LE DINAMICHE DI GRUPPO
Abstract
Istituto Gestalt Firenze
di Giovanni Paolo Quattrini
Psicoterapeuta – Direttore Scientifico Istituto Gestalt Firenze
Pubblicato sul numero 25 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.
Abstract: In un gruppo di terapia o di addestramento, spesso il trainer acquisisce in maniera indebita la posizione di leader: questo porta a una concezione della terapia come un’esperienza in cui il leader, come un buon monarca, offre un tipo di organizzazione apprezzabile, da cui ogni membro prende i vantaggi di cui ha bisogno. Per realizzare un cammino terapeutico bisogna uscire a questo impasse. In un gruppo organizzato democraticamente bisogna riconoscere a chiunque il diritto di sentire, di pensare e di esprimere quello che vuole, nei rispetto dei limiti e degli accordi condivisi rispetto all’agire.
Abstract: In a therapy or training group, the trainer often unduly acquires the position of leader: this leads to a conception of therapy as an experience in which the leader, like a good monarch, offers an appreciable type of organization, from where each member takes the benefits he needs. To achieve a therapeutic journey, one must get out of this impasse. In a democratically organized group it is necessary to recognize everyone the right to feel, to think and to express what he wants, respecting the shared limits and agreements concerning the acting.
Keywords: gruppo, leadership, psicoterapia, espressione, democrazia.
Il gruppo1 come insieme non è qualcosa che si vede direttamente con gli occhi, vale a dire che concretamente si vedono solo le persone che lo compongono: per vederlo nel suo trascendere la somma dei partecipanti bisogna sentire l’effetto che fa, e a questo scopo bisogna ascoltare il proprio vissuto a riguardo e chiedere alle persone di ascoltare che effetto gli fa stare nel gruppo. Oltre agli oggetti concreti, cioè i fenomeni primari, e gli effetti del mondo esterno sul mondo interno, cioè i fenomeni secondari2, esiste una categoria che va considerata a parte, che è quella degli oggetti dinamici, che sono rilevanti nell’effetto pur essendone elusiva l’origine. Un esempio di oggetto dinamico è appunto il gruppo umano: essendo, olisticamente parlando, più della somma dei suoi membri, anche se non si vede in senso stretto, ha una sua esistenza reale, che è luogo di possibili correnti, quelle che in gergo si chiamano dinamiche di gruppo.
Il termine dinamiche di gruppo è generico, e diventa chiaro solo se riferito al pensiero di uno specifico autore: il più grande interprete dell’argomento in campo psicologico è stato probabilmente Bion, ed è a lui che normalmente ci si riferisce a questo proposito. Nell’ottica psicodinamica un gruppo si considera in genere come il corrispondente esterno del mondo interno di una persona, e la terapia qui viene condotta come se tutto il gruppo fosse un solo individuo. La grande differenza fra individuo e gruppo è che quest’ultimo non ha un io, e se non esprime un leader o non si struttura democraticamente come gruppo di lavoro, cade necessariamente sul piano degli istinti fondamentali, fame fuga territorio sesso: Bion divideva i gruppi in dinamica in gruppi di dipendenza (fame), gruppi di attacco e fuga (fuga e territorio), e gruppi di accoppiamento (sesso).
Bion fa un richiamo a Freud, volto a mostrare una similarità tra le caratteristiche del «gruppo di lavoro» e quelle che «Freud attribuisce all’Io quando parla dell’individuo» (1961, p. 153). La partecipazione al gruppo di lavoro implica funzioni quali attenzione, subordinazione del principio di piacere al principio di realtà, attività di pensiero quale azione di prova, sviluppo e uso dei processi secondari, capacità di rappresentazione verbale e di simbolizzazione (cfr. S. Freud, 1911, p. 455 e segg.).
Come per un individuo la coesione della persona è gestita da un io più o meno centrale e dal suo corredo narcisistico, così la coesione del gruppo dipende da un principio coesivo, che non potendo essere un io deve essere necessariamente un fatto politico, cioè un leader stabile come in una monarchia, oppure una intenzione sufficientemente condivisa dai membri del gruppo, come in una repubblica. Il fattore unificante deve essere necessariamente presente: un paese, monarchico o repubblicano che sia, deve avere delle istituzioni e una struttura investita di senso che le garantisce. Come è evidente all’osservazione degli eventi storici, gli esseri umani sono tendenzialmente monarchici, mentre la repubblica, malgrado i suoi vantaggi in termini di libertà e autodeterminazione, richiede uno sforzo di investimento di senso che spesso non sono disposti a fare. Da questo punto di vista è chiaro come in un gruppo di terapia o di addestramento, spesso il trainer acquisisce in maniera indebita la posizione di leader: questo porta a una concezione della terapia come un’esperienza in cui il facente funzione di io del gruppo, come un buon monarca, offre un tipo di organizzazione più apprezzabile, da cui ogni membro prende i vantaggi di cui ha bisogno. Per realizzare un cammino terapeutico bisogna uscire a questo impasse.
La necessità emotiva di darsi un capo è una delle costanti riscontrate con maggiore frequenza da Bion nei gruppi da lui condotti: egli ha notato come il gruppo basico si organizza cercando un leader, che adempia la funzione di provvedere alle necessità del gruppo e che sia in possesso di quelle caratteristiche che meglio corrispondono. Nei gruppi terapeutici questo ruolo onnipotente è dapprima attribuito al terapeuta: l’idea di ricevere un trattamento convoglia una sproporzionata carica di aspettativa ed il gruppo si comporta nei confronti del terapeuta come se fosse convinto che tutto il lavoro dovrà essere compiuto da lui. Se l’analista propone ai membri di attivare un livello più maturo e razionale di funzionamento, il gruppo percepisce ciò come un rifiuto — da parte dell’analista — di assumere il ruolo che gli è stato attribuito, e reagisce quindi trasferendo l’investimento emotivo su un’altra persona. L’atto del conoscere è — Bion lo ha costantemente sottolineato — doloroso, e ciò tanto più per quei gruppi che si propongono di promuovere uno sviluppo delle capacità dì introspezione.
Se prendiamo in considerazione un’organizzazione democratica del gruppo, che è unito dall’accordo dei suoi membri verso un obiettivo comune e si rompe là dove questo accordo finisce, la posizione del trainer, invece che di partecipante in qualità di leader, risulta quella di interlocutore del gruppo in quanto insieme, in un certo senso come una persona di fronte a un’altra persona. In questo caso il trainer non può indirizzare gli eventi, ma in un’ottica di circolo ermeneutico può solo metterci il dito sopra manifestando la sua reazione e riferirli alla responsabilità dei suoi membri, che possono, democraticamente, elaborare soluzioni o rimanere nella situazione in corso infischiandosene dell’interlocutore o catalogandolo come avversario3.
Riguardo alla formazione di un gruppo democratico, il problema è che per esserci accordo ci deve essere stata espressione, mentre nei gruppi gran parte delle opinioni delle persone sono sconosciute agli altri, e se non si sa cosa gli altri sentono e pensano è difficile affidarsi al flusso degli eventi in una aspettativa creativa. Per “dinamiche di gruppo” in psicoterapia si intende in genere solo quelle correnti che girano automaticamente intorno a se stesse, mentre la cooperazione per un obbiettivo, pur essendo a suo modo una dinamica, si rivolge a un orizzonte lontano e come ogni creazione ha davanti l’infinito delle possibilità. Si tratta comunque di una corrente, ma radicalmente diversa dalle altre in quanto diretta a un obbiettivo sublimato, la direzione appunto dell’elaborazione psicoterapeutica: la differenza fondamentale è che questa ultima non si muove per automatismi, e ha bisogno dell’accorgersi e del decidere consapevolmente delle persone implicate.
Bion giustifica il termine «gruppo di lavoro» perché sembra esprimere più compiutamente aspetti importanti del livello della vita mentale del gruppo a cui esso si riferisce: la capacità di consapevolezza e gli sforzi di cooperazione volontaria messi in atto dai membri, al fine di portare a termine i compiti programmati, attraverso un approccio che utilizzi metodi scientifici ed evoluti, implicanti tolleranza della frustrazione e controllo delle emozioni (cfr. W. R. Bion, 1961, p. 153).
Bion ipotizza che il «gruppo di lavoro» sia sempre attivamente presente all’interno del gruppo, anche se talvolta può non essere subito facilmente individuabile.
La democrazia richiede coscienza e responsabilità: la cultura occidentale riconosce queste due caratteristiche come capacità di chiunque, e a ogni cittadino riconosce per questo il diritto di voto. Ugualmente, in un gruppo organizzato democraticamente bisogna riconoscere a chiunque il diritto al suo particolare mondo interno, cosa che si ottiene concretamente differenziando l’agire dall’esprimere: ognuno ha diritto di sentire e di pensare quello che vuole, limiti e relativi accordi sono situati nell’agire. Questa è una regola che viene prima della formazione del gruppo: come non sarebbe accettabile un mondo dove fosse permesso l’omicidio, così non è concepibile un gruppo di terapia o di training dove sia permesso ai membri di agire invece che esprimere, in quanto i più forti ridurrebbero gli altri al silenzio.
Si tratta di esplicitare che il gruppo appartiene ai suoi membri, e che se ci sono regole richieste dalla situazione terapeutica o didattica, ci sono regole richieste dal gruppo ai suoi membri, delle regole per così dire, democratiche, che di solito invece non vengono né espresse, né contattate. Il trainer, come interlocutore, non fa parte del gruppo: questo va dichiarato e discusso con il gruppo, che, date le inclinazioni monarchiche degli esseri umani riguardo agli investimenti narcisistici, può eventualmente tentare di vanificare questo punto. Il trainer può solo dichiarare e difendere le regole che la terapia richiede (esprimere e non agire, rispettare la privacy non parlando fuori, dal gruppo di fatti ce lo riguardano ecc.), ma non può sanzionare le regole interne del gruppo (bisogna star zitti quando qualcuno lavora, non si può entrare in competizione, ecc.), altrimenti diventa parte del gruppo in funzione di leader, cosa che lo toglie dalla posizione di interlocutore e snatura l’organizzazione democratica del gruppo.
Il problema è come essere concretamente interlocutore invece che membro del gruppo, cosa che nella pratica psicoterapeutica è essenziale, altrimenti si vanifica il circolo ermeneutico tra terapeuta e gruppo, e in più lavorare con le eventuali dinamiche diventa impossibile. Nella terapia della famiglia la tecnica che viene utilizzata è quella di tenere uno dei terapeuti dietro uno specchio, fuori della visibilità dei membri del gruppo, e in relazione diretta solo con l’altro terapeuta: questo gli assicura una possibilità di non essere risucchiato dalle dinamiche in quanto rimane sconosciuto e irraggiungibile dai commenti. Negli approcci psicodinamici uno dei terapeuti commenta solo alla fine della seduta, e parla del gruppo al gruppo, senza mai essere interlocutore di specifici individui. In ambedue questi casi si vede un’attenzione rivolta all’insieme e non ai singoli, cosa che non può però essere adottata in un approccio fenomenologico esistenziale, dove il terapeuta entra in circolo ermeneutico sia con il gruppo che con i singoli membri.
Un problema essenziale nella gestione delle dinamiche di gruppo è riconoscere l’esistenza di qualcosa che è più della somma dei suoi membri, in quanto non è visibile di per sé e appare agli occhi dell’osservante solo quando ne guarda gli effetti, non diversamente di come un orologio appare nella sua orologità solo quando l’osservante cerca l’ora segnata: a chi per assurdo non dovesse essere interessato a qualcosa che indica lo scorrere del tempo, sarebbe ben difficile vedere l’orologio come insieme che trascende le sue componenti. Come per vedere l’orologità bisogna guardare al prodotto dell’insieme orologio, per vedere il gruppo come insieme bisogna guardare a quello che il gruppo produce, che si può vedere solo al momento che lo si cerca, e che quindi si sa che necessariamente esiste e che può avere molte forme diverse: si tratta dell’atmosfera che nel gruppo si respira, che a seconda di come è elicita avvenimenti fra i membri che possono essere molto diversi.
Se i membri del gruppo si rendono conto che il territorio è loro e che devono accordarsi su una costituzione e sul rispetto di questa, il trainer smette di occupare un posto centrale, e può diventare più facilmente un titolare di aspettative personali che il gruppo può accettare o contestare attraverso trattative e accordi (si tratta questo o quest’altro tema, spiega perché questo dovrebbe essere importante, ecc.: il circolo ermeneutico insomma) Questo è possibile nella misura in cui i membri del gruppo sono d’accordo ad acquisire realtà complesse che vanno anche contro ai loro bisogni narcisistici, sono in relazione personale, cioè in un circolo ermeneutico, con il trainer, e sono solidali nel sostenere il prezzo del relativo sacrificio narcisistico con un apprezzamento gruppale che lo compensi. Se gli altri sono pronti a deridere, nessuno ovviamente si sporge fuori dai limiti della propria immagine di sé, e la repressione del disprezzo da parte del trainer semplicemente non ha effetto, come si sa bene da tutte le esperienze scolastiche: il risultato è che comunque i membri del gruppo non fanno libere associazioni, e il lavoro non procede.
Caratteristica dell’uomo e, in misura ancora maggiore, degli uomini riuniti in un gruppo, è un innato desiderio di sicurezza che porta ad evitare le sofferenze connesse con l’apprendere dall’esperienza. In “Esperienze nei gruppi” Bion si dimostra fiducioso circa la forza e l’influenza che il gruppo di lavoro può avere sulla possibilità di far prevalere il metodo scientifico su tali pregiudizi: «Secondo me uno degli aspetti più sorprendenti di un gruppo — egli scrive — è il fatto che, nonostante l’influenza degli assunti di base, il gruppo razionale o di lavoro alla fine riesce a trionfare» (1961, p. 145).
Pe riconoscere uno stato di accordo bisogna esprimersi: se nessuno dice cosa si aspetta, nessuno saprà cosa si aspettano gli altri, e difficilmente ci sarà qualcosa a cui appoggiarsi che moderi i rischi della trasformazione dell’immagine di sé. La prima operazione per gestire le dinamiche di un gruppo è quindi quella di chiedere ai membri di esplicitare le regole che si aspettano che ci siano: naturalmente questo da solo non basta per arrivare a un accordo fra tutti, ma perlomeno si sa cosa aspettarsi e da chi eventualmente guardarsi le spalle, invece di rimanere in uno stato di strisciante circospezione o di chiusura pregiudiziale. In più le regole, come tutte le leggi, possono essere emendate, e con gli emendamenti diventano più articolate e ottengono più larghi consensi. Naturalmente non si tratta di un’operazione una tantum, le regole si trasformano col tempo e le alleanze si fanno e si disfano, e esplicitarlo aiuta a fidarsi di più e ad affrontare la diversità. Malgrado questo lavoro di esplicitazione e di riconoscimento di accodi e disaccordi, i gruppi perdono facilmente l’istanza trascendente, e cadono nelle posizioni regressive della fame fuga territorio e sesso. La spiegazione probabile è che si tratta di posizioni più facili da gestire da un punto di vista narcisistico: non ci sono rischi da prendere, c’è solo da difendere una posizione, con il poco sforzo di defilarsi dalle responsabilità delle istanze dell’apprendimento, se si tratta di un gruppo classe.
Quando la prevenzione non ottiene risultato, elaborare le dinamiche in corso è molto complicato. Il primo ostacolo è una coesione campanilistica del gruppo, che si presenta narcisisticamente compatto (siamo una classe di buona qualità), e si difende da qualunque insinuazione di “qualcosa che non funziona”: il gruppo come entità non viene in genere riconosciuto dai suoi membri e qualunque cosa si dica a questo proposito è in genere presa personalmente e confutata. In primo luogo le dinamiche bisogna almeno riconoscerle, cosa resa difficile dal fatto che non è la forma che bisogna guardare ma la sostanza. In genere i gruppi di dipendenza, secondo la dizione di Bion, presentano forme disparate di dipendenza, di cui una frequente e facilmente riconoscibile è quella di fare domande disparatissime e di accogliere le risposte col silenzio e altre domande. I gruppi di attacco e fuga sono invece percorsi da continue correnti di ipersensibilità aggressiva, che non arriva a nessun risultato. Quelli di accoppiamento invece, sempre secondo la dizione di Bion, sembrano presi da un centro gravitazionale narcisistico intero al gruppo, a cui gli interessi conoscitivi rimangono periferici.
Sulla base della descrizione fornita da Bion è possibile differenziare se è attivo l’uno o l’altro assunto di base (dipendenza, attacco-fuga, accoppiamento). Bion indica come elemento distintivo una connotazione o qualità degli stati emotivi (ad es. ansia, paura, amore) diversa a seconda dell’assunto di base attivo: «le modificazioni che presentano i vari sentimenti, variamente combinati nell’uno o nell’altro assunto di base, possono dipendere per così dire dal cemento che li unisce e che è costituito dalla colpa e dalla depressione nel gruppo di dipendenza, dalla speranza messianica nel gruppo di accoppiamento, dall’ira e dall’odio nel gruppo di attacco e fuga» (W. R. Bion, 1961, p. 176).
In tutti e tre i casi, se il trainer non è il leader, è il rappresentante del mondo esterno in veste di fonte di soddisfazione, minaccia o confronto narcisistico, qualcuno cioè da controllare in un modo o in un altro. Importante a questo proposito il concetto di autopoiesi, di Maturana: si agisce per continuare ad avere le istanze, non per soddisfarle, si mangia cioè per poter continuare ad aver fame (se non si mangia invece si muore). Così in una dinamica di dipendenza, i membri del gruppo per esempio domandano non per soddisfare la loro curiosità, ma per continuare a fare domande, in un abisso senza fondo di richiesta che non ha luoghi di possibile arrivo. Non diversamente, nei gruppi di attacco e fuga non c’è modo di raggiungere un porto sicuro dove non ci sia più bisogno di combattere, e nei gruppi di accoppiamento, ribattezzati folkloristicamente come gruppi “mulino bianco”, lo sforzo verso una dimensione di piena soddisfazione narcisistica è senza riposo.
In questo senso quello che caratterizza le dinamiche di gruppo è il loro automatismo senza scopo, che non si placa in nessun modo: lo spazio concesso qui per cose come sperimentare, capire, sviluppare nuovi punti di vista, cambiare idea eccetera, è evidentemente marginale, e in un gruppo classe o di terapia sono impedimenti importanti che non conviene ignorare, per quanto sia difficile risolverli.
Secondo Bion, nelle dinamiche di gruppo il sapere è in realtà un «sapere ripetitivo», che viene raggiunto attraverso un sistema primitivo di premi e punizioni. L’obbedienza cieca è essa stessa una virtù. Come nota Meltzer, «il grande terrore è l’espulsione e il grande premio è un posto nell’establishment»(1982, p. 10). I membri, in quanto compartecipi di un gruppo, subiscono una perdita della loro individualità, si trovano cioè in una condizione fenomenologicamente non distinguibile dalla depersonalizzazione. Essi fanno un uso particolare del linguaggio: questo è utilizzato più per veicolare sensazioni ed emozioni che per comunicare un senso e significati precisi.
Parlare analogico, per l’indirizzo fenomenologico esistenziale è un vantaggio, in quanto senso è qualcosa che si sente e si articola per metafore, mentre i significati non hanno necessariamente un influsso determinante su questo. Esprimere dunque quello che le persone del gruppo e il trainer sentono è una modalità essenziale in questo indirizzo per rompere l’automatismo delle dinamiche: messi di fronte al sentire degli altri, i membri del gruppo difficilmente possono non rendersi conto delle loro reazioni in proposito, e della loro posizione nell’insieme gruppo. La stessa istanza narcisistica che tende a mantenere le dinamiche, può essere utilizzata invece come spinta personale a costruire una gruppalità di valore, in cui stabilire legami di solidarietà, scambiare affetto e ottenere i prodotti di una creatività condivisa, che ha almeno quella componente di eros che tinge la vita di colore.
Un aspetto universale della vita mentale è la tendenza dell’individuo a combinarsi istantaneamente e involontariamente con un altro (o più altri) per condividere un assunto di base ed agire in accordo con esso; risponde automaticamente alla appartenenza ad un gruppo (scissione tra «aspetti membro» ed «aspetti individuo» della personalità); questo fornisce la descrizione della fenomenologia che accompagna l’aggregarsi di diversi singoli in un collettivo e conferisce senso a molti dei comportamenti in tale collettivo considerato come totalità.
Considerando per finire il gruppo come una entità con cui avere a che fare in via autonoma rispetto alla relazione con i singoli membri, e considerando il trainer come un interlocutore, in un ottica fenomenologica esistenziale, dove la relazione e lo scambio fra interlocutori avviene tramite circolo ermeneutico e non tramite elaborazioni digitali tese a condividere una verità oggettiva, risulta che il rapporto fra trainer e entità gruppo si deve configurare come circolo ermeneutico, deve cioè esserci da parte del trainer una comunicazione del proprio vissuto in diretta relazione con questa entità collettiva, e le risposte delle singole persone devono essere considerate la voce del gruppo che si relaziona direttamente con lui.
NOTE:
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