Il percorso della terapia espressiva attraverso il training teatrale

di Francesco Bonsante

Pubblicato sulla rivista “Informazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia” n° 2,  settembre – ottobre 2003, pagg. 10-22, ed. IGF. Roma

 

 

 

Le tecniche del training teatrale come strumento psicoterapeutico, offrono la possibilità di vedere, in scala amplificata e in tempi ravvicinati, le fasi del processo naturale di crescita e guarigione della persona. In questo articolo voglio portare l’attenzione su uno schema di sviluppo del percorso terapeutico ed evolutivo. Un tale schema orientativo dell’attività terapeutica, corrisponde al ciclo gestaltico che ha luogo in ogni situazione di trasformazione e di apprendimento autoregolato dall’individuo sui propri bisogni e sulla loro consapevolezza. In questa lettura della terapia, diventa secondario il fatto che le tecniche teatrali siano tecniche di espressione personale, come lo sono la musica o la pittura, e quindi assimilabili nell’utilizzo alle tecniche di arte-terapia o movimento-terapia. Risulta più importante invece la funzione di collegamento che svolge la dimensione teatrale, come ponte fra le risorse attuali del paziente e le sue potenzialità. Questo processo connettivo, che permette di schiudere schemi limitativi e produrre cambiamenti, è simile anche per le psicoterapie “tradizionali”, che usino sia lo strumento verbale, sia quello psico-corporeo. La prerogativa di una terapia che utilizza l’esperienza espressiva, ed in particolare la drammatizzazione, è che essa interviene attivamente e specificamente sul processo di connessione fra ciò che la persona è e come potrebbe essere. Negli altri approcci terapeutici invece vi si opera indirettamente, lasciando al paziente il compito di sperimentare eventuali cambiamenti all’interno della sua vita quotidiana. Ciò che il paziente compie, nella sua crescita psicologica, è un’operazione, principalmente di recupero di aree rimaste isolate da traumi, deviazioni e distorsioni dello sviluppo della coscienza, e quindi non più segnalate sulla sua mappa psichica. Che il meccanismo di alienazione sia stato più o meno precoce nella strutturazione dell’identità, così da eliminare o meno, dalla memoria, le reminiscenze delle parti alienate, non muta la sostanza del fatto che il paziente guarda alle nuove modalità di essere, come a qualcosa di lontano dalla propria rappresentazione di sé. Perciò questo recupero avviene con le stesse modalità che avrebbe la presa di contatto con una materia estranea. Esso richiede quindi, prima di tutto, una mobilizzazione della coscienza dal punto di fissazione in cui essa in genere è impiantata. Inizialmente questo spostamento si può attuare facilmente entro un raggio di sperimentazione che non metta in crisi la rappresentazione di sé della persona. Dopo di che occorre accedere gradatamente, in base alla consapevolezza delle proprie carenze e necessità, al contatto con il nuovo, saggiarlo, digerirlo, assimilarlo e metabolizzarlo, per usare la metafora della nutrizione. Si effettua così un trasferimento di risorse che si auto-rinforza, portando a un ampliamento dell’esperienza di sé. Questo allargamento, per ognuno, segue strade particolari, corrispondenti alla sua personalità e ai diversi piani in cui la coscienza si sostiene: il concetto di sé, l’immagine di sé (e la sua rappresentazione sociale) e il senso di sé. Suggerisco allora una prima distinzione di campo fra prospettive terapeutiche che propongono attivamente le esperienze di cambiamento e le guidano direttivamente e prospettive terapeutiche che le rimandano a situazioni esterne al setting. Sottolineo il termine “esperienze” di cambiamento, perché questa è la dimensione che caratterizza un preciso tipo di terapie, tra cui è la Gestalt -a cui personalmente faccio riferimento- denominate, appunto, esperienziali. L’esperienza di qualcosa di nuovo, che trova nella sua consapevolezza il suo consolidamento, sta in alternativa allo strumento interpretativo e fornisce solidità alla ristrutturazione cognitiva. Oltre a questa prima distinzione, anche la componente espressiva in terapia richiede una sua distinzione: tra un’espressività che rientra nell’area dell’esperienza e un’espressività che rientra nell’area simbolica. Nel migliore dei casi, o nei momenti più alti, le due aree convergono, ma a volte non è previsto, o non è necessario, che sia così. Nell’attività espressiva simbolica (penso a molte tecniche di arte-terapia), la persona mette in azione un processo di espansione di sé attraverso una proiezione all’esterno di parti lontane dalla rappresentazione di sé. Questa proiezione va poi reintegrata, o con una rielaborazione verbale o con altri strumenti, incluse tecniche dialogiche, che sappiano far rientrare quel momento di “uscita”, nell’esperienza di “essere ciò che il paziente pensa di essere” nella sua vita fuori del setting. L’attività espressiva esperienziale lavora sulla presa di coscienza del vissuto. Essa può essere una fase terapeutica in cui sviluppare materiali simbolici -come nell’elaborazione dei sogni- successiva alla fase simbolica, in termini di “digestione” (scomposizione della proiezione nei suoi elementi) e “assimilazione” (riappropriazione e ricostruzione di tali elementi all’interno del “sé”). Oppure l’attività espressiva esperienziale può essere un momento terapeutico a sé stante, primario, in cui possono essere esplorati direttamente aspetti della personalità diversi -sebbene non antitetici- rispetto alla rappresentazione di sé, aspetti cioè “confinanti”, più prossimi e perciò più accessibili di altri. Con una forte semplificazione distinguerei dunque due funzioni, che di fatto però necessitano l’una dell’altra. Una è la funzione esperienziale e l’altra è quella simbolica. La funzione esperienziale è quella di esplorazione di aspetti accessibili all’identità, un’esplorazione fatta innanzi tutto sul terreno della pratica e della consapevolezza sensoriale ed emozionale, ancora prima che cognitiva. Quella simbolica risulta invece la funzione di catturare, con una perlustrazione “dall’alto”, aspetti accessibili alla coscienza ma non ancora all’identità: un materiale quindi ancora esterno al meccanismo di identificazione, ma proprio per questo più libero nei significati, molteplice e ricco di potenzialità. Uno degli esempi di come queste due funzioni sono distinte e anche integrate fra loro, è nell’uso combinato di visualizzazioni e immaginazioni guidate assieme alla trasposizione teatrale dei contenuti emersi. Ho già analizzato altrove l’importanza basilare dell’elemento simbolico per costruire l’autenticità dell’esperienza teatrale, in quanto legame fra la trasposizione scenica e l’interiorità.1 Quanto più ciò che è drammatizzato in scena è lontano dalla vita ordinaria, tanto maggiore risulta l’influenza della funzione simbolica. La presenza dell’elemento simbolico quindi è costante nella rappresentazione ed è proporzionale alla distanza fra ciò che viene rappresentato e la vita ordinaria. La funzione esperienziale, a sua volta, è necessaria a quella simbolica, anche per un semplice atto estetico, come contemplare un’opera d’arte, affinché questo sia un’esperienza vitale e non un’operazione intellettuale. Così nella drammatizzazione, l’esperienza vissuta dal protagonista nella rappresentazione, riempie di realtà la dimensione simbolica e ne ha bisogno a sua volta come orientamento per calibrare l’estensione dei confini della propria identità. 1 F. Bonsante: “Terapia, teatro e spazio simbolico”, Informazione n°27, 1996, pp. 5-8 La funzione esperienziale, essendo legata strettamente alla facoltà della presenza, in termini di coscienza emozionale, percettiva e cognitiva, segue i princìpi del funzionamento organismico:l’omeostasi individuale e il ciclo gestaltico del contatto. Secondo il principio omeostatico, l’adattamento e le trasformazioni della persona di fronte a nuovi stimoli, hanno bisogno di preservare l’integrità della rappresentazione di sé, soprattutto il “senso di sé”, cioè il riconoscersi nelle proprie facoltà d’integrazione psicofisica (istinto, emozione, desiderio), che consentono la gestione cosciente dei bisogni. La perdita di quest’integrità risulta minacciosa quanto la perdita della propria presenza nel mondo e un simile timore provoca una chiusura “omeostatica” verso tutte le esperienze che sembrano mettere a repentaglio quest’autoriconoscimento. Secondo il principio del ciclo gestaltico del contatto, un movimento evolutivo e trasformativo va avanti per cicli di saturazione. Analogamente a quanto si conosce dell’andamento lungo la scala gerarchica dei bisogni di Maslow, le persone, nel loro sviluppo spontaneo, sono mosse dall’impulso a completare, passo per passo, una determinata esperienza. Aver sperimentato una data condizione in tutta la sua estensione, dà una sensazione di appagamento e, insieme, di padronanza. Per motivi diversi entrambe le cose stimolano la ricerca di qualcosa di diverso, generalmente di segno opposto a ciò che c’era prima. L’appagamento ottenuto rende meno mancante, meno urgente, meno appetibile, e quindi meno gratificante, l’esperienza ripetuta, portando l’interesse a orientarsi verso il nuovo. Una volta percorsa a fondo una certa esperienza, che corrisponde presumibilmente al bisogno più importante al momento, ci accorgiamo che essa non può essere esaustiva ed emergono alla coscienza alti possibili bisogni. Ma anche prescindendo da ipotetiche insoddisfazioni e relativi desideri, per ogni organismo già il prolungarsi o l’accentuarsi di una condizione, fa nascere un semplice bisogno di compensazione che richiama condotte alternative. Così è per il protrarsi di una posizione fisica prolungata nel tempo, o per il protrarsi di una condizione emotiva o relazionale. In questo senso considero già il contatto e il ritiro come due bisogni esistenti in sé, indipendentemente dalla validità e la bontà dell’ “oggetto del contatto”. La padronanza, inoltre, di una situazione che, da principio ignota, poi è esplorata e conosciuta, fornisce all’individuo la sicurezza necessaria per proporsi una nuova sortita, dall’area conosciuta in un nuovo territorio, e per sentire il desiderio di tentarlo. Le persone dunque sono disponibili a cambiare, nella misura in cui giungono a completare ed esaurire le possibilità di una certa fase evolutiva. Cosa però impedisce che una fase venga esaurita, e quindi cosa porta la persona a bloccarsi, per un tempo indeterminato, in un certo genere di esperienza, anche se non gratificante o non più tale? Le ragioni si riconducono a due meccanismi principali: 1) l’ambivalenza generata da un conflitto che paralizza le energie, in una forma riconducibile allo schema: paura/desiderio di andare fino in fondo, e le sue molte varianti. 2) la deresponsabilizzazione che sposta all’esterno, sull’altro e sulla relazione, il potere di “darmi ciò di cui ho bisogno”, che conduce tanto alla fissazione su una situazione di conflitto, o comunque disarmonia, quanto alla ripetizione di esperienze sovrapponibili. La terapia attraverso il teatro interviene direttamente sull’ambivalenza con cui la persona blocca la propria flessibilità; essa risulta tanto più efficace, quanto più segue l’andamento naturale del ciclo in atto. Come dei cerchi concentrici, il ruolo, l’identità e il carattere, definiscono la persona soprattutto nei suoi aspetti sociali e relazionali, spesso fissandola nei suoi aspetti più adattativi anche fino all’irrigidimento. Però anche la tipologia più fossilizzata, mantiene la propria componente di umanità. E sembra strano constatare che essa consiste nel grado di ambivalenza. Vale a dire che una persona risulta ancora “viva”, e non del tutto meccanizzata, non per quanto si avvicina a un ideale di “coerenza”, ma per quanto se ne discosta, per quanto si allontana da una conformazione monolitica. L’umanità delle persone si rifugia nel poter essere contraddittoria, nel non essere ciò che si è spinti a essere e non si vorrebbe. Dimostra cioè, paradossalmente, di non essere un’unità, ma un sistema di parti coesistenti, spesso perfino necessarie le une alle altre. In quanto sistema, anche il carattere rigido ha bisogno di quel minimo di oscillazione che gli permette di compensare, a un altro livello, ciò che non vuole sperimentare completamente. Potrei dire, ciò che “gli consente di respirare”. E anche le cosiddette patologie di vita quotidiana, anomalie così diffuse da sembrare parte della normalità, si spiegano e risultano compatibili, grazie al minimo di oscillazione garantita dall’ambivalenza. In questo modo, per esempio, con un minimo grado di compensazione, la passività, il terrore, la paranoia, la disperazione, diventano possibili, vivibili, possono protrarsi senza troppo danno psichico, per un tempo virtualmente infinito, perché sono vissute solo parzialmente. con una coscienza dimezzata, oppure risultano compensate, a livello fantastico, dall’illusione che “in fondo io non sono davvero così”. Invertendo la tendenza, se la persona accetta, nel lavoro teatrale-terapeutico, di interpretare senza riserve, o di accentuare, esagerare, ciò che essa già fa normalmente, questo solo intervento ha già un impatto importante. A livello di consapevolezza blocca i meccanismi elusivi, anzi costringe l’attenzione su un’esperienza intensificata dalla consapevolezza; mette in evidenza una delle polarità a discapito di quella opposta; accentua il contrasto tra figura e sfondo, fa spiccare quel che abitualmente si tenta di sfumare. Le caratteristiche prevalenti nel carattere e nell’identità vengono isolate, nel personaggio prescritto, e rese così più visibili e tangibili. Secondo i casi, questo primo intervento, nel proporre le stesse modalità che la persona segue abitualmente -solo più enfatizzate e più consapevoli-, può servire per verificare l’effetto emotivo-energetico di una condotta che finalmente non è più trattenuta, inibita o ammortizzata. Può servire perfino a sfidare le temute conseguenze “apocalittiche” della liberazione di un comportamento sintomatico, sempre arginato, rendendolo consapevole, deliberato, non più impotente, né più conseguenza o vittima degli altri. Ad esempìio, all’interno di un gruppo, un partecipante che ha normalmente un ruolo marginale e “inadeguato”, può provare a impersonare un ruolo che gioca e sviluppa volontariamente e consapevolmente proprio in questa parte. “Recitando” il personaggio dell’emarginato, egli può sperimentare le implicazioni, solitamente subìte, come condizioni che ora può modulare e in buona parte gestire. Ciò rende possibile un’esperienza piò serena e lucida, al limite perfino provocatoria e divertente, con una possibilità di consapevolezza alleggerita dalla corolla di ansia che accompagna la stessa esperienza quando è incontrollata. In questa maniera diventa possibile evidenziare aspetti riguardanti sia il vissuto soggettivo, sia le valenze relazionali, nel tipo di rapporto che si instaura con gli altri. Questo caso è l’esempio di come una componente disfunzionale e patogena possa essere irretita e perfino sovvertita, con una logica simile a quella della prescrizione paradossale del sintomo, che tende a riportarlo sotto il controllo volontario del paziente. Una forma molto vicina a questa è la prescrizione, nel ruolo drammatizzato, delle caratteristiche espressive (postura, voce, gestualità, movimenti in genere) che già abitualmente la persona adotta, chiedendole solo di accentuarle sempre più, estremizzandole e ampliando così anche le differenze, gli intervalli, tutta la scala di misura che rende tali modalità espressive più visibili e, per lo stesso protagonista, più percepibili. In questo modo anche i significati simbolici, oltre che le possibilità di consapevolezza, divengono più evidenti. Un’altra possibilità comunque può essere quella in cui proprio l’aspetto ansiogeno -o turbativo in generale- viene affrontato apertamente, spingendosi oltre la misura che normalmente costituisce il limite. È condizione frequente infatti, che alcuni impulsi “rischiosi”, come quello di affermarsi, di ribellarsi, di sedurre, di ritirarsi, di rifiutare ciò che non si vuole -o alcuni sentimenti negativi come l’odio, il furore, la disperazione, il panico, ecc.- vengano stemperati, inibiti fortemente da impulsi fobici verso la vergogna, la colpa, la sconfitta, l’umiliazione, la paura in sé. Ne risulta un comportamento in cui una sotterranea attitudine non si esplica mai completamente, ma resta come tonalità di fondo; senza mai trovare pieno contatto e piena verifica nella realtà, ma anche senza mai cessare di farsi sentire. La proposta terapeutica teatrale consiste nello sbilanciare quest’equilibrio ambiguo e conflittuale, nel quale due impulsi antitetici si frenano reciprocamente in una condizione di tensione. L’ambiente protetto, “non reale”, della simulazione e il pretesto della recitazione, consentono di oltrepassare i limiti dell’inibizione e mettere in movimento il ciclo dell’esperienza fino al suo completamento. Il fattore importante, che rende possibile osare ciò che va oltre il consueto, oltre alla sicurezza del contenimento, è la sensazione del protagonista di poter controllare l’esperienza, di potersi fermare, essere incoraggiato senza essere forzato, e quindi così di responsabilizzarsi anche per caratteristiche di cui normalmente non si sente -né vuol essere- responsabile. In questo “terreno” o “fase” di gioco e sperimentazione intorno al proprio atteggiamento abituale, si può giostrare sui confini che lo delimitano. Nella costruzione del personaggio è possibile raccogliere e coniugare, a livello simbolico, caratteristiche anche non necessariamente possedute dal soggetto, ma che ritraggono, in sommo grado, la quintessenza di ciò che si vuole esprimere. Per fare un esempio, immaginiamo che, per qualcuno, uno dei tratti caratteriali, che si evidenzia come prevalente ma non esplicito né del tutto consapevole, sia la seduttività. Il primo intervento da compiere è quello di esplorare tutte le potenzialità ancora non estrinsecate nella persona rispetto alla seduttività. La proposta è quella di vivere questa parte in modo consapevole, intenzionale, efficace e totalmente preponderante. In un successivo lavoro, se ne possono poi provare anche le diverse modalità di “stile”. Se, nell’esempio, è una donna la protagonista, potrà sperimentare la differente seduttività, diversa dalla sua, che potrebbe avere una dama dell’alta società, una prostituta, una donna di potere, una donna timida o taciturna, ecc. Questo mobilizza i confini dell’esperienza su diversi piani dimensionali, legati a nuove caratteristiche psichiche. Il lavoro del gruppo può essere particolarmente utile in questo tipo d’intervento perché, proponendo differenti versioni dello stesso ruolo, quando diversi partecipanti si cimentano con la stessa parte, ognuno può provare ad accedere, volendo, ai diversi repertori espressivi degli altri, dopo averli visti, o almeno a confrontarli nella pratica con il proprio. Il ciclo di un’esperienza, condotta alla conclusione, produce la distensione che permette e stimola ad aprirsi verso una nuova forma. Di solito una determinata integrazione viene seguita da una configurazione che la compensa, per un principio naturale di armonizzazione. Ma non c’è solo questo. Nell’esplorazione di sé, è prevedibile che configurazioni più esteriori precedano aspetti più intimi, che vengono alla luce solo in fasi successive. Elementi di “eccessiva” violenza o tenerezza -secondo i caratteri- hanno bisogno di tempo per affacciarsi in pubblico. La fase del “viraggio”, in cui cambiano la propensione e la disponibilità verso aspetti nuovi, è una fase delicata e richiede un contatto stretto fra chi conduce il lavoro e i partecipanti, per cogliere il momento in cui la persona è pronta, curiosa e disposta a passare all’esplorazione di un nuovo ruolo, con differenti caratteristiche, e per dare sostegno a questa nuova motivazione. L’uso dell’immaginazione guidata è un possibile strumento integrativo, per portare a definizione nuovi bisogni emergenti. È importante, per il mio modo di vedere, che il conduttore del gruppo sia attento e perspicace verso ciò che può servire come elemento di compensazione, dopo l’esaurimento della prima fase di training, e nello stesso tempo, senza schematismi, sia aperto a ogni possibilità. Le sue proposte per nuovi temi di lavoro, più che da esigenze espressive -o ancor meno drammaturgiche-, verranno dalla sua capacità di osservazione e dalla sua intuizione. Anche promuovere la sensibilizzazione dei partecipanti a trovare e sentire, dentro di sé, le fonti di nuove risorse da sperimentare, è un fattore essenziale per tutti, come mezzo di responsabilizzazione, e in particolare per chi tende a privilegiare la mente e la dimensione del pensiero. In questo senso, predisporre periodicamente degli spazi di esperienze di movimento e lavoro corporeo, in modo che ognuno possa “ascoltare somaticamente” ciò che il proprio organismo richiede in quel momento, prima di ragionare su ciò che serve o è più utile, può essere un buon esercizio di sensibilità. In conclusione, in queste righe ho cercato di sintetizzare il modo in cui il training teatrale può essere rivolto alle necessità psicologiche della persona e al suo beneficio. Le tecniche del training teatrale sono varie e non è in queste il nocciolo della loro efficacia terapeutica, per quanto le differenze di tecnica producano anche differenti effetti. Piuttosto il punto sta nel tener presente il cambio di prospettiva, per cui tecniche nate allo scopo di dare sostanza, “carne e ossa”, ai personaggi, oggi si rivelano utili per la vita fuori dalle scene, perché spesso le persone agiscono chiuse dentro al proprio personaggio, all’identità che hanno costruito di se stesse, carenti o prive del tutto di sostanza. Quanto più numerosi sono i ruoli e i cambiamenti che la società attuale ci richiede, tanto più difficile diventa riempire questi ruoli di sostanza e autenticità. La prospettiva da non dimenticare quindi è quella che serve lavorare, scavare, per portare in superficie, cioè alla coscienza, la “sostanza”, cioè raggiungere la capacità di sentire consapevolmente, di osservarsi senza perdere il sapore dell’esperienza. Lo scopo non è la costruzione di un altro personaggio, ma una flessibilità che non è malleabilità: una flessibilità che è già nel presente, nella rappresentazione e nell’esperienza di sé e, solo molto secondariamente, si riflette nella capacità di adattamento alle trasformazioni esterne.

Please cite this article as: Redazione (2003) Il percorso della terapia espressiva attraverso il training teatrale. Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia. https://rivista.igf-gestalt.it/rivista/il-percorso-della-terapia-espressiva-attraverso-il-training-teatrale/

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