce un discreto problema di traduzione dall’inglese all’italiano in quanto la differenza tra le due parole, di fatto, in italiano, non è riproducibile se non cambiando il senso del discorso e usando parole diverse che avrebbero altresì riferimenti in inglese non usati in questo caso, come ad esempio isolamento. Si è voluto quindi lasciare le parole inglesi che connotano, nel primo caso, loneliness, la passività della condizione di solitudine, e invece il senso di indipendenza nel secondo con la parola aloneness. (N.d.T.)

11 Per esempio, alcuni autori considerano la solitudine esistenziale come una condizione permanente (ad esempio, Moustakas 1961); altri la vedono come uno stato temporaneo attraverso il quale si può lavorare, consentendo la crescita o portando a una vita migliore (Applebaum 1978; Ettema, Derksen & van Leeuwen 2010). Olofsson et al. (2021, 1184) riassumono diverse caratterizzazioni: “Non esiste una chiara definizione di solitudine esistenziale, ma può essere compresa come una consapevolezza immediata di essere fondamentalmente separati dagli altri e dall’universo, principalmente attraverso l’esperienza di sé come mortali. La solitudine esistenziale può anche essere descritta come un senso più profondo di solitudine. In situazioni critiche in cui un futuro precedentemente immaginato e la sicurezza di base vengono minacciati, il benessere esistenziale può essere influenzato negativamente e possono insorgere sensazioni di mancanza di significato. Da un punto di vista esistenziale, questo risveglio scatena una reazione di crisi. Oltre ad essere descritta come l’isolamento finale, la solitudine esistenziale può anche essere vista come parte dell’essere umano che non può essere evitata nel corso della vita. Tuttavia, la solitudine esistenziale può anche essere un’esperienza positiva e pacifica se si sceglie liberamente tra una rete sociale e la solitudine, portando alla crescita personale.”

12 “l’ontologica coesistenza che appare come struttura del “essere-nel-mondo” non può in alcun modo servire da fondamento per un essere-con ontico, come ad esempio la coesistenza che appare nella mia amicizia con Pierre… In effetti, sarebbe necessario dimostrare che “essere-con-Pierre”… è una struttura costitutiva del mio essere concreto. Ma ciò è impossibile dal punto di vista adottato da Heidegger. L’Altro nella relazione “con”, preso a livello ontologico, non può infatti essere concretamente determinato…; è un termine astratto… e non contiene il potere di diventare quell’Altro-Pierre…. Quindi, la relazione del MitSein non può assolutamente esserci utile nel risolvere il problema psicologico e concreto del riconoscimento dell’Altro.” (N.d.T.)

13 “La morte delle persone più vicine e amate… è l’incisione più profonda nella vita fenomenica. Restiamo soli quando dobbiamo lasciarli soli nell’ultimo momento in cui non possiamo seguirli. Nulla è reversibile; è la fine per sempre. I morenti non possono essere più rivolti; tutti muoiono da soli. La solitudine al momento della morte sembra totale, sia per chi muore che per chi resta. Il fenomeno di stare insieme finché c’è coscienza, questa tristezza della separazione, è l’ultima, impotente espressione della comunicazione.” (N.d.T.)

Please cite this article as: Shaun Gallagher (2023) Una critica della Solitudine Esistenziale. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/numero-47/una-critica-della-solitudine-esistenziale/

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