Essere nel mondo e non "del" mondo. Meditazione, contatto, presenza e psicoterapia della Gestalt
Di Shobha G. Arturi
Medico, psicoterapeuta della Gestalt
Pubblicato sul numero 16 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Che cosa è meditazione e a cosa serve? Come mai ne parlo in un contesto come questo in un convegno di psicoterapia della Gestalt intitolato peraltro “Il Superfluo e la Sostanza”? A queste domande cercherò di dare alcune risposte in base alla mia esperienza in materia.
Il mio primo incontro con alcune pratiche di meditazione provenienti dalle tradizioni buddiste tibetane, tantriche, zen, sufi e taoiste, risale a 30 anni fa, grazie agli insegnamenti di Osho , maestro contemporaneo geniale e controverso, che ho avuto la fortuna di incontrare. A lui risalgono anche alcune tecniche calibrate per gli uomini occidentali di oggi. Ai suoi discorsi e ai momenti di meditazione intorno a lui devo la possibilità di aver incontrato tradizioni e maestri di culture lontane che nel corso dei secoli si sono incrociate con la nostra, influenzandola e fertilizzandola.
Il silenzio e le parole
L’incontro in uno spazio meditativo, con il sapere di un uomo che vive ciò di cui parla, è una forma di apprendimento coinvolgente, diventa carne e non solo una raccolta di informazioni. Un insegnamento che passa attraverso l’ascolto delle pause e degli intervalli, ancor più che attraverso le parole, mentre spazi di silenzio si aprono dentro ciascun ascoltatore.
Un apprendimento iniziatico
E’ stato, in altre parole, un percorso iniziatico, che mi ha trasformato e continua a provocarmi a nuove avventure creative ed esistenziali. Molte sono le analogie con la formazione in psicoterapia della Gestalt secondo la scuola di Firenze, che si pone anche come percorso iniziatico : percorso di conoscenza e di trasformazione di cui fare esperienza in prima persona, per poter trasmettere un’analoga possibilità di trasformazione in chi ci chiede aiuto. Si tratta di trasmissione, cioè di un apprendimento che si basa sulla relazione fra maestro e discepolo, o fra docente e discente, ed è un’esperienza che mette in evidenza gli schemi caratteriali precostituiti, aprendo a nuove possibilità creative e che provoca infine a trovare la propria via, non a seguire quella del maestro.
Il superfluo e la sostanza
Nulla sembrerebbe più superfluo nella vita come la meditazione: non si mangia, né ci aiuta a fare soldi (benché il mercato sia diventato sensibile e la moda fa diventare ricchi alcuni cosiddetti “maestri”), ma poche sono state le esperienze che mi hanno dato di più la sensazione di essere vicina alla “sostanza” della vita stessa.
A proposito di sostanza, uno dei più conosciuti insegnanti di meditazione in occidente, Chogyam Trungpa scrive:”…questa forma base di meditazione concerne il cercare di vedere ciò che è”. Che sembra semplice, e lo è, se togliamo il fatto che il nostro vedere è normalmente falsato e annebbiato da chi pensiamo di essere e dalle mete che ci prefiggiamo. Meditazione è arrivare al cuore delle domande esistenziali che l’uomo si è sempre posto: chi siamo, da dove veniamo, che senso ha questa nostra esistenza. Arrivare al cuore non è esattamente sinonimo di trovare risposte…
Essere nel mondo e non del mondo
Parlare di meditazione può essere semplice, ma per non cadere nella semplificazione, comincerò a dire quello che non è.
Di meditazione e tecniche di meditazione si parla sempre più diffusamente nel mondo occidentale a cui apparteniamo. E non sono pochi i luoghi comuni a cui questa diffusione ha portato e che distolgono non poche persone dal farne esperienza.
Uno riguarda il tema dell’ascetismo o della fuga dal mondo a cui la meditazione porterebbe.
A questo proposito, una delle tante parabole della tradizione buddista racconta proprio del Buddha stesso: prima di conseguire un stato di consapevolezza da risvegliato era un principe, Siddharta, che abbandonò regno e famiglia un giorno, quando incontrò, lui ricco e bello, la realtà della sofferenza, della malattia, della vecchiaia, della morte. Siddharta iniziò allora un lungo periodo di ascetismo, privazioni e pratiche yogiche. Anni che finirono un giorno quando, ormai stremato, decise di mettersi più comodo accettando un cuscino di paglia da un contadino e un po’ di cibo da una donna. Seduto così sotto un albero, abbandonò ogni ambizione mistica per stare lì. Nel mondo che lo circondava. Presente. Iniziò così il percorso di trasformazione che lo portò al risveglio, all’illuminazione: lo squarcio del velo di maya che gli permise di vedere ciò che è. Cominciò quindi a viaggiare per l’India e intorno a lui si raccolsero centinaia di discepoli. Era circondato dal mondo, in un contatto quotidiano con i dolori di quanti gli chiedevano aiuto per la loro vita.
L’ascetismo, o un ritiro riflessivo, può essere parte di un cammino meditativo come anche di un desiderio di comprensione di sé, ma non può essere fine a se stesso. Lo stato meditativo ci porta più intimamente in contatto con noi stessi e con il mondo intorno, in una relazione più attuale con la realtà fatta di eventi concreti e di persone.
Nella mia esperienza il primo incontro con le pratiche meditative mi portò a uno stato di apertura che mi permise di accogliere molto di più la stessa realtà che avevo intorno: mi trovavo nello stesso posto dove abitavo e che avevo fino a quel momento percepito come dolorosamente limitato. E la mia percezione, il mio modo di sentire e di stare in quel luogo, diventò completamente diversa. Non so perché, ma questa sensazione fu accompagnata da un immenso e sottile piacere: lo stesso luogo che io detestavo era diventato sorgente di piacere: il cielo, il traffico, le persone… Come un innamoramento… Tutt’altro che svanita, mi occupavo delle cose di tutti i giorni, come prima, ma con un senso di quiete, di gioia e un leggero sorriso mi accompagnava anche mentre lavavo i piatti.
Nella mia esperienza meditazione e ascetismo o fuga dal mondo non solo non sono sinonimi, ma sono in qualche modo opposti.
Lo stato meditativo ci consente di stare dove siamo in uno stato di apertura e disponibilità e di rispondere in una maniera fluida agli eventi che ci circondano, e anche magari di andare in giro per il mondo, ma non più fuggendo, tutt’altro: tuffandocisi dentro. Al tempo stesso la capacità di attenzione fluttuante a cui ci allenano le tecniche di meditazione, ci permette, pur essendopienamente immersi nella vita, a vedere le cose della vita, i fenomeni, quel che accade, con una certa distanza, diventando consapevoli e facendo esperienza diretta del mistero di essere in un mondo che in parte costruiamo e in parte è quel che é. Secondo Paolo Quattrini: “il fenomeno è unico,creazione e rivelazione, oggetto e soggetto allo stesso tempo, libertà e necessità per il percipiente, abitante di quel mondo che allo stesso tempo costruisce e che non può dis-costruire a volontà. Non è come potrebbe sembrare, un gioco di parole, ma una realistica descrizione dell’esser-ci del mondo: “Essere nel mondo senza essere del mondo” è un’indicazione chiarissima, se si considera l’essenza intrinseca del fenomeno”.
E ancora Trungpa: ”Senza il mondo esterno, il mondo dei fenomeni, sarebbe praticamente impossibile praticare la meditazione, perché il mondo esterno e il mondo interno non esistono separatamente, semplicemente co-esistono”
Se di trascendenza si può parlare è qui una trascendenza che non è superstizione e che non è opposta all’immanenza del mondo dei fenomeni, ma ne deriva, vi appartiene.
Mondo interno e mondo esterno
A sottolineare la co-esistenza di mondo esterno e mondo interno, possiamo anche leggere le parole con cui inizia il Dhammapada, una delle raccolte delle parole di Buddha :
“Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo origina con i nostri pensieri.
Con i nostri pensieri facciamo il mondo.
Parla o agisci con una mente impura
E i problemi ti seguiranno
Come la ruota segue il bue che tira il carro.
Parla o agisci con una mente pura
E la felicità ti seguirà
Come la tua ombra, stabilmente”
Ascoltando o leggendo queste parole come non pensare alle scoperte della psicologia della Gestalt che a partire dall’intenzionalità di Brentano, fa della percezione un processo attivo, per cui il mondo che ci appare non è così semplicemente come lo percepiamo a prescindere dal soggetto che percepisce e da quello che pensa e sente…
Corpo, mente, emozioni: presenza e continuum di consapevolezza
Tutti noi abbiamo l’esperienza di momenti in cui ci sentiamo “scollati”, disconnessi, con il pilota automatico inserito, distratti, assenti, disturbati, assediati da un unico pensiero o accecati da un’emozione e dimentichi di tutto il resto… Se ci facciamo caso, e solo se ci facciamo caso, e, per così dire ci soffermiamo con attenzione proprio sulle sensazioni e pensieri che sono presenti a noi, proprio in quei momenti, possiamo rientrare in contatto con noi stessi nella nostra interezza e nella nostra multidimensionalità, ridiventando, per così dire, padroni in casa nostra.
Per farlo occorre rallentare e mettersi in una disposizione descrittiva, più che interpretativa, lasciare da parte il desiderio di risolvere il rebus esistenziale, per osservarlo. Essere semplicemente presenti a qualsiasi istanza.
Le tecniche di meditazione sono molte e diverse, adatte a diverse tendenze caratteriali, alcune implicano movimento altre la stasi o alcune posizioni corporee ma sono tutte pervase da un richiamo alla presenza a se stessi. Qualsiasi sia la tecnica, quello che conta è rimanere presenti a se stessi. Se questa tendenza viene a mancare, la tecnica perde senso e diventa ginnastica, o un metodo per rilassarsi o anti-ansia, una distrazione dai nostri pensieri quotidiani, un calmante. Da questo proviene il fraintendimento è che meditazione sia qualcosa di mentale e di avulso dal corpo o viceversa che sia una disciplina fisica, come allenarsi a prendere e stare in una certa posizione.
Rimanere presenti a se stessi è qualcosa di impegnativo. Molte delle esperienze che Perls (che conobbe lo Zen) propone in Teoria e pratica della terapia della Gestalt, sono modi di praticare la presenza a sé. Il continuum di consapevolezza è il fluire di uno stato di presenza, che non rigetta nulla.
La tecnica meditativa, che sia Tai chi, Yoga, Vipassana, Kundalini, Nadhabrahma o Dinamica , è una palestra per allenarsi ad essere presenti al corpo, ai pensieri, alle emozioni. E’ una presenza che è diversa sostanzialmente dal coinvolgimento. Un’osservazione curiosa e attenta, ma anche un po’ distaccata, come un entomologo che osserva i suoi insetti.
La tecnica di meditazione è come un orticello, un momento della giornata, in cui coltivare la capacità di esercitare la presenza, ma non è un percorso di introversione: essere presente vuol dire anche allenarsi ad essere nel presente e presente a tutto quello che c’è: dentro e fuori, non importa dove. Corpo, mente ed emozioni sono materia della la consapevolezza di sé, e sono parte di quel dentro/fuori che è il nostro mondo. Il continuum di consapevolezza implica un attenzione a quello che si presenta alla nostra percezione: un prurito, un crampo, un pensiero, un suono, un profumo, un soffio d’aria, un ricordo, un’emozione di volta in volta saranno presenti a noi.
Possiamo quindi praticare una tecnica che implica movimento o immobilità, respiro o suono, a seconda delle nostre personali inclinazioni, ma in ogni caso il sine qua non, per farne un’esperienza meditativa è la presenza, è la consapevolezza momento per momento, l’essere qui e ora. L’essere qui e ora, che ci porta ad accorgerci di che percepiamo e al tempo stesso a mantenere una certa distanza.
Attenzione e sospensione del giudizio
Un altro luogo comune riguarda il confondere la meditazione con la concentrazione e con un viaggio nella profondità: se è vero che occorre che il faro della nostra attenzione sia ben acceso per accorgersi di quel che percepiamo, è vero anche che l’attenzione stessa è testimone della mobilità e della variabilità delle nostre percezioni. La concentrazione è fissa su un oggetto. Qui gli oggetti sono in continuo movimento. E’ un’attenzione diffusa, come stare alla finestra e vedere quel che accade, non prendervi parte. Un’attenzione fluttuante,Freud ne parlava, di cui abbiamo bisogno nel nostro lavoro e di fatto anche nella nostra formazione ci alleniamo a prestare attenzione al paziente e a noi stessi in contemporanea, allargando l’orizzonte o avendo presente più orizzonti. Un’attenzione, pronta a lasciare andare quel che illumina, perché qualcos’altro è già all’orizzonte, che guarda insieme vicino e lontano. Così si può osservare un pensiero e non prendervi parte in un lungo dialogo, lasciando che si allontani al momento che un’altra sensazione ci occupa. Come nuvole che passano nel cielo. Lo stesso si può fare per le sensazioni fisiche o gli stati emotivi che arrivano, vengono notati, accettati e lasciati andare. Questo è lo stato del testimone, dell’osservazione con distanza.
In termini gestaltici questo ricorda il meccanismo figura/sfondo: un po’ come accogliere la figura e lasciare che dallo sfondo ne emerga un’altra e poi un’altra…Una specie di allenamento a distoglierci dalla fissità con cui certe figure si presentano per ciascuno di noi a seconda del carattere e dei momenti, e di accorgerci con uno sguardo periferico della esistenza dello sfondo, ricca riserva vitale.
E ricorda anche il concetto di Epoché, la sospensione del giudizio di cui Husserl parla,che ci permette di non autoingannarci rispetto alle nostre percezioni e di accogliere quello che appare alla nostra consapevolezza e alla nostra attenzione, indipendentemente da quello che ne pensiamo, anzi accorgendoci anche di quello che ne pensiamo.
Inevitabilmente questo processo porta a uno stato di presenza, di quiete e di spaziosità, come se fossimo impegnati ad osservare un paesaggio i cui confini si allargano fino a portare lo sguardo a un orizzonte vasto e lontano, e al tempo stesso essere disponibili agli innumerevoli dettagli che costituiscono questo paesaggio e proprio questo. Sempre citando Trungpa: “Non è tanto questione di andare in una qualche profondità interiore, ma di diventare più spaziosi ed espansi verso l’esterno”. Così dentro, così fuori: è un ampliamento dell’ orizzonte interno che ci permette di aprire gli occhi diversamente anche sul mondo esterno. Quello che cambia è il modo di guardare e di vedere.
Il tempo, la pazienza e il piacere
E’ un processo questo che richiede tempo e allenamento per stabilizzarsi nel nostro organismo. La pazienza è sicuramente un’altra qualità di cui facciamo pratica, ma sin dalle prime esperienze inevitabilmente l’organismo riconosce, con una sensazione di piacere, l’integrità di se stesso. Questo accade se una tecnica ci calza addosso. Non tutte vanno bene per tutti, ma se è quella che fa per noi la riconosciamo dagli effetti quasi immediati. Bastano pochi giorni e ci accorgiamo di un nuovo modo di stare nel mondo, al di là del momento in cui stiamo effettivamente meditando. Se una tecnica praticata con regolarità per qualche giorno ci fa quest’effetto, è tale la sorpresa e anche il senso di piacere, che ci serve da incoraggiamento per continuare a praticarla con pazienza perché i suoi effetti si possano stabilizzare.
L’araba fenice
La pratica di qualcosa di così apparentemente raccolto e individuale (anche se come spesso accade fatto in gruppi di persone) è inevitabilmente accompagnato dall’esperienza della limitatezza delle nostre percezioni abituali e di quello che chiamiamo io. Questo non va senza qualche dolore e protesta: la nostra consolidata identificazione con quello che crediamo di essere e che chiamiamo io, traballa e spesso si fa sentire sotto forma di giudizi e obiezioni: “Sto perdendo tempo… ma che cavolo sto a fare…. Roba da santoni… a me non serve… ho altro a fare…”.
In Gestalt l’Io si manifesta al confine del contatto, compare e scompare, ma non siamo abituati a un percezione così attenta di quello che accade al confine del contatto, così finiamo per chiamare io delle idee preconfezionate dal nostro carattere imbrigliandoci in risposte obbligate, in comportamenti stereotipati e in una percezione della realtà mutilata.
Citando Paolo Quattrini: “ Il sacrificio narcisistico è un mistero, che richiede iniziazione, in quanto il narcisismo, come la Fenice, risorge eternamente dalle proprie ceneri, e questo non può essere compreso se non esperienzialmente, dato che per la mente logica quello che muore non risorge”.
Incontrare una guida, qualcuno che abbia fatto l’esperienza della morte e della rinascita e di cui fidarsi, visto che stiamo proponendo una sospensione delle nostre fissazioni mentali e comportamentali, è importante e forse inevitabile, come in tutti i percorsi iniziatici.
Le pratiche di meditazione allargano il campo e mettono a rischio le nostre abitudini percettive: cominciamo ad accorgerci degli occhiali che il nostro carattere ci mette davanti… a volte può succedere che il velo di maya si scosti un pochino e ci lasci intravedere oltre all’illusione, ed è davvero come uscire da una gabbia.
Questa esperienza di chiarezza e espansione viene chiamata “Satori” ed è analoga a momenti di “Insight”, momenti in cui qualcosa che era proprio lì davanti al nostro naso e che non vedevamo, diventa visibile ed evidente con stupore e meraviglia con un: Ah! Ecco!
Gli ostacoli che si incontrano praticando una tecnica di meditazione sono in realtà opportunità di conoscenza di sé: proprio lì dove c’è l’ostacolo c’è una porta che attende di essere aperta. Inevitabilmente è vero in questo percorso che “l’ostacolo sarà la tua via” o, come dicono alcuni maestri, l’ostacolo alla via della meditazione sei tu stesso che la pratichi. L’Araba fenice che nel morire genera.
Secondo Trungpa:” … benché parliamo di ego come di qualcosa di solido che ha vari aspetti, di fatto vive esclusivamente temporaneamente come un continuo processo di creazione. Muore continuamente e rinasce continuamente. Per cui l’ego non esiste realmente. Ma funziona come una sorta di saggezza: quando l’ego muore, lì è la saggezza”.
Nel gap, nell’intervallo fra una morte e una rinascita, questo è lo spazio a cui ci allena la meditazione. Un vuoto fra qualcosa e qualcos’altro. Non un vuoto vacuo, ma un vuoto ricco, spazioso, piacevolmente carico di energia, un vuoto fertile, un vuoto in cui intuizione, comprensione e creazione stanno di casa.
Satyam, Shivam, Sundaram: Verità, Benevolenza, Bellezza
Nella tradizione delle Upanishad , Satyam, Shivam e Sundaram (Saggezza, Benevolenza e Bellezza) sono tre aspetti del divino. La verità, la bontà, e la bellezza sono le tre qualità a cui l’uomo tende e che fanno la differenza fra una vita piena e una vita vuota. Le tre categorie di valori (Logica, Estetica ed Etica) per cui possiamo dare senso alla vita.
Contrariamente al pregiudizio per cui le pratiche meditative provochino un distacco tale dalla vita che uno ne gusti poi meno i sapori, queste sono una metodologia che affina la nostra sensibilità e le nostre capacità logiche e intuitive, in modo da poter discernere, riconoscere e coltivare ciò che ci avvicina alla verità, alla benevolenza e alla bellezza.
Le tecniche meditative portano a un risveglio dei sensi,tutte e non solo quelle del Tantrismo che impiegano più esplicitamente i sensi di altre. Grazie alla migliorata capacità percettiva, all’attenzione, i nostri sensi vengono risvegliati a gustare meglio i sapori, gli odori, i colori di ciò che ci circonda. Potremmo dire che meditare è un’educazione estetica. E paradossalmente chi medita dopo un po’ diventa anche più bello, qualcosa traluce di questa capacità estetica ed è avvertita intorno. Non a caso si dice che: “la bellezza sta negli occhi di chi guarda” di chi riesce a goderne e a nutrirsene.
C’è anche chi ritiene che meditare offuschi la mente. Questo può essere il caso per quelle tecniche che tendono ad addormentare e a calmare, ma non le chiamerei tecniche di meditazione. La meditazione è un sentiero stretto su cui camminare passo
dopo passo con attenzione, curiosità e pazienza. Se ci addormentiamo, non stiamo meditando. Viceversa la chiarezza della mente è un altro degli effetti che vengono indotti dalle pratiche di meditazione. Non a caso i maestri hanno parlato di “risveglio”. Solo una mente “risvegliata” e chiara può accogliere la realtà nelle sue molteplici sfaccettature. Si sviluppa così una capacità di visione chiara e di conoscenza che non è ereditata da altri, ma è una conoscenza intuitiva, partecipativa.
fatta di esperienza propria,
Il sentire più attento, e la chiarezza di pensiero orientano anche il fare verso un’attitudine etica che apre il cuore alla compassione verso gli altri oltre che verso se stessi. Nessuno su questa strada è più in alto di un altro, e ognuno sa che in qualche misura la sofferenza ci apparenta. E’ una benevolenza che ha a che fare con l’esperienza del dolore e del limite e non con il precetto e la morale. Il precetto è qualcosa che viene scritto in mancanza di un sentire discriminante. Nel buddismo la compassione e la benevolenza sono segnale di un raggiunto stato di ampliamento della propria consapevolezza. Il sorriso che aleggia sulle labbra e negli occhi di molte statue del Buddha, così come di molti altri maestri viventi e non, ma anche di chi è in uno stato meditativo, è un sorriso amorevole di chi conosce il dolore,ed è rivolto all’umanità intera. Se vi capita di incontrare un sorriso così sapete che vi fa bene al cuore…
Il viaggio è la meta
Una qualità che viene introdotta presto a chi intraprende una pratica meditativa è quella di fare attenzione al processo piuttosto cha alle aspettative di risultati. Avere aspettative e fissare un risultato per una pratica meditativa distoglie l’attenzione dal processo di consapevolezza che in sé è tutto quel che deve accadere. In questo caso il viaggio e la meta sono co-esistenti. Secondo un detto che si fa risalire a Lao-tse , figura forse reale, forse leggendaria, iniziatore del Tao: “Il viaggio è fatto dal primo passo”. Pensare di avere un goal, un obiettivo, sposta l’attenzione sul futuro sulla base delle esperienze passate, lasciando poco o niente spazio a ciò che è. Viceversa se si riesce a stare nel fluire presente, la realtà può apparire, al di là di ciò che pensiamo di conoscere.
Per finire
Quando pratichiamo una tecnica di meditazione stiamo facendo semplicemente pratica di stare nel presente, a contatto con quello che si presenta alla nostra consapevolezza, nel fluire. Quando questa capacità si è stabilizzata, non abbiamo più bisogno di alcuna tecnica. Possiamo vivere questo stato di presenza in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione. E’ chiaro che per ognuno ci vorrà un po’ di pazienza e un po’ di tempo perché questo accada, ma quando accade, la tecnica può essere abbandonata. La vera meditazione è vivere con presenza e consapevolezza, la vita.
Di nuovo le semplici parole di Trungpa: “ per far vedere uno spazio, uno può creare un vaso, ma poi lo deve rompere, e allora puoi vedere che il vuoto dentro è lo stesso vuoto fuori. Questo è la funzione di una tecnica di meditazione.”
Nella mia esperienza mi è utile di tanto in tanto, tornare a una pratica meditativa anche soltanto per ricordarmi il sapore della presenza e della quiete e riportarmi qui in quello che sto vivendo.
Osho Rajneesh (1931-1990) maestro nato in India che ha tramandato vari metodi e tecniche di meditazione, inventandone alcune di grande efficacia per gli uomini contemporanei. Di cultura vasta e generosa ha tenuto una lunga serie di discorsi su saggi, pensatori e filosofi orientali e occidentali, oltre che rispondere alle domande dei discepoli raccolti numerosi intorno a lui. I suoi discorsi sono raccolti in una vasta bibliografia anche in italiano.
Molte volte Osho ha parlato del diverso ascolto a cui ci invita nei suoi discorsi. Cito alcune sue parole: “Quando parla un maestro e si ferma per un attimo, improvvisamente cala un gran silenzio. Lui parla non per dire la verità, perchè la verità non può venir detta. Lui parla per tenere la tua mente occupata e poi, quando si accorge che la tua mente è completamente assorta, fa una piccola pausa. E in quella pausa la trasmissione vera accade… in quegli istanti fra due parole qualcosa di miracoloso dall’essere del maestro penetra nel silenzio del tuo essere”. Dalla raccoltaBodhidharma: the greatest zen master. (cap 12: Every suffering is a Buddha-seed)
Vedi anche la citazione di Paolo Quattrini (Fenomenologia dell’esperienza) riportata più avanti nel testo
Chogyam Trungpa (1939-1987) Lama tibetano fondatore della Naropa University a Boulder in Colorado, Università riconosciuta dal governo americano e ispirata ai principi del buddismo. Trungpa ha portato in occidente con chiarezza e semplicità alcuni dei fondamenti della meditazione secondo il buddismo tibetano e ha scritto alcuni testi fondamentali nel chiarire alcune possibili distorsioni dello spiritualismo, come “Il mito della libertà” o”Al di là del materialismo spirituale”.
Come tutte le tradizioni spirituali, anche la tradizione buddista a cui si richiamano molte pratiche meditative, si avvale di molte e belle parabole: storie sulla vita del Buddha , aneddoti sui suoi numerosi discepoli.
Anche per noi le crisi e i momenti di passaggio, sono tappe importanti, svolte, momenti di interrogazione e ricerca. E sono anche i momenti in cui spesso qualcuno cerca aiuto anche di uno psicoterapeuta.
Gautama il Buddha (nato nel 566 a.C.) dopo l’illuminazione viaggiò per circa quaranta anni per l’India. Intorno a lui migliaia di persone di diversa provenienza ed estrazione sociale si raccoglieva spontaneamente ad ascoltare i suoi discorsi e le risposte alle domande che gli venivano poste. Non scrisse mai nulla, furono i suoi discepoli che raccolsero le sue parole a scriverle in diverse raccolte. IlDhammapada, è la più vasta raccolta delle sue parole. Qui ho liberamente tradotto il brano citato dalla raccolta di discorsi che Osho ha tenuto sul Dhammapada nel 1979 (opera citata in bibliografia)
Il Tai Chi, proviene dalla tradizione taoista (iniziata da Lao Tzu IV sec a.C.): consiste in una serie di movimenti armoniosi, lenti e forti collegati al respiro. Lo Yoga ha diverse forme e proviene dagli insegnamenti del maestro indiano Patanjali (visuto tra l’800 e il 300 a.C.). E’ la forma meditativa forse più inflazionata e deformata. Vipassana, proviene dalla tradizione buddista tibetana, è una pratica basata sull’osservazione del respiro e di tutti i fenomeni che appaiono alla nostra attenzione. Kundalini e Dinamica sono due tecniche proposte da Osho, prevedono fasi in movimento e fasi più statiche. Nadhabrama è una tecnica ripresa da Osho dalla tradizione tibetana, impiega l’effetto del suono vibrazionale.
Le Upanishad (IX-VIII a.C) gli insegnamenti esoterici della cultura Induista precedenti il buddismo, che hanno impregnato tutte le tradizioni successive. Sono stati trasmessi oralmente fino alla prima stesura scritta tradotta dal sanscrito in persiano e voluta da un sultano musulmano nel 1656.
Il Tantrismo è una scuola esoterica che fiorì in India intorno al VI sec p.C. Le tecniche impiegate nel Tanta usano i sensi, la sensualità e anche la sessualità come metodi per affinare la consapevolezza e la presenza. Il Vigyana Bhairav Tantra è il testo in cui sono raccolti 112 metodi di meditazione che sono introdotti da Shiva (la divinità maschile) a Devi (la divinità femminile, in forma di amorose conversazioni, a rappresentare la disposizione ricettiva del discepolo verso i maestro.
Bibliografia
S. Freud – Opere complete, Boringhieri
Lao Tzu – Tao te ching – Trad. di Stephen Mitchell – Frances Lincoln London
F. Perls- R.F. Hefferline- P. Goodman –Teoria e pratica della terapia della gestalt, Astrolabio
P. Quattrini – Fenomenologia dell’esperienza, 2006,Zephyro Edizioni
Osho Rajneesh – Vari discorsi sono stati tradotti in Italiano e pubblicati presso diversi editori.
Le musiche che accompagnano le tecniche trasmesse da Osho sono reperibili
Contattando il sito www.oshobha.it
– Dhammapada, the way of the Buddha, The Rebel Publishing House
– Il libro dei segreti, Bompiani
-Tanta: la comprensione suprema, Bompiani
– La disciplina della trascendenza, Bompiani
– Il manifesto dello Zen, News services corporation
– La mente che mente. Commenti al Dhammapada di Gautama il Buddha, Urra
Chogyam Trungpa – Il mito della libertà , Ubaldini
Al di là del materialismo spirituale, Ubaldini
Meditation in action- Shambala
Upanishad – UTET 1976
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