LO “SPAZIO” DEL SILENZIO. ETEROGEITA’ E RITUALITA’ NEL SETTING CLINICO: UN ESEMPIO DI TRANSDISCIPLINARIETA’
di Rosaria Gatta, Maria Concetta Segneri, Petronella Kapenda Musonda, psicologi e psicoterapeuti.
Pubblicato sul numero 24 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.
Abstract
Le autrici hanno riportato l’esperienza di un processo di cura che le ha viste coinvolte per un lungo periodo,scegliendo come stile narrativo la scrittura di una testo teatrale per restituire il carattere eterogeneo e complesso del lavoro clinico in equipe. Intorno ad una trama comune, la richiesta di presa in cura avanzata da N.–persona senegalese richiedente protezione internazionale di 32 anni–le professionalità implicate nel setting clinico hanno raccontato in prima persona, alla stregua di personaggi teatrali, in che modo il loro “sapere” si è espresso nel lavoro comune. Il prodotto polifonico e multidimensionale che ne è risultato è stato considerato l’esito di un laboratorio di scrittura che riflette intorno alle potenzialità degli approcci integrati nell’ambito della salute mentale. In questa esperienza si sono affiancati al clinico due esperti delle dimensioni socio-culturali “agenti” nei setting clinici, la mediazione transculturale e l’antropologia. Il lavoro svolto dall’equipe transdisciplinare è riportato a tre voci con l’ottica di mostrare al lettore il “senso” che ognuna delle professionalità coinvolte attribuisce agli interventi clinici corali socio-culturalmente “sensibili”, tenendo in considerazione le rispettive specificità disciplinari e l’esperienza maturata da ciascun professionista nel Servizio rivolto alle persone richiedenti protezione internazionale dell’INMP. Gli esiti delle interazioni e le “letture” restituite dalle professionalità rappresentano l’oggetto centrale dell’analisi di seguito descritta. La “diversità” disciplinare e socio-culturale è stata assunta in un’ottica dialogica e dialettica. La pluralità delle posizioni adottate dalle singole professionalità nel corso della “cura”, così come la complementarietà e le convergenze dei “punti di vista”, sono riportate coerentemente con quanto avvenuto durante gli incontri clinici, in modo da illustrare al lettore quali siano state le dinamiche all’interno delle quali si è sviluppata e costruita la “pratica clinica” nell’incontro fra“saperi” differenti, non escluso quello della persona richiedente asilo.
Abstract
the authors reported the experience of a care process who saw them involved for a long time, choosing as a narrative style the writing of a theatrical text to restore the heterogeneous and complex character of team clinical work. Around a common plot, the request for taking care of a advanced by N. – person Senegalese applying for 32-year international protection – the skills involved in the clinical setting have told in the first person, like theatrical characters, how their “knowledge” was expressed in the common ivory. The polyphonic and multidimensional product that resulted was considered the outcome of a writing workshop that reflects on the potential of integrated approaches in the field of health mental. The N. this experience yes two experts of the partner dimensions are joined to the clinician – cultural “agents” in the clinical settings, cross-cultural mediation and anthropology. The work done by the transdisciplinary team is reported in three voices with the aim of showing the reader the “sense” that each of the professionals involved assigns partner choral clinical interventions – culturally “sensitive”, taking into account the respective disciplinary specificities and the experience gained by each professional in the Services or for people requesting international protection of the INMP. The outcomes of the interactions and the “readings” returned by the professionalism represent the central object of the analysis described below. Disciplinary and partner “diversity” – cult ural was assumed in a dialogical and dialectical perspective. The plurality of positions adopted by the individual professionalism in the course of the “cure”, as well as the complementarity and convergences of the “points of view”, are reported coherently with here occurred during the clinical meetings, in order to illustrate to the reader which were the dynamics within which the “clinical practice” was developed and built in the meeting between Different “knowledge”, not excluding that of the rich person asylum seeker.
Key Words: richiesta di asilo/tortura/trauma/INMP/violenza collettiva.
Introduzione generale
Le autrici hanno iniziato a scrivere questo articolo ancor prima di averlo deciso in maniera intenzionale, sporcando fogli volanti in serie con considerazioni che non approdavano in luoghi molto lontani rispetto a quello di partenza. Prendere appunti su impressioni, fatti e intuizioni rispondeva a un unico bisogno: fare chiarezza,oppure ordinare le idee. Rispetto a cosa? Che cosa si inseguiva in realtà?Lungo la“strada”della co-costruzione di senso nel percorso terapeutico transdisciplinare si è delineato un nuovo orizzonte che ha spinto a non prendere in considerazione ipotesi deterministiche, ma piuttosto ad assecondare un principio di complessità che inesorabilmente s’insinuava nel lavoro quotidiano. I bisogni nell’ambito del percorso clinico sono stati vari e si sono moltiplicati, diversificandosi e, confluendo, hanno conferito poliedricità al lavoro di cura.La costanza della compresenza e la conseguente crescita d’intesa tra le professionalità hanno orientato il procedere del viaggio a bordo dell’esperienza umana che le autrici vogliono descrivere. Per esperienza umana si intende l’intreccio disordinato e caotico che si genera all’interno e caratterizza ogni relazione interpersonale.Come dice Popper, ciò che di essa più scuote, irrita o commuove intende difendere pur sempre la sua sacralità(2002). È proprio questo il punto nevralgico del presente lavoro: la centralità della relazione d’aiuto nei setting clinici e l’avere “fede”che un cambiamento insieme all’altro sia possibile in virtù dell’istinto conservativo che si oppone all’annientamento creato e inflitto mediante pratiche di tortura. A distanza di tempo, l’equipe ha avvertito l’esigenza di dare voce ai dubbi e agli interrogativi mediante una riflessione gnoseologica e metodologica concernente il lavoro in cui è stata coinvolta per lungo tempo; è emerso il bisogno condiviso di sperimentarsi in un lavoro di scrittura che partisse da un’osservazione empirica dell’operato per poter approdare,solamente in seguito, a considerazioni teoriche. L’idea sottostante è stata quella di teorizzare partendo da quanto sperimentato individualmente, trovando ispirazione nel senso propriamente etimologico della parola “teoria”,che in greco significa “visione” o “sguardo d’insieme”(3). Sperimentarsi in questo progetto di scrittura ha voluto dire dar vita e coerenza agli appunti, alle annotazioni personali e alle riflessioni che ogni professionalità ha raccolto lungo il cammino insieme.L’equipe si è incontrata con costanza allo scopo di dare forma ad uno scritto che assolvesse il compito di enfatizzare la coralità del gruppo e contemporaneamente preservasse i distinti “saperi” e “punti di vista”: clinico e antropologico (Agier, 2011). Da un punto di vista clinico si è tentato di descrivere lo stato psichico della persona non limitandosi ad un processo di implementazione oppure ad una nosografia; si è evitato di effettuare uno studio che associasse i singoli sintomi per dedurre quadri clinici oggettivabili, ma piuttosto di evidenziare aspetti della persona nella sua complessità e singolarità senza “racchiuderla” in schematizzazioni o griglie interpretative. Il quadro teorico che ha fatto da cornice al lavoro mutua i suoi principi da posizioni filosofiche di natura fenomenologica-esistenziale (4) per confluire nella psicologia e psichiatria esistenziale (5), che hanno criticato le pretese egemonizzanti del positivismo nell’intenzione di riportare in primo piano la complessità dell’essere umano. E’ stato rilevante impegnarsi a comprendere l’ “altro”partendo dal suo mondo e considerando il suo vissuto all’interno del suo mondo senza addentrarsi in considerazioni causali. Ancor più, nel delicato confronto con l’universo dell’asilo–con persone che fuggono dal proprio passato, da contesti di persecuzione individuale e collettiva, da lotte di governo che negano ogni forma di cittadinanza (Ong, 2005)–come nell’esperienza che le autrici riportano, è fondamentale abbattere logiche universalizzanti. Altre sì, l’intervento clinico correrebbe rischio di essere un’ennesima esperienza di negazione della persona così come essa stessa si percepisce e si costruisce. Il lavoro che segue riparte dalle soggettività, dai racconti,dalle verità narrative e poco oggettivabili per permettere a nuovi mondi di esistere, quanto meno attraverso le esistenze individuali.
1. LA PRESA IN CARICO
1.1. Introduzione
P.: N. si è rivolto al Servizio transdisciplinare dedicato alle persone che inoltrano istanza di protezione internazionale dell’INMP nel novembre 2011. Giunse in Istituto su suggerimento di un connazionale conosciuto qualche giorno prima nei pressi della Stazione Termini, luogo ove ha vissuto per circa due mesi prima di presentare l’istanza di asilo presso gli uffici della Questura di Roma.Come fin troppo spesso accade, molte persone sperimentano un’estrema difficoltà nel formalizzare la richiesta d’asilo,in primi sa di accedere alla procedura e successivamente nel trovare una vera e propria accoglienza, nonostante la legge preveda la cosiddetta accoglienza integrata (assistenza legale, alloggiativa e sociale)(6). N. da un paio di mesi viveva per strada,consumando al massimo un pasto al giorno. Diviene, pertanto, essenziale avviare un intervento di tipo psico-sociale dal momento che un supporto psicologico in senso specifico diviene vano quando la persona versa in uno stato di deprivazione di bisogni fondamentali o fisiologici (Maslow, 1971). L’equipe si è prontamente rivolta alla rete di accoglienza per richiedenti asilo del “Programma Integra–Comune di Roma”7, per la ricerca urgente di una casa d’accoglienza, nella fattispecie per “categorie vulnerabili”.
1.2. Analisi della domanda, bisogni e primo contatto con l’equipe
P.: In un fase iniziale N. mostrava scarsa consapevolezza del suo “essere”in quel “luogo”.Ciononostante,il bisogno di ricevere cure psico-fisiche adeguate e un sostegno a tutto tondo (medico, psicologico, legale e socio-abitativo), verosimilmente lo spingevano a presentarsi in maniera costante e puntuale a ogni appuntamento,talvolta arrivando perfino con ampio anticipo. N. lamentava enorme difficoltà ad addormentarsi e a mantenere il sonno per più di un’ora. A tal proposito ricordo i colpi di sonno sulle panchine della sala d’attesa dell’Istituto–N. veniva poi svegliato poco prima degli incontri. Soprattutto nel primo periodo, lo stato psico-fisico di N.destava seria preoccupazione. Infatti, dopo uno dei primi colloqui psicologici agli inizi di dicembre 2011, ha allucinato un dialogo a voce alta con l’immaginifica figura materna defunta. Fuori dalla mia stanza, ricordo di averlo visto gesticolare e parlare rabbiosamente in lingua wolof, camminando su e giù per il corridoio dell’Istituto, e scrutando di tanto in tanto la parete antistante la porta d’uscita come se vi fosse una persona lì, ferma ad ascoltarlo. Ho prontamente richiesto un videat psichiatrico per una ulteriore valutazione.Durante i primi incontri gli ponevo domande legate alla sua vita presente e lui rispondeva con un telegrafico non lo so più o meno a qualsiasi domanda. Era costantemente assorto tanto da non conoscere nemmeno i percorsi obbligati che quasi tutte le persone richiedenti asilo conoscono a Roma (mense, luoghi di aggregazione o di preghiera,ecc.). In un’occasione provai a chiedergli i nostri nomi, e come immaginabile, non li conosceva. La sua risposta precisa fu prosaica ed eludeva ogni forma di responsabilità:Non me li avete mai detti.Appariva estremamente disinteressato al mondo esterno,sembrava vivere da solo nel suo isolamento.Estremamente sintetico nella comunicazione e avaro di qualunque tipo di investimento energetico verso l’altro/ao verso l’esterno più in generale. Eppure l’intuito mi suggeriva che N. fosse sempre stato riservato, chiuso e“rintanato” in se stesso. Sicuramente gli eventi traumatici avevano acuito la sua chiusura, ma immaginavo che caratterialmente egli nutrisse un’attitudine naturale alla solitudine.M.: N.è giunto la prima volta in Istituto accompagnato da un suo connazionale, sperando di trovare soluzione al suo problema–quello che chiedono molte persone richiedenti protezione internazionale. Attraverso la mediazione linguistico-culturale ho potuto intuire che il percorso con N. si sarebbe protratto a lungo.La sua estrema riservatezza lo rendeva poco collaborativo nel setting clinico e la mia preoccupazione è stata quella di cercare di prendermi cura di lui in toto, soprattutto nella fase iniziale, tralasciando il “bisogno” che lo aveva condotto lì: un aiuto in prospettiva dell’istanza di protezione internazionale. Il mio tentativo, all’inizio, è stato quello di fargli capire che eravamo lì per aiutarlo. Quando è giunto da noi era vestito con indumenti non adeguati alla stagione: indossava abiti molto leggeri,le uniche cose che gli erano rimaste dopo il furto della sua valigia. A Roma iniziava la stagione autunnale e dunque fuori era freddo. Ci attivammo per cercare l’abbigliamento invernale nel vestiario disponibile in Istituto. Il Servizio del vestiario rappresenta un’attività molto importante per tante persone che si trovano in stato di bisogno, considerando che il nostro Istituto, a partire dal suo nome, fa ben intendere la sua mission: dare dignità a persone estremamente vulnerabili.La valigia per N. non rappresentava soltanto un oggetto tout court, ma racchiudeva in sé ricordi, oggetti di grande valore simbolico e affettivo. Al suo interno vi era l’abito tradizionale, usato per la celebrazione del rito funebre della sua famiglia e altri oggetti di valore e significato che rappresentavano il modo più vivido per avere la casa vicina in qualsiasi momento. Dico ciò per sottolineare quanto un oggetto sia anche un simbolo, possa cioè creare una rete di interrelazioni che lega l’essere umano al suo cosmo di appartenenza, mediante cui l’individuo è in grado di riconoscersi e riconnettersi alle suo mondo, individuarne i legami, ed essere così un “corpo culturale”(Combi, 2000). Il furto della valigia aveva causato un dolore ancora più forte dal momento che il “contenuto”racchiudeva simbolicamente per N. il nucleo affettivo.Il mio contributo in qualità di mediatrice all’interno del setting clinico, oltre alla mediazione transculturale, è anche quello di fornire informazione e orientamento sociosanitario, spiegando alla persona quali sono i propri diritti come richiedente protezione internazionale. Il punto fondamentale del mio lavoro consiste nel facilitare il dialogo tra i soggetti coinvolti nella seduta per esempio tra la psicologa e il paziente, nell’avviare un percorso“insieme”. Ho cercato di dare a N. gli strumenti utili per “orientarsi nel nuovo mondo”, malgrado le difficoltà oggettive. L’equipe, nel complesso, ha assunto come atteggiamento di fondo la promozione dell’autonomia,elemento molto importante per nutrire l’autostima. A volte, chi lavora nel mio settore commette l’errore di cadere nel puro assistenzialismo verso le persone che chiedono aiuto, cosa grave, dal mio punto di vista. In questi casi infatti con il passare del tempo, si posso creare situazioni di interdipendenza molto difficili da gestire. Si corre il rischio di innescare comportamenti iper-protettivi verso persone nell’errata convinzione che non possano vivere senza l’aiuto dell’operatore, dimenticando che hanno spesso affrontato viaggi simili a odissee, durante i quali hanno dato prova di molto coraggio, come spesso raccontano. Basti pensare all’attraversamento di mari e deserti con mezzi di fortuna. Nel nostro caso l’equipe è stata molto attenta, orientando e supportando la persona nell’affrontare il cambiamento a piccoli passi: fin dall’inizio abbiamo dato fiducia a N., pensando che ce l’avrebbe fatta muovendosi lentamente in modo autonomo.In tale senso, si prova ad affrontare insieme alle persone gli ostacoli imposti dal tessuto sociale e semplificarli affinché loro possano superarli. Spesso provvediamo noi operatori a contattare la rete territoriale per far fronte a diverse esigenze quali: l’iscrizione al SSN (tappa obbligatoria per i richiedenti protezione internazionale), l’eventuale esenzione del ticket per il reddito, il percorso sanitario effettuato sia all’interno che all’esterno dell’Istituto. Ogni volta facciamo attenzione a ciò che la persona può fare da sola, lasciando che sia lei a farlo.Molte persone, provenienti da “altre” culture, hanno un concetto di malattia e di salute diverso rispetto alla “cultura occidentale”. Nel caso di N., il mio compito è stato proprio quello di porre particolare attenzione su tale aspetto, raccontandogli passo dopo passo ciò che stava facendo durante le visite mediche e anche il perché, il senso di tanti controlli sanitari. La medicina tradizionale del paese di N. ha un approccio terapeutico differente, prende in considerazione due modalità che si intersecano ma non si sovrappongono: i guaritori, da una parte, usano “rimedi empirici” ampiamente testati da una tradizione millenaria a base di erbe, parti di animali o altro, dall’altra, mettono in atto “pratiche simboliche”. In Senegal si pensa che la persona sia considerata in un continuum osmotico con il cosmo, con la natura, con i defunti, con gli spiriti, con i demoni e con gli dèi (Gatto, Tocchi, 2003). La malattia che non guarisce si pensa sia provocata da disordini dell’anima, da colpe e peccati, da infrazioni a tabu. Tra i bantù della Repubblica Democratica del Congo, per esempio, i malati psichiatrici vengono affidati ai guaritori tradizionali e vengono somministrate terapie simboliche con canti e danze che vengono realizzate alla presenza dell’intero clan, cercando così di creare equilibrio tra il malato e il clan.Tornando a N., mi è sembrato importante durante i nostri incontri suscitare in lui qualche interesse che potesse dare senso al suo tempo. Un giorno, ho cercato di capire se gli piacesse la lettura. Dopo varie indagini ho deciso di portargli dei libri da leggere. In un’altra occasione, gli ho indicato i punti di ritrovo di molti richiedenti asilo,suggerendogli di frequentare corsi di lingua italiana per sentirsi più sicuro nel muoversi autonomamente.
P:A distanza di tempo ritengo che la sequela di visite mediche richieste da N. dipendesse da un lato, da malesseri effettivamente avvertiti, ma dall’altro servisse a rivendicare un bisogno di “presenza”, capace di contrapporsi al manto di invisibilità che spesso avvolge chi fugge da contesti di violenza (Sironi, 2010). Sovente chi emigra in maniera forzata, lasciandosi alle spalle l’orrore e la violenza da cui fugge, una volta giunto in un nuovo “dove” si sente intrappolato in una temporalità liminare, sospesa,in un non più e un non ancora(D’Orsi, 1993). Tale stato ha il potere di ingabbiare le persone in un presente immobilizzante, di congelare quanto vissuto e al contempo di negare ogni anelito di futuro. È come se dopo l’evento traumatico prevalesse un istinto auto protezionista (o forse un senso di rifiuto, chissà!) in grado di imporre una distanza da tutto e da tutti, da ogni aspetto della realtà circostante. Avvertivo l’atteggiamento distaccato e a tratti rarefatto nell’incontro fra N. e il mondo e ricordo di aver provato profondo rispetto per questa sua modalità esistenziale. Ciononostante, egli esprimeva il bisogno di raccontare ciò che aveva vissuto. Da cui era dovuto scappare.Abbiamo così iniziato a lavorare insieme per l’espressione del dolore che custodiva dentro di sé e che talvolta diveniva visibile, come un guado lungo il letto di un fiume.
1.4. Una seduta importante
P:Era trascorso circa un mese e mezzo da quando avevamo iniziato i nostri incontri, eravamo intorno agli inizi di gennaio 2012. La seduta si è aperta con una mia domanda: Come stai oggi, proprio in questo momento?N. ha espresso uno stato di malessere in riferimento alla sua vita presente a Roma. Allora ho deciso di cogliere la sua fugace spinta comunicativa per chiedergli di raccontarci come si era svolta la sua vita in Senegal prima che fossero sorti i problemi con i ribelli.Ho chiesto:Cosa facevi lì che ora non fai? Per esempio raccontami una giornata tipo, che facevi il lunedì o il martedì a D.?Per due ragioni ho fatto questa domanda: 1. perché immaginavo che ricontattare l’immagine di sé piena di risorse nel “lì e allora”avrebbe potuto essere una buona fonte da cui attingere nel “qui ed ora”;2.perché avevo bisogno di immaginare la sua vita prima della fuga, di contestualizzarlo in qualche luogo e in una cornice temporale. Lo percepivo così sradicato che era molto difficile per me definire piste e traiettorie propedeutiche alla creazione del progetto terapeutico vero e proprio (Quattrini, 2012). Ho visto che mostrava estremo interesse e gratificazione per la mia domanda e mi era parso un buon modo per iniziare la co-costruzione di una narrazione. Gli mancava la casa e parlare del suo passato lo faceva sentire a casa. Pareva camminare su un terreno conosciuto e così in maniera un po’ più fluida ha iniziato a raccontare:Io lavoravo tutto il giorno nell’officina fino alle 5/6. Dopo il lavoro incontravo spesso tre amici, che conoscevo sin da quando ero bambino. Vivevano nella stessa strada ove vivevo io con mia madre e mio padre. Li incontravo quasi tutti i pomeriggi prima dell’ora di cena. Mentre mia madre cucinava, prima che mio padre rientrasse da lavoro, io rimanevo fuori nella stradina con loro. Si discuteva, si parlava del lavoro, del più e del meno. Ad un certo punto verso le (7), quando iniziava a diventare buio mia madre mi chiamava, io rientravo a casa. Le davo i miei vestiti sporchi, dopo una giornata di lavoro in officina, e lei mi restituiva roba pulita per l’indomani. Cenavamo insieme e io andavo a letto(dai contrappunti clinici scritti su cartella clinica da R. Gatta nel corso della seduta tenuta nel gennaio del 2012).Dal suo racconto emergevano due aspetti fondamentali: in primo luogo ch’egli non pareva affatto turbato dall’esigua rete sociale di cui si componeva la sua vita in Senegal, confermando così l’ipotesi dell’uomo solitario che avevo sospettato fosse; in secondo luogo appariva centrale la relazione con la madre, era proprio con la figura materna che aveva allucinato un discorso nei corridoi dell’Istituto. Allora ho deciso di rimandargli la sensazione di sussulto che avvertivo ogniqualvolta nominava sua madre.Dopo la mia domanda è seguito in lui un momento di silenzio. Si è avvertito un vuoto che potremmo definire fertile (Perls, Hefferline, Goodman1951)8. Seguì il silenzio. Gli ho chiesto:Che ti sta succedendo in questo momento?Seguì ancora silenzio, col capo chinato verso il basso, non riuscivo a vedergli il volto. Un silenzio che assumeva le fattezze di un enorme buco nero colmo di tristezza e di dolore, cui egli si opponeva con tutto se stesso per non far straripare “conati”di emotività. Ricordo che quel silenzio mi provocava un sussulto all’altezza della pancia, un sussulto che mi faceva contattare un miscuglio di paura e eccitazione perché qualcosa era in movimento. Dopo ancora qualche minuto di silenzio un’intuizione mi allontanava dall’ipotesi formulata in fase di apertura della seduta, cioè dal lavoro sul recupero delle risorse nel passato. Avvertivo il bisogno di restare in contatto con quel che c’era, non volevo andare oltre. Oltre cosa? Oltre un macigno che bloccava il fluire della vita di N.in quel momento. Transferalmente sentivo un blocco riconducibile ad un’intuizione che sarebbe sopraggiunta solo successivamente. Tale intuizione nasceva dall’esperienza maturata con molte persone sopravvissute alla morte che per fuggire non riescono a salutare i propri cari e vivono con il senso di colpa per essere sopravvissute e con il dolore per non averli potuti salutare. Sayad a tal proposito afferma quanto segue: Basta che capiti un incidente di percorso, una leggera deviazione nei comportamenti, perché emerga il senso di colpa, del peccato originario consustanziale all’atto di emigrare. Colpa, colpevolizzazione e auto colpevolizzazione(Sayad, 2002, p.187).Gli rimando la mia fantasia: Hola sensazione che tu senta un senso di colpa per essere fuggito e per non aver potuto impedire ciò che è accaduto alla tua famiglia, può essere?Ha annuito col viso e poi ha dichiarato di sentirsi estremamente triste; ha iniziato a piangere, è scoppiato in un pianto inconsolabile che mi è sembrato a poco a poco sciogliesse e portasse via le tensioni muscolari del suo viso. L’immagine che ricordo è quella di una scroscio d’acqua che rompe gli argini che ne bloccano il decorso ed esce fuori dal suo letto irrompendo liberamente.Quando ha accompagnato al pianto la parola, N. ha riferito di avvertire un logorante senso di colpa per aver assistito impotente mente alla morte dei suoi genitori e di suo fratello minore, senza aver tentato di difenderli. Rimpiangeva, inoltre, l’essere fuggito senza aver potuto seppellire i corpi dei suoi familiari. Ha continuato a raccontare che ogni giorno rivedeva vividamente l’immagine della madre con il corpo esanime e il cranio sanguinante: i ribelli l’avevano colpita con un proiettile in testa. E’ sembrato che N. presenti ficasse un dolore che rappresentava una gestalt evidentemente aperta.Il lavoro clinico ad orientamento fenomenologico che perseguo propone un processo di andirivieni tra due importanti polarità: il passato ed il futuro attraversando il “qui” ed “ora”.Tale aspetto assume un’importanza fondamentale per persone che fuggono dal proprio passato. Pertanto il lavoro di narrazione mediante ricordo diventa estremamente interessante se viene rievocato e rivissuto nella misura in cui ciò che emerge non è il passato stesso ma come esso è visto, sentito, esperito nel presente per poter operare su di esso(Merleau-Ponty,2003).Da quel momento il progetto terapeutico si è orientato verso un processo di elaborazione del lutto e verso l’esplicitazione della sofferenza in vista di una possibile accettazione degli accadimenti ineluttabili. Il senso di colpa ha bisogno del perdono da parte di noi stessi verso noi stessi. A tal proposito gli chiedo di immaginare cosa avrebbe potuto fare di diverso rispetto a quello che aveva effettivamente fatto lì in quella specifica situazione con i ribelli armati. Lui ha risposto:NULLA! Lo ha detto con rabbia per poi aggiungere: Avrei voluto salutare la mia famiglia, seppellirla. Non so neanche dove sono i loro corpi.E’ seguito ancora silenzio. A questo punto della seduta è successo qualcosa, N. aveva espresso un desiderio: salutare per sempre la famiglia. Allora gli ho detto:Scegli una persona della tua famiglia che vorresti salutare, scegline una in particolare, possiamo provare a salutarla ora.E lui prontamente mi ha risposto:Mia madre. Lei era buona con me.Gli ho disposto una sedia davanti e gli ho proposto di immaginare sua madre lì seduta proprio su quella sedia (9). Gli ho proposto un’esperienza guidata e lui si è affidato. Gli ho chiesto di socchiudere gli occhi per entrare più facilmente in contatto con quel momento, se la cosa avesse potuto agevolargli l’esperienza. Lui ha deciso di non chiudere gli occhi, è rimasto in silenzio a lungo,fermo e immobile a fissare la sedia. Gli ho detto a questo punto:Cosa le vorresti dire in questo momento? E lui dopo ancora qualche secondo di silenzio ha iniziato a parlare: Le voglio dire che …–e io gli ho detto di non dirlo a me ma di rivolgersi proprio a sua madre lì di fronte. E lui: Ti voglio dire che ti voglio bene!Dopo qualche minuto di silenzio,ha aggiunto:Che i ribelli sono persone orribili, che hanno distrutto la nostra famiglia! Che mi manchi!Ha iniziato a piangere.Gli ho messo una mano sulla schiena in segno di presenza, ho sentito il bisogno di avvicinarmi a lui con il mio corpo per ridurre la distanza tra me e lui. Gli ho chiesto:Come stai adesso, dopo averle detto quello le hai detto, va un po’meglio o un po’ peggio?E lui mi ha detto che si sentiva sempre molto triste ma un po’ meglio–si era espresso nello spazio transizionale della seduta, l’espressione fa esistere mondi e in questo interstizio s’insinua il seme della trasformabilità per la persona(Quattrini, 2011).Gli ho chiesto di ricordare qualche insegnamento presente in lui, qualcosa che lui avesse imparato da lei e che tuttora continuava a vivere nella sua memoria. Dopo un po’ mi ha detto che gli veniva in mente l’immagine di sua madre mentre cucinava il suo piatto preferito denominato soupe kandia .Lui non sapeva cucinarlo però aveva visto sua madre prepararlo molte volte per lui.Non aveva risposto esattamente alla mia domanda, ma non era importante nella co-costruzione di senso di quel momento. Mi sono resa conto che mentre io mi riferivo ad un piano valoriale, simbolico e astratto, N. invece mi aveva presentato un’immagine concreta: un piatto, una pietanza che rievocava un aspetto piacevole della sua storia importante. Dopo averlo menzionato, N. ci ha descritto sinteticamente la composizione di questo piatto per lui estremamente gustoso e abbiamo concluso l’incontro per quel giorno.Ora che l’aveva sepolta in modo immaginifico, la madre di N. poteva continuare a vivere nella sua memoria, attraverso la descrizione della ricetta o attraverso altri insegnamenti che lei gli aveva lasciato in eredità, ma anche attraverso il dolore per la sua perdita,diventato da quel momento esprimibile, condivisibile.Ritengo sia essenziale operare una ricostruzione insieme all’altro per opporsi all’ideologia dell’annientamento insita nelle pratiche di tortura, di cui parlava Basaglia (2005). La linea di colore della violenza intenzionale si esprime nella disumanizzazione dell’altro, nello smembramento del suo corpo, oppure nell’impossibilità di compiere il seppellimento rituale dei morti come modalità di produrre certezza sui confini tra i due gruppi. Ogni logica deve essere spazzata via, in modo tale da produrre un terrore esperibile solo al di fuori di qualsiasi ordinaria esperienza: nessuna possibilità di ricostruire un possibile senso deve essere lasciato alle vittime in modo tale da assicurare un “successo traumatico” molto più longevo della durata delle pratiche stesse (Mei, 2012). È per questo che gli elementi antropogeni e intenzionali sono quelli più devastanti nelle pratiche di tortura, perché sono eventi intersoggettivi nei quali la violenza è prodotta da un uomo su un altro uomo, ed è prodotta intenzionalmente (Sironi, 2010). Questo aspetto, che può sembrare assodato, è in realtà un elemento particolarmente importante per capire quanto il trauma possa essere profondo e reiterato nel tempo: il fatto che il dolore sia stato inflitto deliberatamente da un altro uomo rende la tortura un’esperienza-frattura, un vissuto che eccede la capacità di rappresentare, narrare, restituire ad un senso condiviso. Eccede perché la capacità di rappresentare e comprendere il significato di un evento al quale si partecipa dipende dalla posizione di soggetto all’interno dell’evento, mentre nella tortura è proprio questa posizione che si viene a perdere, nel momento in cui si è ridotto ad oggetto, a corpo, a nuda vita nelle mani dell’altro avente il potere di “lasciar morire o far vivere”(Foucault, 1985).Quando N. è usci todalla stanza ho sentito molta stanchezza ma anche più leggerezza.Sembrava che N. avesse fatto un passettino oltre quel macigno.E noi l’avevamo accompagnato….(dai contrappunti clinici scritti sulla cartella clinica da R. Gatta nel corso della seduta tenuta nel gennaio del 2012).Quella seduta, estremamente intensa, durata più di un’ora ha segnato uno spartiacque per lo sviluppo della nostra futura relazione terapeutica. Nelle sedute successive,per esempio ogniqualvolta N. rispondeva con uno dei suoi non lo so alle mie domande, io gli dicevo:Immagina, prova ad immaginare se ti piace di più o di meno della soupe kandia? Peresempio è meglio o è peggio della soupe kandia?E lui cogliendo questo spunto rispondeva in base alla questione del momento. Avevamo trovato un’unità di misura nella scala piacevole vs spiacevole/gradevole vs sgradevole. Talelinguaggio usato come bussola del “mi piace” o “non mi piace” attivava un canale più analogico e ci faceva spostare da piano digitale cui N. era molto affezionato. Iniziava ad esprimere il proprio gusto sulla realtà circostante e di conseguenza emergeva la responsabilità di aver operato delle scelte–quando parlo di responsabilità mi riferisco anche al senso etimologico della parola responsabilità: intesa proprio come “abilità a rispondere”. L’obiettivo principale di una terapia a carattere esistenziale consiste nell’aiutare la persona ad aiutarsi mediante la capacità di poter scegliere consapevolmente nel mondo, nucleo specifico dell’essere umano(Schopenhauer, 1981).
A: Uno dei lavori realizzate nel corso del percorso di psicoterapia avviato con N. è stata la rinarrazione degli eventi alla base della sua migrazione forzata in visione sia del rilascio di una certificazione sanitaria a supporto di questa esperienza biografica, che della preparazione di N. all’audizione con la Commissione Territoriale che avrebbe valutato la sua istanza di protezione internazionale. In questa fase è entrata stabilmente nel setting la mia figura professionale. Sovente le persone che lasciano il loro paese in seguito a conflitti, instabilità politico-sociali,discriminazioni, persecuzioni, ostracismi e tortura presentano conseguenze, cliniche e non, facilmente riconducibili a quanto visto, udito, assistito e subito prima di lasciare il proprio paese (Fazel, Wheeler, Danesh,2005; Bischoff, Schneider, Denhaerynck, Battegay, 2009). Inoltre, queste persone, volendo allontanarsi il più possibile dal loro paese, attraversano svariati stati, immettendosi in quel flusso di migrazione illegale i cui meccanismi di produzione/riproduzione le portano facilmente a vivere episodi di privazioni, soprusi,sfruttamento lavorativo, vessazioni, ricatti e violenze per mano di svariati agenti, tali che, qualora esse non avessero vissuto direttamente nel proprio paese esperienze traumatiche, hanno buone probabilità di incorrervi durante il loro viaggio migratorio (Fazel, Stein, 2002; Gushula, MacPherson, 2000). Per tale ragione, la migrazione forzata è considerata un’esperienza biografica talmente forte da non poter che lasciare dei segni sul corpo, sulla mente e nell’animo di coloro che l’hanno vissuta (Sayad, 2002; Benedice, 2010; Sironi,2010; Baez,2011). Il rilascio della certificazione sanitaria, di cui si parla, è pensata dal Servizio dell’INMP rivolto alle persone richiedenti protezione internazionale nell’ottica di restituire alla persona che la richiede, l’ “evidenza scientifica” di connessioni possibili tra quanto ella abbia riferito sull’esperienza migratoria forzata e quanto i clinici (medici e psicologi) siano stati in grado di rilevate nel corso delle loro indagini e percorsi psicodiagnostici. In tal senso,l’inclusione nei setting clinici delle discipline della mediazione transculturale e dell’antropologia è pensata per accrescere esponenzialmente la capacità analitica degli strumenti clinici nell’individuazione dei possibili malesseri in campo. In merito alla normativa che regolamenta il riconoscimento di una forma di protezione internazionale(status di rifugiato, protezione sussidiaria e umanitaria) non vi è alcuna evidenza che sottolinei l’imprescindibilità della certificazione sanitaria per la valutazione dell’istanza di asilo presentata dalla persona,poiché la veridicità del resoconto riferito nel corso dell’audizione deve essere appurata mediante analisi e ricerche approfondite relativamente al contesto di origine della persona, nello specifico, dove e quando sono avvenuti gli eventi narrati(Good, 2004; Fassin, 2005; Ticktin, 2011). Tuttavia, svariate realtà europee testimoniano il peso giocato dalla certificazione sanitaria nella valutazione delle istanze presentate (Jones, Smith, 2004; Meffert, Musalo, McNiel,Binder,2010; Freedom form Torture, 2011); status quo che solleva non poche critiche da parte di enti,associazioni e studiosi impegnati, a vario titolo, nel settore (Lanzoni, 2005; Alison, 2008; Griffiths, 2012;Larchanché, 2012; Aut aut, 2013). Una delle letture che questo pensiero critico restituisce sull’uso della certificazione sanitaria presso le sedi di valutazione delle istanze di protezione internazionale consiste nel riconoscergli un ruolo strumentale nelle politiche di accesso agli stati a cui si chiede protezione, a ragione di normative nazionali che hanno conosciuto nell’ultimo decennio un processo di irrigidimento e di chiusura nei confronti della migrazione che accede ai territori nazionali per mezzo di canali illegali. Tale certificazione rivestirebbe il ruolo di “sbarramento” nell’accesso all’asilo antecedente l’audizione stessa presso le sedi di valutazione, a ragione di una veridicità “tangibile” del vissuto migratorio dovuta ai segni/sintomi psico-fisici rilevati dai clinici sulla persona e riferiti nella certificazione (McNeill, 2003; Türk, 2003; Lindstrøm, 2005; Cole,2007; Aut aut, 2012).2.2. Peculiarità ed esiti nel lavoro dell’equipe finalizzato alla produzione della certificazione psico-antropologica.P:Scrivendo ciò che scrivo non posso non esprimere il dibattito controverso e aperto rispetto a ciò che evochiamo ogni giorno attraverso la relazione con i migranti forzati. Il rischio inevitabile cui va incontro il clinico munito di “parametri occidentali” è quello di schiacciare la persona tra le categorie psicopatologiche di “trauma”o di “stress”, rendendo le persone ulteriormente vittime. È essenziale, dal mio punto di vista, che il clinico metta in discussione le categorie diagnostiche, mediche e psicologiche, che spesso mediano il rapporto con i richiedenti asilo in onore del superamento della relazione antitetica operatore sanitario/persona vittima di violenza intenzionale a favore di un rapporto paritario e umano tra due “soggetti”(Beneduce, 2003)10. Gran parte del problema risiede nel fatto che la certificazione si basa su criteri diagnostici occidentali, inneggianti un principio di standardizzazione che osteggia ogni declinazione fenomenologica. Peraltro, la categorizzazione diagnostica in taluni casi s’imbatte in un paradosso: da un lato, insegue il rigore causale del DSM11, dall’altro tale nosografia risulta inadeguata metodologicamente con persone provenienti da contesti in cui il terrore e la violenza sono vissuti in modo molto più quotidiano e pervasivo che in Occidente.L’idea dai tratti “cospirazionisti” che serbo è piuttosto la seguente: il Post Traumatic Stress Disorder (PTSD)sembra assolvere il compito di “anestetizzante” politico producendo una decontestualizzazione e una spersonalizzazione che dipingono la persona in veste universale. Tale “universalismo destoricizzante” (Malkki,1995), ancora una volta, non rende giustizia alla complessità di cui è intriso il mondo dell’asilo. A favore di tale stratificazione politica, posso affermare in base alla mia esperienza che ogni incontro con le persone mi invita ad abbandonare le adulazioni dell’assoluto. Infatti, ogni incontro è unico, pone continui interrogativi, costringe ad evitare ogni tentativo di reificazione di conoscenza obiettiva della realtà. Capita spesso che nelle narrazioni e nei racconti di persone richiedenti asilo appaiano città, deserti, snodi territoriali, itinerari di viaggio, brandelli di memoria che con parole connotano realtà geografiche sconosciute, lotte di sopravvivenza e di disperazione. Le percezioni che emergono dai racconti potrebbero da sole creare nuove mappe del mondo con diversi confini spaziali, intrisi di effetti sospensivi, temporalità decontestualizzate e calendari paralleli ove il tempo a tratti s iannulla. Le verità che ascolto, come nel caso esposto, sono verità che talvolta rappresentano un ricordo annebbiato che, con tutta probabilità, vacilleranno dal punto di vista storico ma che puntualmente risponderanno al bisogno di ricostruzione di un mondo perduto senza alcun contatto con il presente se non nel confine della memoria stessa.La narrazione che noi supportiamo in questo lavoro non vuole cedere alle lusinghe di ordine legale, bensì antepone a queste il bisogno puramente individuale di esserci, di esistere attraverso la stessa narrazione. Pur considerando le esigenze degli avvocati che si dimenano tra i Tribunali e le Commissioni con cui collaboriamo, spesso mi rendo conto che, durante la raccolta della memoria traumatica, la ricerca della verità supportata da prove oggettive perde di valore.Essa cede il posto ad una verità altamente soggettiva, narrativa,per lo più destoricizzata. Il ribaltamento dall’oggettivo al soggettivo pone enfasi sugli effetti suscitati in ogni singolo individuo che decide di raccontarsi. Tale mancanza di omogeneità nelle testimonianze fa crollare l’assoggettamento al potere e mette in discussione l’impianto e l’ordine politico delle nazioni. Ogni narrazione soggettiva toglie il “velo di maya” che camuffa innumerevoli contraddizioni politiche, culturali ed economiche. I mondi di partenza si legano ancor di più a quelli di arrivo. Come afferma Malkki: i rifugiati sono non a caso percepiti come persone che possono far sanguinare o indebolire i confini nazionali e al tempo stesso rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale»(Malkki 1995, pp. 7-8).2.3. Considerazioni dei membri dell’equipe A.:La narrazione di N. relativamente alle ragioni della sua migrazione forzata è stata puntuale e meticolosa; era ricca di riferimenti spazio-temporali e di dettagli descrittivi. Egli ricordava ogni minima azione compiuta, ogni pensiero fatto, ogni emozione provata; riferiva quanto accaduto come se stesse riavvolgendo a rallentatore la pellicola di un cortometraggio dalla trama più che drammatica: l’avvenuto sterminio della sua famiglia sotto i suoi occhi. Mentre rispondeva alle domande che gli rivolgevo, ho avuto l’impressione che egli stesse aspettando quel momento da tempo, che stesse cercando quello “spazio” per abbandonarsi al ricordo e alla rievocazione di un evento spaventoso che aveva modificato completamente l’esistenza avuta fino ad allora. Ripercorrere con i ricordi quell’episodio lo ha fatto piangere. Quelle lacrime sembrava che fossero pesanti come maci gni. Le colleghe con le quali ho condiviso il setting si sono stupite della lucidità, reattività e puntualità con le quali N.rispondeva alle mie domande. Nel corso delle riunioni di equipe, tenute dopo gli incontri, mi riferivano dei lunghi silenzi di N., della sua permanente chiusura, della sua presenza scostante. Non sapevo cosa rispondere loro, ma non ne ero stupita; ho pensato che fosse la sua reazione alle probabili vicende traumatiche che aveva vissuto. Da come si comportava nella sala di attesa prima che entrassi nel setting mi era sembrato solamente una persona persa nei suoi pensieri, in attesa di un richiamo al suo presente. Quando iniziai a conoscerlo attraverso le sue narrazioni, pensai, invece, che la sua apparente assenza gli fosse strumentale per la costruzione di quelle relazioni umane e quello “spazio”in cui egli avrebbe messo in scena e fatto rivivere le sue memorie, i suoi pensieri e le sue emozioni più pressanti, dolorose, strazianti. Da allora, ho cominciato a pensare che, forse, dopo quanto gli era accaduto in Senegal e in Gambia, nonostante sembrasse assente, sapesse benissimo di cosa avesse bisogno, dove si trovasse e come ottenerlo. Era stato testimone di atti disumani e non aveva avuto la possibilità di fermarsi, raccontarsi e condividere quella realtà così difficile da accettare. Aveva perso le persone con le quali aveva stabilito un rapporto di fiducia e di confidenza profondo, come suo nonno materno (anni prima della migrazione) e l’amico di famiglia di origine gambiana (al momento della sua partenza), oltre, naturalmente, ai sui affetti più cari: la sua famiglia. Ho pensato che, forse, l’atteggiamento tenuto inizialmente derivava dall’osservazione e dall’analisi dei nostri comportamenti, al fine di valutare se potessimo incarnare quel gruppo di persone immaginato con il quale affrontare e condividere il peso di quelle memorie. Il dispiacere di non aver assistito al funerale della sua famiglia e alla loro sepoltura gli creava molta sofferenza. Riflettendo ancora sulla chiusura di N. riferita dalle colleghe, ricordai due frasi che misi subito in correlazione con quanto via via egli ci raccontava. Una frase che N. disse nel corso dei nostri incontri,lì non ti puoi fidare di nessuno, in riferimento alla presenza fra la popolazione locale dei militanti di quelle forze ribelli che avevano sterminatola sua famiglia.Un’altra, che disse invece la mediatrice transculturale durante una riunione postuma ai nostri incontri,ora ha fiducia in noi, in riferimento al suo pianto e a come egli aveva raccontato quanto gli era accaduto. La fiducia,pertanto, ha rivestito un ruolo centrale in questo “spazio” narrativo al quale, forse N. ha riconosciuto un significato performativo, una cornice rituale/sacra entro cui far circolare ricordi, pensieri, sentimenti ed emozioni legati a eventi di estrema malvagità umana che non trovano ragione di esistere; con l’obiettivo di trovare insieme ai partecipanti/officianti del rito direzioni che gli permettessero di sostenere la consapevolezza che la malvagità è profondamente insita nell’animo umano e che l’esistenza è in balia di forze incontrollabili, come il caso e la fortuna. A mio avviso lo “spazio” narrativo strutturato in tal maniera potenzialmente può contribuire alla ricostruzione di un nuovo ordine cognitivo dopo l’esperienza del trauma, dell’esilio, della perdita degli affetti e dei riferimenti esistenziali precedenti ad essi. Quando abbiamo terminato gli incontri dedicati alla rinarrazione, mi sono separata da N. con l’immagine che potesse essere una persona molto razionale, concreta, pratica,consapevole delle sue qualità, ma poco plastica nel rimodulare alcuni aspetti dei sui sistemi/modelli di riferimento cognitivi e valoriali nel momento in cui lo avessero ostacolato nel superare una contingenza/situazione/evento con la quale non poteva fare a meno di confrontarsi.
Commenti recenti